Sono sdraiato in un cilindro bianco poco più largo del mio corpo, circondato da un ammasso di apparecchiature sofisticate grandi quanto un piccolo camper. È una macchina per la risonanza magnetica funzionale, una delle meraviglie tecnologiche della neuroscienza moderna. Due cuscinetti gonfiabili mi stringono le tempie per tenermi ferma la testa.

“Siamo pronti a cominciare la prossima serie di esercizi”, dice la voce gentile del dottor Horikawa. Ci troviamo sottoterra, in uno dei laboratori della facoltà di medicina dell’università di Tokyo, in Giappone. “Se la sente di andare avanti?”.

“Sì, andiamo”, dico io.

La macchina si rimette in moto. Nei cavi raffreddati che mi avvolgono scorre una corrente che mi riempie la testa di onde radio, spostando dal loro asse di rotazione gli atomi d’idrogeno nel mio cervello e misurando la velocità con cui si riassestano. Per i sensori ora sono trasparente come un bicchier d’acqua. Ogni minuscolo cambiamento del flusso sanguigno in qualunque area del mio cervello viene osservato e registrato in 3d.

Dopo alcuni secondi, una voce femminile mi risuona nelle orecchie sovrastando il frastuono elettronico: “cappello a cilindro”. Chiudo gli occhi e immagino un cappello a cilindro. Qualche secondo dopo un segnale acustico mi invita a valutare la qualità di quella immagine mentale, cosa che faccio con un comando che ho in mano. La voce parla di nuovo: “Estintore”, e ripeto la trafila. Poi arrivano “farfalla”, “cammello”, “motoslitta” e così via, per circa dieci minuti, mentre il sistema controlla l’attivazione delle mie sinapsi cerebrali.

Per la maggioranza delle persone sarebbe un esercizio piuttosto semplice, addirittura divertente. Per me è uno sforzo notevole, perché non “vedo” nessuna di queste cose. Per ogni indicazione che mi viene data, su una scala da zero a cinque valuto l’immagine mentale zero, perché appena chiudo gli occhi quello che vedo non sono oggetti di uso comune, animali o veicoli, ma la parete posteriore delle mie palpebre. Non riesco a formare la più vaga delle immagini. E anche se non è l’oggetto dell’esperimento in corso, con la mente non riesco neppure a evocare suoni, odori o qualsiasi altro tipo di stimolo sensoriale.

Ho quella che viene definita “afantasia”, l’assenza di immaginazione volontaria dei sensi. So cos’è un cappello a cilindro. Posso descrivere le sue caratteristiche principali. Posso perfino disegnarlo su un pezzo di carta. Ma non riesco a visualizzarlo mentalmente. Cosa c’è in me che non va?

Per tutta la vita sono stato consapevole – a volte dolorosamente – delle mie particolarità, dei miei punti di forza e delle mie debolezze. So di avere una pessima memoria, un buon senso dell’orientamento e quella che pensavo fosse una mancanza di “creatività visiva”. Ho sempre pensato che fossero caratteristiche casuali, scollegate, e non me ne curavo granché. Chi non ha le sue stranezze?

Uno su venticinque

Poi, a un certo punto del 2021, ho letto per la prima volta un articolo sull’afantasia, e sono rimasto profondamente colpito: quando qualcuno dice “raffiguratevi questa scena”, non parla metaforicamente! Le persone possono davvero immaginare forme e colori nella loro testa. Dopo questa scoperta ho cominciato a reinterpretare molte delle mie piccole idiosincrasie fino a ricondurle a un unico fenomeno coerente, che coincideva con la descrizione scientifica dell’afantasia. Quando è arrivata la diagnosi ufficiale, ero già sicuro di essere afantasico.

È un tratto che condivido con molti altri. Le notizie su persone che sostenevano di non avere “l’occhio della mente” risalgono all’ottocento, e molti casi sono brevemente menzionati nella letteratura scientifica di tutto il novecento. Eppure questi casi sono stati ignorati e relegati ai margini come anomalie o equivoci.

Solo una decina d’anni fa l’argomento ha cominciato ad attirare l’attenzione. Un uomo si è rivolto ad Adam Zeman, professore di neurologia cognitiva e comportamentale all’università di Exeter, nel Regno Unito, sostenendo di aver perso l’occhio della mente dopo un’operazione al cuore. Nel 2010 Zeman ha pubblicato uno studio in cui dimostrava che, quando cercava d’immaginare le cose, il cervello di quell’uomo si attivava in modo diverso rispetto a quello di altri soggetti.

Le notizie su persone che non avevano “l’occhio della mente” risalgono all’ottocento, eppure questi casi sono stati a lungo ignorati

Era un caso interessante, ma dopo la pubblicazione dell’articolo successe qualcosa di ancora più sorprendente: molte altre persone hanno contattato lo scienziato sostenendo di provare da sempre la stessa cosa.

Zeman e i suoi collaboratori hanno valutato le loro dichiarazioni usando il questionario sulla vividezza dell’immaginazione visiva (Vviq), e hanno riscontrato che questi individui effettivamente sembravano avere poca o nessuna capacità di visualizzazione a comando. I ricercatori hanno pubblicato i loro risultati nel 2015, proponendo di definire la condizione “afantasia”, che in greco significa “mancanza di immagini”.

Grazie a questa nuova etichetta, nella comunità delle neuroscienze e tra le persone comuni si è cominciato a parlare di afantasia. Altri ricercatori in tutto il mondo hanno cominciato a studiarla, e sulle riviste scientifiche il numero di articoli dedicati a questo problema cresce di anno in anno. Ora sappiamo che circa una persona su 25 è “afantasica” (o aphant, nel gergo di internet): una condizione rara, ma sufficientemente comune perché ciascuno di noi conosca più persone appartenenti alla categoria. Per chi è dotato di un occhio interiore affidabile, sentir parlare di afantasia può essere sconcertante. Come si può vivere senza la capacità d’immaginare cose e suoni? La principale fonte di confusione è l’idea che “immaginazione” e “formazione di immagini mentali” siano la stessa cosa. Non è così. Io sono capace di immaginare qualunque cosa, ma senza nessuna rappresentazione sensoriale. Gli oggetti immaginati esistono nella mia mente come concetti interconnessi, come elenchi puntati di fatti che riguardano le cose.

Dan Saelinger, Trunk archive

Per esempio, quando rileggo la scena del Vecchio e il mare di Ernest Hemingway in cui il protagonista combatte contro un enorme marlin, riesco ad assorbire un gran numero di informazioni: siamo sulla sua barca, ondeggiando sulle acque del golfo del Messico, con il sole che picchia senza pietà sul pover’uomo mentre tira la lenza per ore e ore di fila. Posso ragionare sulla situazione, cercare di prevedere cosa succederà e immedesimarmi nel personaggio. Ma niente di tutto questo richiede che io abbia in testa un’immagine della scena. Questo modo di immaginare è probabilmente più astratto di ciò a cui è abituata molta gente, ma non è meno utile.

Un aspetto sorprendente del fenomeno è che, per me, i concetti non si limitano a vagare nel nulla, ma rientrano in coerenti strutture tridimensionali che posso manipolare mentalmente. Nella scena del vecchio pescatore, posso immaginare di sedermi accanto a Santiago e “sentire” la massa del pesce che fluttua accanto alla barca. Forse è questa consapevolezza spaziale a permettermi di orientarmi al buio nella mia camera da letto: so dove sono i mobili e la distanza approssimativa tra gli oggetti anche senza vederli. La scienza non riesce ancora a spiegare perché una persona come me può formare dei pensieri spaziali senza le immagini che li accompagnano, ma alcuni ipotizzano che dipenda da una separazione di queste funzioni nella corteccia visiva e nella zona adiacente.

Per molti la diagnosi provoca una sorta di crisi di autocoscienza. Improvvisamente tutti gli aspetti del tuo carattere finiscono sotto esame

Per i non afantasici è anche difficile immaginare come si possano ricordare i fatti senza richiamare alla mente immagini, odori o suoni. Gli scienziati stanno tentando di sbrogliare anche questa difficile questione. In uno studio del 2015 un gruppo di ricercatori guidato dalla psicologa Daniela Palombo ha individuato una nuova sindrome, chiamandola “memoria autobiografica gravemente deficitaria” (Sdam). Le persone affette da Sdam non hanno la capacità di rivivere con la mente le esperienze del loro passato. È una condizione rara, ma un’analisi preliminare suggerisce un legame con l’afantasia: su un campione di duemila soggetti affetti da Sdam, il 51 per cento soffre anche di afantasia.

Capro espiatorio

La mia esperienza personale è simile. Gli episodi della mia vita passata – se e quando riesco a ricordarli – mi sembrano lontani e non sensoriali. La Sdam è una nuova scoperta, ancora sconosciuta a gran parte degli psichiatri, perciò le persone come me per il momento devono affidarsi all’autodiagnosi. Ma i sintomi descritti dai ricercatori coincidono con quello che ho sempre dato per scontato. Io descriverei i miei ricordi come riassunti di fatti cruciali piuttosto che “film mentali” in prima persona.

Quando mi chiedono di un’esperienza che sicuramente ho vissuto – una festa di compleanno da bambino, poniamo – la mia mente prima di tutto reagisce disegnando uno spazio vuoto. È come se i miei ricordi episodici fossero archiviati in uno “schedario mentale” senza un indice. Molti sono lì, da qualche parte, ma recuperarli è un compito arduo, a meno che non mi vengano fornite indicazioni molto precise. Procedendo a tentoni con qualche lavoro di deduzione (dove vivevo all’epoca? Chi frequentavo di solito?) riesco a mettere insieme abbastanza indizi per ricostruire certe ambientazioni e fatti non visivi: una grande festa nel nostro giardino quando avevo undici o dodici anni, c’era una torta, molti bambini che correvano, ed è tutto.

Che effetto ha tutto questo sulla mia vita? La risposta sorprendente è nessuno, almeno non debilitante. Per fortuna la gente raramente mi chiede cos’è successo a una festa decenni fa. Ma perfino quando ho bisogno di descrivere scene o persone visivamente, di solito ho abbastanza eloquenza e “fatti verbali” per dare una risposta soddisfacente, senza dover riprodurre le vere immagini nella mia mente.

Gli scienziati sembrano concordare sul fatto che l’afantasia non può essere definita una disabilità, e che gli afantasici hanno lo stesso successo degli altri nella vita personale e professionale. Questo sembra confermato da un nuovo studio pubblicato da due ricercatori della Sorbona di Parigi. Hanno sottoposto dei volontari, tra cui molti afantasici, a una serie di test che implicavano il confronto mentale di forme, colori, parole, volti e relazioni spaziali. Gli afantasici sono stati precisi come gli altri partecipanti in tutte le prove, anche se hanno impiegato più tempo a risolvere quelle basate sulle immagini, presumibilmente perché hanno usato strategie diverse e meno dirette.

Quelle che sembrano differenze fondamentali nel modo di pensare non portano a barriere sostanziali nel modo di comunicare

Eppure alcuni sono presi dallo sconforto quando scoprono di avere l’afantasia. Ho sentito dire cose come “tutta la mia vita è stata una menzogna” e “dev’essere stato questo a distruggere il mio matrimonio.” Anche se non sono così pessimista, posso capire. Certo, forse l’afantasia e la Sdam non causano grossi problemi nella vita quotidiana, ma i loro effetti sottili non possono sommarsi nel tempo? E non potrebbero essere la causa di molte altre debolezze e mancanze?

Per molti la diagnosi provoca una sorta di crisi di autocoscienza. Improvvisamente tutti gli aspetti del tuo carattere finiscono sotto esame, e dare la colpa alla tua afantasia congenita è una tentazione quasi irresistibile. Disegnare senza un riferimento mi risulta così difficile perché sono afantasico? Forse è colpa della Sdam se non sono capace di mantenere i contatti con le persone? Sarei meno impacciato se non l’avessi? Pochissimi di questi ipotetici collegamenti sono stati indagati e tanto meno confermati da studi scientifici. Eppure quasi tutti gli afantasici con cui ho parlato si fanno le stesse domande. E ciascuno sembra concentrare i suoi dubbi su tutto quello che non apprezza di sé, trovando un capro espiatorio per i propri difetti.

Io ho imparato ad accettare la diversità dell’afantasia, e spero di contribuire a farla conoscere. E con me Junichi Takahashi, il primo ricercatore a cui ho parlato della mia condizione. Takahashi è uno psicologo dell’università di Fukushima, ed è stato uno dei primi scienziati a occuparsi di afantasia in Giappone, dove vivo dal 2011.

Invece di considerare l’afantasia come un singolo fenomeno, Takahashi sta cercando di fare chiarezza sulla sua varietà. Nel luglio 2023 insieme ad alcuni colleghi ha pubblicato un articolo in cui si esaminavano alcuni sottotipi di afantasia. Quasi tutti gli studi precedenti si affidavano esclusivamente al Vviq per individuare gli afantasici, mentre Takahashi e la sua squadra hanno sottoposto ai soggetti anche una serie di quiz psicologici e hanno analizzato le correlazioni.

Uno dei questionari valutava l’immaginazione multisensoriale, includendo l’udito, l’olfatto e gli altri sensi. Gli afantasici riescono a riprodurre mentalmente la voce dei genitori o il gusto di una torta? Un altro questionario verificava la tendenza a pensare in modo verbale (cioè affidarsi prevalentemente alle parole per capire le cose) o visivo (cioè ricorrere soprattutto alle immagini). Un altro ancora mirava a individuare la prosopagnosia, cioè l’incapacità di riconoscere i volti.

L’analisi statistica ha rivelato che tutti questi fattori sono in qualche modo correlati, ma non completamente. Per esempio, molti soggetti afantasici erano privi di tutti i “sensi mentali”, ma alcuni avevano la capacità di immaginare i suoni, i sapori o altre sensazioni non visive. Lo studio ha anche scoperto che la prosopagnosia è più frequente tra le persone affette da afantasia (40 per cento) che nel gruppo di controllo (20 per cento), ma non è un tratto comune a tutti gli afantasici.

Questo ci porta all’annosa domanda: come sappiamo che l’afantasia esiste davvero, e che non è una forma di negazione psicologica o semplicemente una diversa interpretazione della stessa esperienza interiore?

Quando l’afantasia venne ufficialmente proposta per la prima volta, alcuni ricercatori si chiesero se la presunta incapacità di visualizzazione non fosse un tratto congenito, ma un problema psicopatologico, come una neurosi o una risposta difensiva al trauma. Una sorta di “barriera linguistica filosofica” complica ulteriormente la questione: forse parliamo della stessa cosa con parole diverse, e poiché il linguaggio è il solo mezzo a nostra disposizione per confrontare le esperienze interiori, non c’è (o meglio, non c’era) modo di confermarlo. Anche il filosofo Ludwig Wittgenstein si poneva lo stesso interrogativo più di sessant’anni prima che l’afantasia ricevesse il suo nome: se una persona sostiene di non potersi fare un’immagine mentale, eppure è in grado di disegnarne una, dobbiamo credere che nella sua testa succede davvero qualcosa di diverso?

Gli scienziati stanno trovando dei sistemi per rispondere a queste domande con fatti oggettivi. “Ancora prima che l’afantasia fosse individuata, i ricercatori provarono a separare le persone con un punteggio basso nel test Vviq da quelle con un punteggio alto e scoprirono che tra i due gruppi ci sono differenze nell’esecuzione di alcuni compiti”, mi ha spiegato Takahashi. “Molti studi inoltre mostrano una correlazione significativa tra i risultati del Vviq e quelli della risonanza magnetica funzionale”. Il questionario quindi sembra davvero in grado di individuare le persone con capacità di visualizzazione diverse.

Tra i gruppi che lavorano su questo fronte, uno dei più attivi è quello di Joel Pearson, dell’università del New South Wales, in Australia. Nel 2022 Pearson ha scoperto che, mentre le pupille di regola si contraggono involontariamente quando immaginiamo forme luminose, negli afantasici questa reazione è assente. È la prima differenza fisiologica che conferma le dichiarazioni di quanti sostengono di essere affetti da afantasia. Sembra che, almeno nella maggioranza dei casi, avvenga davvero qualcosa di diverso nella nostra testa.

Alcuni stanno cercando di spingersi ancora oltre. È per questo che periodicamente m’infilo in una macchina per la risonanza magnetica nel laboratorio del dottor Horikawa e mi faccio esaminare il cervello. Tomoyasu Horikawa è specializzato nell’uso dell’intelligenza artificiale per decifrare i contenuti della corteccia visiva umana. Recentemente ha rivolto la sua attenzione all’afantasia. Un’analisi preliminare dei dati che ha raccolto mostra una differenza quantitativa tra l’attività cerebrale nei soggetti afantasici e non afantasici quando immaginano le cose. Potrebbe rivelarsi la prova migliore delle differenze neurali tra le persone afantasiche e non.

Continente sconosciuto

Tutto considerato, sapere della mia afantasia mi ha reso doppiamente ottimista, a livello collettivo e personale. L’afantasia si sta rivelando una piccola cornucopia di conoscenze scientifiche. Gli scienziati stanno lavorando con gli afantasici non solo per capire la loro condizione, ma anche per fare luce sul complesso funzionamento del cervello umano.

Rebecca Keogh, una neuroscienziata cognitiva della Macquarie University in Australia, ha approfondito i meccanismi del disturbo da stress post-traumatico (Ptsd) confrontando la frequenza di pensieri intrusivi tra gli afantasici e le altre persone. Secondo Horikawa, l’afantasia è un modo per isolare con precisione i processi neurali che creano immagini mentali.

Di recente un altro gruppo di ricercatori ha pubblicato un articolo su Nature Reviews Psychology proponendo di usare l’afantasia per risolvere dibattiti di vecchia data sulla embodied cognition, o cognizione incarnata, una teoria secondo cui il pensiero è un processo che implica simulazioni mentali del corpo e delle sensazioni, e non solo concetti astratti e simboli. L’assenza di qualcosa – come la mancanza di “sensi interiori” negli afantasici – può insegnarci molto sulla sua presenza.

In un certo senso, scoprire l’afantasia è un po’ come approdare su una spiaggia in un continente sconosciuto. Sappiamo che è qualcosa di nuovo, ma non abbiamo idea della sua geografia e delle sue dimensioni. La dicotomia tra “afantasici” e “tutti gli altri” potrebbe avere vita breve. Gli studi sui sottotipi condotti da Takahashi e altri potrebbero portare a una mappa più dettagliata della miriade di modi in cui la mancanza di visualizzazione si manifesta nelle persone, e di strategie con cui è possibile aggirarla e neutralizzarla. Il cervello sembra avere sempre più sorprese in serbo per noi, più sfaccettature e interconnessioni dove ci aspettavamo semplicità. Ora abbiamo un paesaggio ancora più interessante da esplorare.

E ora che questa diversità è messa a fuoco, è più facile meravigliarsi davanti al paradosso della cooperazione umana. Quelle che sembrerebbero differenze fondamentali nel modo di pensare non portano a barriere sostanziali nel modo di parlarci, entrare in relazione e amarci: riusciamo a creare società e comunità fiorenti malgrado queste differenze cognitive, o forse grazie a esse.

A livello personale, la mia “crisi di autocoscienza” è stata eclissata da una più forte “rinascita di autoconoscenza”. Scoprire di essere afantasico mi ha fatto prendere l’abitudine di osservare attentamente la mia esperienza interiore. Mi ha portato a capire che potrei avere anche la Sdam e una lieve sinestesia, a cui prima non avevo mai fatto caso. Ha anche affinato la mia capacità di spiegare agli altri cosa succede dentro di me. Sento di aver guadagnato molto e non aver perso niente.

A volte mi chiedono se l’afantasia si può curare. La risposta facile è no, perché non si può curare quella che non è una malattia, e in ogni caso non ne sappiamo ancora abbastanza. La risposta più sincera è che non vorrei eliminare la mia afantasia neppure se fosse possibile. A prescindere dai suoi effetti, ha contribuito a fare di me la persona che sono oggi. E ne sono contento. La domanda da cui sono partito – cosa c’è in me che non va? – era retorica e allo stesso tempo sbagliata. La domanda migliore è quella che ci poniamo tutti a un certo punto della nostra vita: “Cosa mi rende quello che sono?”. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati