Angelo Monne

San Pietroburgo, 11 aprile 2019, hotel Kempinski. Comincia qui, intorno alle otto del mattino, la mia ossessione per padre Iakov. Un’ossessione che ha finito per portarmi dentro una storia maledetta, diabolicamente connessa agli eventi delle prime ore dell’invasione dell’Ucraina e utile per capire il ruolo dei vertici cristiano-ortodossi nell’offensiva antioccidentale di Mosca. “Padre, permette?”, chiedo. “Intanto il modo corretto per rivolgersi a me è sua beatitudine, oppure vladika, vescovo”, mi ferma appena m’affaccio con deferenza al suo tavolo, quando vedo che è solo e mi pare abbia finito di fare colazione. L’ho osservato a lungo a debita distanza mentre mangiava quattro uova sode, accompagnandole con un paio di bicchieri di champagne. Per circa un’ora è rimasto seduto insieme a un uomo tarchiato, dall’ampio ventre, dalla grossa, rosea testa pelata sulla quale poggiano, come ali di falena, due baffi nerissimi. Si tratta di Vjačeslav Rukša, detto Rimorchiatore per la sua stazza e perché a lungo ha guidato i cantieri navali di Murmansk. Ora è il potentissimo vicedirettore di Rosatom, l’agenzia statale russa per l’energia nucleare, incaricato dal Cremlino di gestire lo sviluppo della rotta del mare del Nord, la via marittima lunga diecimila chilometri, dal mare di Barents allo stretto di Bering, una sorta di via Appia artica del neoimperialismo russo. L’amicizia di Rukša con Vladimir Putin risale all’adolescenza, quando vivevano nello stesso quartiere operaio di Leningrado, oggi San Pietroburgo.

Rukša e il vladika Iakov sono reduci, come me, dall’International arctic forum, due giorni d’incontri per mettere in vetrina l’ambizioso progetto per l’Artico della Federazione russa, che si sono conclusi ieri sera in pompa magna con l’intervento di Putin. Il vladika, con la skufia nera a cilindro che svettava su tutte le teste, era in prima fila – davanti alla poltrona del presidente – seduto accanto al suo amico Rimorchiatore. Ma già il giorno precedente, all’inizio del convegno, mentre ero nell’atrio del centro Roscongress con un caffè in mano, avevo colto il rango del personaggio. Anzi, ero proprio stato travolto e risucchiato nel vortice messianico scatenato al passaggio, tra noi comuni contemporanei dotati di badge, di questa figura arrivata da chissà quale luogo e da chissà quale epoca. Incedeva svelto, ad ampie falcate, alto, dritto e atletico nella sua lunga veste di archimandrita in gabardina nera, incurante di tutti coloro che gli facevano largo, chinavano la testa e si segnavano alla maniera ortodossa. Guardava diritto davanti a sé verso un punto in fondo alla sala, con la grossa croce d’argento che oscillava a ogni passo come un turibolo sotto la barbona brizzolata e in un attimo, così com’era apparso, era poi scomparso, lasciando dietro di sé un odore arcaico e rancido di umido e di cipolla. “Ma chi è quel tipo, che ci fa qui?”, avevo chiesto a Olga, addetta stampa del governatore della Jacuzia, appena mi ero riavuto dalla straniante visione. “È un monaco, il più potente di tutte le Russie”, aveva risposto Olga. “Dipende direttamente dal patriarca Kirill, che l’ha nominato vescovo dell’Artico, per presidiare la parrocchia più a nord del pianeta. Kirill ha creato quella parrocchia apposta per lui nella regione di Narjan-Mar, un’area sterminata che comprende anche gli arcipelaghi polari di Novaja Zemlja e della Terra di Francesco Giuseppe. Perché è qui? Perché è un’icona assoluta. Lassù, nell’Artico russo, non succede niente senza la sua benedizione. Putin decide e ordina, Iakov benedice e consacra”.

“Permette?”. Il vladika ha ancora qualche residuo di uovo sodo impigliato tra i peli della barba quando mi siedo al suo tavolo nella sala Beau rivage del Kempinski. Stamattina porta in testa il kalimavkion nero a cilindro, con un velo che scende fin dietro alle spalle. Intreccia le dita delle mani, curate e robuste, nessun anello. Alza gli occhi da un foglio fitto d’appunti disordinati, mi punta addosso uno sguardo che ha assorbito tutte le sfumature del ghiaccio, ma le pupille sono accese ed eccitate da pensieri che sembrano ardergli nel cervello come febbre. Con un sorriso gentile e forse spietato, dice che deve ripartire, non ha tempo. Parla un inglese ostentatamente perfetto.

Gli chiedo di raccontarmi di lassù, dove vive. Gli spiego che sono stato in molti luoghi dell’Artico, ma non ho mai visitato la terra dei nenets, cioè la regione di Narjan-Mar. E poi vorrei sapere di lui: mi hanno detto che oltre che teologo è filologo ed esperto di Puškin. Il gancio del poeta nazionale afferra la sua vanità. “Pensi com’è stato sconsiderato da parte mia cominciare gli studi da Shakespeare, dal vostro occidente individualista e pieno di dubbi. Pensi quanto sono stato incauto”, mi dice, mettendosi a braccia conserte. “All’inizio, all’università statale di Mosca ho studiato letteratura inglese, ma mi sembrava d’aver tradito la Russia e mia madre, che mi leggeva i nostri classici quand’ero bambino. Abitavamo nel territorio di Stavropol, sul versante settentrionale del Caucaso, alle pendici del monte Elbrus. Una comunità dove è ancora forte la tradizione cosacca, lì tutti sono battezzati e fieri di essere russi. Poco distante da noi, a Pjatigorsk, nacque Michail Lermontov: mia mamma recitava a memoria il suo poema più potente, Il demone. Studiando Puškin, Gogol, Dostoevskij ho incontrato la fede in Cristo e nella Santa Russia, e ho abbracciato l’ascetismo monacale. La letteratura russa supera tutte le altre per il fatto che noi siamo stati capaci di rispondere alle domande più importanti della vita. E non alla maniera d’Amleto, ma con estrema certezza. Dagli scrittori russi ho sempre ricevuto risposte chiare, come quando all’accademia teologica di Mosca, al terzo anno di seminario, nel 1987, sono stato tra i pochi a salvarsi da un incendio. C’era chi si gettava dalle finestre, io ho attraversato il fuoco”. Padre Iakov racconta di essere rimasto chiuso vent’anni nel monastero della trinità di San Sergio, a est di Mosca, prima d’essere nominato archimandrita da sua santità il patriarca Kirill. “Lo sa che i bolscevichi avevano trasformato quel monastero, il fulcro della spiritualità ortodossa russa, in un centro per l’addestramento dei radiotelegrafisti? Intendevano colpire senza pietà l’anima spirituale del nostro popolo”.

Mi parla quindi di Pavel Florenskij, sacerdote, teologo, filosofo e grande matematico – “il Leonardo da Vinci della Russia”, lo definì il suo amico Sergej Bulgakov – fucilato dai bolscevichi a Leningrado nel 1937. “Ne ho scritto qui, doveva essere il mio intervento ieri davanti al presidente, poi abbiamo scelto diversamente. Citavo le parole sapienti di padre Florenskij – ‘È dalla scienza che nasce la vera fede’ – per rivolgermi a chi dedica la propria vita a studiare l’Artico e a trovare soluzioni per sviluppare quella regione, la più ricca che esista sulla Terra, donata da Dio alla Russia. È venuto il momento che nel grande nord la scienza, la vera scienza, si faccia fede, perché il destino della Russia è nella fede, e l’Artico russo parla di questo, della nostra missione spirituale nel mondo”.

Prendo nota, ma mi sfugge il filo del discorso. Conosco bene la mistica russa per il grande nord, che risale ai tempi di Pietro il grande, l’attrazione per l’estremo, il culto dell’eroe che sfida l’ignoto e la natura in nome della patria, zarista, socialista o putinista che sia; so anche cosa significa l’Artico per la Russia di Putin: il bancomat e l’assicurazione sulla vita del suo regime, un asset geopolitico formidabile, la cassaforte delle sue risorse energetiche e minerarie sempre più accessibili grazie al cambiamento climatico, la regione dove il Cremlino concentra quasi tutti gli investimenti economici e la sua potenza nucleare. Ma che c’entra Dio con il petrolio, il gas, l’oro o il nickel? Resto confuso da questo monaco crociato venuto dal ghiaccio, che sembra rimestare in una coscienza remota, antimoderna, piena di cupo rancore. Improvvisamente vedo in lui l’icona di cui parlava Olga, ma in una forma minacciosa: comincio a intuire l’esistenza di un’ideologia, o teologia, dell’Artico come Terra santa della grande Russia immaginata dal nuovo zar.

Padre Iakov incedeva svelto, ad ampie falcate, alto, dritto e atletico nella sua lunga veste in gabardina nera, incurante di tutti quelli che gli facevano largo e chinavano la testa

Il vladika parla a bassa voce, lentamente, per poi accelerare con rabbia: “È tempo di una profonda e radicale ricostruzione. La storia della Russia e la storia dell’Artico sono immerse nel pathos della fede, perché i pionieri si sono inoltrati senza sapere dove avrebbero trovato nuove terre, cosa avrebbero incontrato, se sarebbero ritornati. Erano guidati dalla fede. E nell’Artico oggi io vedo ancora russi così, gente vera, come il mio amico Rukša, che governa la rotta del mare del Nord, perché altrimenti sarebbero degli estranei a farlo. Non solo lassù la vita è dura, ma l’Artico è il culmine della vita stessa e della conquista, devi essere forte spiritualmente, mentalmente, moralmente, fisicamente e politicamente. Nell’Artico c’è la vera Russia, perché al nord c’è il divino, mentre al sud c’è la natura umana”. Il vladika allarga di nuovo il suo raggelante sorriso, gentile ma impietoso, mostrando denti bianchissimi tra il folto della barba. “Il nord fu abbandonato durante il collasso dello stato, negli anni novanta, e le forze che rappresentano il capitale straniero ne hanno approfittato. Come una bomba è arrivato il sabotaggio ideologico attraverso predicatori battisti e pastori protestanti pagati da americani e norvegesi”. Non ci sono prove per questa affermazione, ma il vladika continua imperterrito: “E i nenets, come tutti gli indigeni del nord, sono ingenui, abituati alla tundra, non a distinguere tra bene e male. Queste sette protestanti sono una minaccia, un’emanazione di Satana tentatore, dell’occidente secondo cui tutto è possibile”. Mi centra negli occhi con quei suoi due cubetti di ghiaccio: “Per voi cattolici il fine giustifica i mezzi, per la Russia ortodossa solo con la verità si combatte il male e si conquistano i cuori. Oggi vediamo come s’infettano le coscienze con idee anti-russe. E come la verità non conta più nulla. Il profeta Ezra nel suo terzo libro dice che arriverà un tempo quando un’area del mondo chiederà all’altra: ‘Ma non hai visto la verità, ti è per caso sfuggita?’. È quel che succede in Ucraina, si è persa di vista la verità. Ma tutto sta tornando alla normalità, la chiesa ortodossa russa santifica il ritorno della Russia, partendo dal grande nord. Solo la Russia ha scelto il nord come benedizione suprema, come elemento dominante della sua esistenza. Lei conosce la frase di Michail Vasilevič Lomonosov? ‘La Russia crescerà in Siberia e nel ghiaccio e imporrà il suo ordine’. È l’eccezione della nostra civiltà. Da lì traiamo forza e destino”.

Il vladika accetta un tè. Gli dico che vorrei passare qualche giorno con lui a Narjan-Mar, raccontare la sua storia dal posto dove vive, visitare la chiesa di San Nicola nell’isola di Aleksandra, l’ultima da lui consacrata, come mi ha spiegato, “perché è la roccia più vicina al polo nord ed è russa ed è benedetta da Dio”.

“Però, vladika, come si può fare? Lei sa bene che è impossibile per un giornalista occidentale entrare in quelle regioni senza un invito e adeguate autorizzazioni da parte dell’Fsb, il servizio dì sicurezza federale russo. Sarebbe fantastico se lei potesse spedirmi una lettera dalla diocesi, e magari chiedere i permessi all’intelligence territoriale”. Mi risponde che per lui va bene, più avanti però, perché ha in programma lunghi viaggi, all’isola di Sachalin, alle isole Curili, e poi in Antartide, perché Kirill l’ha nominato anche vescovo del polo sud. “Ho consacrato la chiesa della nostra stazione scientifica di Bellingshausen nel 2014, ho celebrato insieme al patriarca nel 2016. Arrivava direttamente da Cuba, dove aveva incontrato il papa”. L’incontro tra i capi delle due chiese interrompeva quasi mille anni di silenzio, era stato un barlume di speranza ecumenica che sarebbe presto svanito. Poi il vladika precisa: “Ma la mia missione è l’Artico”.

S’è già alzato quando mi racconta del Progetto Russia artica, voluto dal patriarca Kirill nel 2016. Allora si trovavano entrambi in missione alle isole Solo­vets­kie, nel mar Bianco, chiamate anche isole del Martirio perché sono l’alma mater dei lager sovietici (dove morirono più di un milione di persone), l’arcipelago-gulag creato in un complesso monastico del cinquecento simbolo dell’ascetismo ortodosso. “È un progetto patriarcale di rinascita, di ritorno alla nostra missione nel nord. Secondo il presidente Vladimir Vladimirovič Putin il processo spirituale deve affiancare quello statale, soprattutto per lo sviluppo della rotta del mare del Nord. È l’unico passaggio naturale tra i due mondi che hanno determinato il destino dell’umanità, l’Europa e l’Oriente, e per questo sempre cercato dall’uomo. Una via marittima benedetta, diversamente da quelle di Suez e Panamá, scavate invece nella roccia, a conferma della profezia del libro di Giobbe: ‘Contro la selce l’uomo stenderà la mano, sconvolgerà i monti fin dalle radici, nelle rocce scaverà canali…’”.

L’ultima immagine è quella dell’archimandrita che sale con grande agilità e svolazzo di vesti nere sul sedile posteriore di una Mercedes blu davanti all’hotel, lungo il fiume Mojka. Sullo sfondo s’intravede l’Ermitage inondato dal sole d’aprile.

L’ossessione mi insegue da quell’incontro fugace di San Pietroburgo. Scrivo diverse email al vladika, a un indirizzo che comprende le parole orthodox-arktika. E qualche volta mi risponde: con una parola di benedizione o con l’auspicio di poterci rivedere a Narjan-Mar. Poi, a un certo punto, decido di chiedere aiuto ad Andrej (il nome è fittizio), un collega e amico di Mosca che mi ha più volte accompagnato nell’Artico russo, che è capace di risolvere situazioni molto complicate e conosce i meccanismi paranoici del potere putiniano. Andrej concorda con padre Iakov un piano per raggiungerlo nella prima settimana di marzo 2022, in coincidenza con la maslenitsa, i giorni di festa che precedono la quaresima ortodossa, detti anche i giorni del burro o delle frittelle. Ma più che i bliny, ad affascinarmi è il contesto tradizionale e religioso in cui dovrò incontrare il vladika Iakov a Narjan-Mar, nella sua grande chiesa in legno, sul maestoso fiume Pečora ancora ghiacciato, proprio nel punto in cui sfocia sul mare di Barents. M’immagino di accompagnarlo in elicottero in qualche villaggio di mandriani nenets, o in una visita ai nuovi impianti petroliferi della Lukoil da lui benedetti, come mi ha accennato.

È la fine di gennaio, la Russia ha già ammassato 130mila uomini a ridosso del confine ucraino. Un giorno d’inizio febbraio Andrej mi scrive che ha incontrato Iakov a Mosca: “Mi ha raccontato che è stato ufficiale dell’Armata rossa al confine cinese, a metà degli anni ottanta, dice che è stata un’esperienza fondamentale, di assoluta obbedienza. Significa che è stato un uomo del Kgb e oggi appartiene all’Fsb, garantito. Proprio come Kirill, d’altronde. Ho saputo che quest’uomo ha accesso al Cremlino, ha rapporti diretti con Putin. Ma ne parleremo con calma”.

Angelo Monne

Verso la metà di febbraio Andrej scrive che si è creata un’opportunità intrigante, vale la pena di cambiare programma: il vladika ha organizzato una specie di processione in convoglio da Mosca verso il nord, fino a Narjan-Mar: sei giorni di pellegrinaggio per consacrare “la via patriottica della vita”, così l’ha chiamata. Il percorso toccherà il monastero della trinità di San Sergio, a Sergiev Posad, poi Jaroslavl, con una visita alla cattedrale dell’Assunzione e al monastero di Jaroslav il saggio, quindi il monastero di Ipatev a Kostroma e vari altri siti sacri, fino a raggiungere Sudislav, Makarev, Syktyvkar, Usinsk, Uchta…

Appuntamento il 28 febbraio alle sei del mattino sulla piazza Rossa, sono nella lista con una decina di pope (i sacerdoti della chiesa ortodossa). Il conto alla rovescia per la mia partenza coincide terribilmente con quello della Cia sull’invasione russa dell’Ucraina. Mi chiedo che senso ha ormai questa mia storia minore sul Rasputin della tundra se scatta l’attacco, ma le fissazioni sono sorde al buon senso. Arriva quindi l’“operazione speciale” del 24 febbraio, seguita dalla prima risposta, con le sanzioni. I cieli d’Europa si chiudono ai voli da e per Mosca.

Il 27 non riesco a partire, cerco di comunicare con Andrej – che dovrebbe venire a prendermi all’aeroporto alle tre del mattino e accompagnarmi al punto di raccolta – ma è scomparso dai radar, l’ultimo accesso su WhatsApp è alle 17.12 del 26 febbraio. Trovo un volo via Istanbul per il 28, ma prima d’acquistarlo raggiungo al telefono il vladika, che a quel punto è già in pellegrinaggio a inaugurare quella sua specie di cammino di Santiago artico. Spiego la situazione, la ragione della mia assenza sulla piazza Rossa, e dico di non avere notizie di Andrej. “Sarà stato arrestato”, risponde padre Iakov, “perché ha partecipato a qualche manifestazione, oppure perché è in contatto con lei. Ora siamo in guerra con l’occidente, giusto?”. Sembra eccitato, il tono è beffardo. Sua beatitudine, potrei raggiungerla a metà strada, magari a Syktyvkar? Accetta, con disinteresse e scetticismo, poi cade la linea. E qui comincia la caccia maledetta. Mi rivolgo a un altro amico di Mosca, Maksim (altro nome fittizio), un giovane economista che s’è formato a Londra, è stato appena licenziato dalla Nordgold, società mineraria colpita dalle sanzioni, e quindi ha tempo per darmi una mano. Prima di lasciare Milano, gli giro il contatto di Iakov e il programma di viaggio della processione patriottica. Allo scalo di Istanbul ricevo notizie da Maksim: il vladika gli ha scritto che non può più prendermi a bordo. “Le circostanze cambiano, ed è evidente che i piani originali non sono realistici, sono diventati troppo futili dopo il 24 febbraio. Abbiamo altre priorità a cui tutto è subordinato, inclusa la nostra vita terrena”, scrive su Telegram. “Ogni fattore esterno è insignificante. Tutto ciò che non risponde pienamente alla nostra missione è oltre la missione”. Maksim è confuso, è abituato ai numeri, non a questo gergo misterico: “Sei proprio sicuro di voler incontrare un personaggio così inquietante?”, mi scrive.

Il 1 marzo pranziamo insieme nei pressi della stazione Belorusskij a Mosca. Come va, Maksim? “Sono appena stato due settimane a Cuba”, mi racconta, “osservavo il sistema, le due valute, il mercato nero, le Žiguli scassate. Com’era una volta da noi, pensavo, quasi divertito. Ora invece quello sarà il mio futuro, Žiguli a parte”. Mi mostra le varie chat sul cellulare, gli amici che gli propongono d’aggregarsi per fuggire in Georgia, la mamma che gli raccomanda di fare scorte di generi alimentari: “La sua generazione ha vissuto la fame degli anni novanta, lei ancora si ricorda la felicità per una confezione di Nescafé come regalo di compleanno. Ieri ho comprato un po’ di roba. Mi ha sorpreso una cosa: dagli scaffali è sparito l’olio d’oliva. Vedi come ci siamo viziati in questi anni? Così sai cosa portarmi la prossima volta, una bottiglia d’olio d’oliva. La rivenderò per pagare il mutuo”. Poi mi dice che aspetta una telefonata, c’è la possibilità che succeda una cosa incredibile: una sua amica lavora per una certa Ekaterina Kuzmina, direttrice di Effekt mamonta (effetto mammut), un’ong che produce documentari sul cambiamento climatico nell’Artico e coordina progetti scientifici in Siberia orientale e in Jacuzia sulla clonazione dei mammut che si estinsero con l’ultima glaciazione. “Sono coinvolti capitali e scienziati russi, giapponesi, coreani e statunitensi, e milioni di euro. Ma ora con la guerra salta tutto, mi sa che si dovrà attendere la prossima glaciazione”. Maksim, che c’entrano i mammut? Io voglio il vescovo. “Pare che Ekaterina sia molto legata a lui, gli ha donato un sacco di soldi, Iakov è il suo padre spirituale. Lo chiamerà per convincerlo a riceverti, a questo punto direttamente a Narjan-Mar, mi sa”.

Ekaterina mi telefona, mi fa sapere che ci sono buone prospettive e che vuole vedermi tra due giorni a colazione, al caffè Buro, davanti al vecchio palazzo del Politburo e vicino alla sede della Vtb Bank, di cui è un’alta dirigente. E poi c’è un’altra cosa. Maksim ha fissato un incontro con una persona, un ex ingegnere negli impianti della Lukoil nell’alto bacino del Pečora, che può raccontarmi un po’ di cose sul vladika: l’ha conosciuto ed è in contatto con ambienti dissidenti del patriarcato. Ci incontriamo al ponte dei Patriarchi, accanto alla chiesa del Cristo redentore, con vista sul Cremlino. Urlano le sirene dei furgoni della polizia diretti in piazza Puškin per caricare i pacifisti. “La spedizione religiosa a cui dovevi partecipare è partita da qui”, dice l’ingegnere, devoto cristiano e contrario alla linea guerrafondaia di Kirill. “È un luogo altamente simbolico per questi crociati fascisti. La spedizione è stata organizzata da Iakov per celebrare l’invasione dell’Ucraina, un vero pellegrinaggio per chiedere a Dio la conquista dell’Ucraina e l’annientamento della chiesa scismatica di Kiev. Il vladika è il tramite tra Kirill e i militari. Vedi lì sotto?”, e dal ponte indica il corpo inferiore della chiesa con un’uscita che affaccia sulla Moscova. Un vento freddo gli scompiglia i capelli biondi sulla fronte. “So per certo che proprio lì, la sera del 27 febbraio, c’è stato un incontro a cui erano presenti funzionari del ministero della difesa, il vescovo Iakov e altri religiosi, compreso Mitrofan, il metropolita di Murmansk, un fanatico scatenato”.

Mentre parla, l’ingegnere tormenta tra l’indice e il pollice una croce di legno appesa al collo. “Nell’Artico Iakov ha benedetto quattordici nuove basi militari. Nel 2017 è volato con Putin, il premier Dmitrij Medvedev e il ministro della difesa Sergej Šojgu fino all’isola di Aleksandra, nella Terra di Francesco Giuseppe, per consacrare la base Trifoglio artico, la più avanzata nell’oceano polare, una specie d’astronave attrezzata per la guerra bianca, con pista riscaldata per caccia e bombardieri. Nel 2012 è stato il primo prelato a raggiungere il polo nord, come rappresentante di Kirill. Ha inabissato una capsula di titanio che aveva dentro un documento con cui il patriarca sanciva il dominio storico e religioso della Russia sull’Artico”.

All’appuntamento Ekaterina arriva puntuale. Anzi appare, materializzandosi al Caffè Buro come un arcangelo supersexy sui trent’anni. Indossa un tailleur celeste, con una scollatura abissale, scarpe tacco dodici laccate di blu, il volto diafano e bellissimo è incorniciato in un caschetto castano: “Eccomi, sono Katja”. Rimaniamo storditi, Maksim mi stava parlando di Fëdor, marito ucraino di sua zia, asserragliato nella centrale nucleare di Zaporižžja sotto attacco russo nel sud dell’Ucraina, e in un attimo siamo inondati dallo sguardo verde e raggiante di Katja, colmo di promesse. Si presenta allungando il dorso candido della mano, così da esibire un grosso diamante come biglietto da visita. La mia caccia al vescovo sembra finita, ho la preda quasi in bocca. Katja annuncia che Iakov ha accettato d’accogliermi a Narjan-Mar. Il suo “viaggio patriarcale” sta andando più veloce del previsto, arriverà tra un giorno, e per me ha preparato un’accoglienza in grande, compreso l’uso di un elicottero per raggiungere alcuni avamposti della fede nella tundra e forse addirittura Belušja Guba a Novaja Zemlja, dove il vladika deve consacrare una nuova chiesa. Ne avrò di roba da raccontare: una storia dal backstage della guerra, faccia a faccia con una delle menti che alimentano la dottrina della rinascita imperiale russa. Katja mi chiede d’inoltrarle un breve curriculum e una generica lista dei temi che intendo trattare con Iakov. Chiama anche la sua collaboratrice in banca per verificare i voli per Narjan-Mar: ce n’è uno nel secondo pomeriggio via Archangelsk, dovrò pernottare lì, nella “porta dell’Artico”, sulle sponde del mar Bianco, prima di proseguire il mattino successivo. “Come t’invidio, verrei anch’io”, dice Katja, “quello è l’Artico che preferisco, in quell’area abbiamo realizzato vari progetti di ricerca sul permafrost. Ma ho già fissato qualche giorno di vacanza, abbiamo una dacia ad Abakan, in Siberia, vicino a Krasnojarsk. Sento un gran bisogno di sciare”. La guerra sembra non aver minimamente scalfito il suo bel mondo. O è una serenità ostentata per impressionare l’occidentale? Al mio ritorno da Narjan-Mar comunque ci rivedremo, dice. Promette che andremo insieme dal suo amico Artur Nikolaevič Čilingarov, il mitico esploratore polare, decorato eroe dell’Unione Sovietica, membro dell’Accademia delle scienze e deputato alla duma nel partito di Putin: “Potrà raccontarti di quando è stato al polo nord con il vladika ed è accaduto il miracolo”, dice Katja alzando gli occhi al soffitto, quasi a intercettare una conferma dall’alto. “Il cielo era scuro, c’erano banchi di nebbia, ma quando il vladika ha calato nel ghiaccio la capsula con il messaggio di sua santità il patriarca Kirill in un attimo il cielo è diventato limpido e s’è formato un arcoba­leno”.

Angelo Monne

Il mio miracolo va invece brutalmente in frantumi alle dieci di sera, mentre ceno al ristorante del Novotel di Archangelsk osservando la baia ghiacciata illuminata dalla luna e scambiando messaggi con i colleghi nascosti negli scantinati di Kiev. Si presentano due poliziotti in divisa, uno ha i tratti asiatici, l’altro folti baffi rossi come il fuoco e parla un po’ d’inglese. Mi chiede il passaporto. Vuol sapere se ho ancora intenzione di prendere l’aereo delle 11 del mattino per Narjan-Mar. M’informa che, in tal caso, la mia sicurezza sarà a rischio. In che senso a rischio? “Nella regione non è possibile garantire la sicurezza agli stranieri”. Provo a capire, spiego che sarò al sicuro, ospite addirittura di quel sant’uomo del vladika Iakov, ecco qui l’indirizzo, Lenin ulica 7, Arktičeskij sobor. Verrà a prendermi all’aeroporto un certo Jurij, ho perfino il suo telefono. Consegnandomi il passaporto, l’agente coi baffi dice che se prendo quell’aereo sarò arrestato, m’intima di rientrare a Mosca con il primo volo utile e di non uscire dall’albergo se non per salire su un taxi per l’aeroporto l’indomani. Tempo dieci minuti e telefona Katja. L’angelo è poco celestiale, ha la voce scossa, come fosse stata svegliata da un incubo nel cuore della notte. Anche lei usa la formula della mia “sicurezza personale”, dice che mi può succedere qualcosa: “Se vai è pericoloso, sarai arrestato”. Riferisce che l’ha chiamata il governatore della regione autonoma dei nenets: “La situazione internazionale è quella che sai, hanno vietato al vladika di parlarti”.

Ma come hanno fatto a sapere di me, e che andavo da Iakov e che c’era stata la tua mediazione? “Forse è partito un tracciamento dai biglietti aerei, forse sapevano dei tuoi contatti con il vladika. Forse è stato lui a parlare di me al governatore. Ma le cose stanno così”. Il tono è sempre meno amichevole, è chiaramente provata. Ha paura? La situazione l’ha colta impreparata, sarà in buona fede? Oppure ha qualche ruolo nella vicenda? È stata lei a contattare i servizi di sicurezza a Narjan-Mar inviando il mio curriculum e le mie domande, peraltro molto vaghe? O forse sarà stato il vescovo, magari per chiedere l’uso dell’elicottero o per segnalare, zelante, l’inconsueta visita d’un giornalista occidentale in tempo di guerra, a mettere in allarme le autorità?

Una domanda prevale su tutte: chi è davvero Ekaterina Kuzmina? Di lei so solo che è di Taganrog, città portuale e industriale sul mare di Azov, a due passi dal confine ucraino e da Mariupol; dice di aver studiato alla London school of economics. Di certo è una donna molto ricca e introdotta nel cerchio magico del regime. Ricordo le parole di Maksim: “Ti assicuro che è molto difficile, soprattutto per una donna, fare tanta strada provenendo da quelle zone. Anton Čechov era di Taganrog. Ma era Čechov”.

Quando ci rivediamo a Mosca, Maksim è nel panico. Teme che “questa storia del monaco” finirà per metterlo nei guai con l’Fsb. Ha anche ricevuto una telefonata da Katja all’una di notte, che gli ha detto di convincermi a lasciare la Russia immediatamente. E poi è annichilito dalle incognite, lui che è sempre così lucido e razionale. Non sa se riuscirà a trovare un nuovo lavoro al suo livello, se potrà ritirare i risparmi in valuta straniera, se andrà in Finlandia per evitare l’arruolamento forzato. Non è nemmeno più certo d’amare Nataša, la sua compagna: “Non troviamo più le parole per parlarci, lei è moldava, ha tutti i parenti in Ucraina. Ci allontaniamo ogni ora che passa”. I messaggi di Maksim ora parlano dei soldati russi morti in battaglia, di zio Fëdor che è ancora barricato nella centrale nucleare. È una serata di pioggia e vento gelido, le vetrate del ristorante Riba Mya sembrano coperte di lacrime. Le luci sfolgoranti di Mosca non fanno che aumentare l’angoscia. Siamo a duecento metri dal Cremlino, dove pare si stia decidendo d’imporre lo stato di guerra, e al tavolo a fianco al nostro una decina di ragazze festeggia un addio al nubilato. Risate, vodka Evgenij Onegin, sottofondo jazz.

Poi telefona Andrej, proprio lui, il fixer che risolveva i problemi ed è diventato il problema, sparendo dai radar. Non è stato arrestato, dice, la sua compagna, che è una nota attrice, invece sì, ma l’hanno rilasciata. Perché mi hai mollato, Andrej? Risponde che deve raccontarmi di Iakov, di cosa è successo “quel maledetto 21 febbraio”, quando si trovava a Narjan-Mar. C’incontriamo il giorno seguente in un caffè nei pressi dell’ambasciata francese. Ha l’aspetto trasandato di sempre, il maglione pieno di patacche concentrate su una pancia da gran mangiatore. Andrej è un producer molto richiesto. Con gli occhi arrossati, racconta che stava lavorando a una serie tv, una storia di mandriani nenets diventati operai petroliferi della Rosneft. Per questioni logistiche non era possibile girare nella penisola artica di Jamal e la produzione aveva deciso d’ambientare la serie nella tundra occidentale. Avevano un appuntamento fissato da settimane a Narjan-Mar con il governatore, per concordare una collaborazione istituzionale. Ma una volta arrivati, l’incontro era stato annullato: “Era in corso un vertice con i comandi militari della regione, ci hanno consigliato di rientrare subito a Mosca”, racconta. “Sai che lungo le coste del mare di Barents sono concentrate quasi tremila testate nucleari e molte basi operative, comprese la base Sputnik delle forse speciali. Quello è il bastione di Putin. Così ho contattato Iakov, che avevo già conosciuto a Mosca per organizzare il tuo viaggio. Sapevo che era molto potente, ho pensato potesse in qualche modo agevolarci con il governatore. M’invita quindi a cena nella sua chiesa di legno, ci vado con il mio assistente. Lì c’è già un altro ospite, si chiama Aleksandr Dudorov, vicegovernatore, segretario regionale di Russia unita, il partito di Putin, e capo della sicurezza della regione, cioè responsabile dell’Fsb”. Andrej tace per qualche attimo, vuole accertarsi di non dimenticare i dettagli. “Halibut, sì ricordo che abbiamo mangiato halibut, accompagnato da parecchio whisky. Di punto in bianco il vescovo brinda all’invasione dell’Ucraina. Io e il mio vice ci guardiamo a bocca aperta, non sappiamo come reagire. Anche il vicegovernatore brinda e dice che finalmente è arrivato il momento. Il vescovo riferisce che l’offensiva è fissata per il 23 o il 24, lui lo sa. Poi dice che sarà risolta una volta per tutte la divisione nella chiesa ortodossa, che sarà cancellata l’oscurità in cui è sprofondata la chiesa ucraina. Parla degli ucraini come d’un popolo che ha consegnato il cuore al principe delle tenebre e al fascismo. Dice che è arrivato il tempo per la Russia di tornare alla sua missione”. Con Dudorov, Andrej aveva parlato anche del mio imminente arrivo. “Gli ospiti del vladika sono i nostri ospiti”, avrebbe risposto il vicegovernatore.

Quando scoppia la guerra, solo due giorni dopo quei brindisi, Andrej si trova a Surgut, sul fiume Ob, nella Siberia occidentale, come aiuto del regista canadese Neegan Trudel, che sta girando Solastalgia, un film sulla perdita dei luoghi natii nel grande nord, villaggi e memoria cancellati dal cambiamento climatico. “Abbiamo cominciato a bere, avevo in testa le parole del vescovo nella chiesa di legno di Narjan-Mar. Pensavo a quella processione organizzata in perfetta sincronia con l’offensiva militare. Il 26 sono rientrato a Mosca, mia moglie e diversi amici erano stati arrestati in piazza Puškin. Vedevo la nostra vita distrutta, l’impossibilità di far crescere i miei figli nella terra che amiamo, un po’ come nel film di Trudel”. La voce di Andrej trema di rabbia. Tradisce anche una richiesta di misericordia. “Imprecavo contro Putin e bevevo, bevevo. Ho bevuto per tre giorni, per cercare un mondo diverso. E non l’ho trovato”.

Andrej oggi vive a Parigi con la famiglia, sta lavorando a un film sugli esuli russi.

Maksim ha lasciato la fidanzata ed è rimasto a Mosca. Non sostiene il regime, ma difende le ragioni russe di “non obbedire al nuovo ordine mondiale”.

Ekaterina sembra stia lavorando a un progetto di ricerca sulle uova di dinosauro in Mongolia, finanziato da una banca cinese.

Aleksandr Dudorov, il vicegovernatore di Narjan-Mar, ha perso un figlio in combattimento a Mariupol: Georgij era un paracadutista e aveva 24 anni.

Vladimir Putin, il 12 aprile 2022 all’International arctic forum di Mosca, ha annunciato ulteriori investimenti nell’Artico: venti miliardi di dollari confluiranno nello sviluppo della rotta del mare del Nord. Nessun occidentale ha partecipato alla conferenza. ◆

Dopo il fallito viaggio a Narjan-Mar, Marzio G. Mian ha provato in vari modi a raggiungere il vescovo Iakov. Alla fine gli ha scritto via WhatsApp: “Perché ha paura di me? Ho letto il libro di Florenskij che mi ha consigliato. Com’era coraggioso! Molto diverso da lei. Amo la Russia, nonostante questa brutta esperienza”. Iakov non ha risposto. Allora Mian è andato nella penisola di Kola, dove Mosca ha molte delle sue testate nucleari, prima di attraversare a piedi il confine con la Norvegia a Kirkenes.

Marzio G. Mian

è un giornalista italiano. Questo articolo è uscito sul bimestrale svizzero Reportagen con il titolo Der Bischof aus dem Eis, e ha avuto il supporto del Pulitzer center.

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Questo articolo è uscito sul numero 1466 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati