Sabato 10 settembre, dopo aver passato in rassegna, per undici giorni, i ventitré film della competizione ufficiale, la giuria della 79a edizione della Mostra del cinema di Venezia, presieduta da Julianne Moore, ha consegnato il Leone d’oro alla regista Laura Poitras per il documentario All the beauty and the bloodshed, il cui passaggio in laguna aveva lasciato una forte impressione.

La regista statunitense diventa così la terza donna consecutiva a ottenere il massimo riconoscimento veneziano. Nel 2020 il Leone era andato alla cinese Chloé Zhao per Nomadland e nel 2021 alla francese Audrey Diwan, che quest’anno era una dei giurati, per La scelta di Anne. L’événement.

Documentario classico

All the beauty and the bloodshed ricostruisce la vita e il percorso creativo della fotografa Nan Goldin, ma anche il suo attivismo recente, insieme a un’associazione di cittadini, contro la potente famiglia Sackler. A capo di un impero farmaceutico ritenuto responsabile dell’epidemia di oppiacei che ha devastato gli Stati Uniti dagli anni novanta, la famiglia cerca di rifarsi un’immagine attraverso le sue donazioni a importanti università e ai più prestigiosi musei del mondo, alcuni dei quali espongono proprio le opere di Goldin. Che ne ha approfittato per fare pressione minacciando di ritirarle.

Il film illumina la rigida infanzia della fotografa nel Massachusetts degli anni cinquanta, le sue esperienze nel mondo alternativo, queer e stravagante della New York della fine degli anni settanta – una comunità che nel decennio seguente sarà decimata dall’aids –, la creazione della sua famosa serie di diapositive The ballad of sexual dependency, e i suoi amori liberi e spesso “tossici”. Se tutto questo risulta informativo e interessante a livello di contenuto, il film ha una forma convenzionale, essendo una selezione di documenti e d’interviste che si alternano in un orizzonte di chiarezza e d’efficacia.

Il coronamento di un film come questo, che rappresenta lo standard del documentario, è sintomatico di una tendenza della Mostra che va avanti da qualche anno: una logica che porta sempre di più verso opere “di contenuto” (film a soggetto, prestazioni di attori noti, forme pretenziose ed enfatiche, registro teatrale) facendo del concorso una vetrina degli accademismi contemporanei. Ne è testimonianza, oltre al livello generalmente mediocre del concorso, la porta spalancata dal festival alle produzioni delle piattaforme di streaming, spesso massimaliste ed enfatiche. Anche se va notato che nessuna di loro (con i film White noise di Noah Baumbach, Bardo di Alejandro González Iñárritu, Athena di Romain Gavras e Blonde di Andrew Dominik per quanto riguarda Netflix, Argentina, 1985 di Santiago Mitre per Amazon) ha ottenuto un premio.

All the beauty and the bloodshed (Participant)

Alcuni film, tuttavia, si sono distinti dalla media. È il caso in particolare di Saint-Omer, primo lungometraggio di finzione, dopo alcuni notevoli documentari, della francese Alice Diop, ripartita da Venezia con due premi: il Leone d’argento, gran premio della giuria, e il Leone del futuro per la miglior opera prima. Con un rigore e un’intensità notevoli, il film racconta il processo contro una madre infanticida (ispirato alla storia vera di Fabienne Kabou), che ha abbandonato la sua bambina di pochi mesi in una spiaggia con la marea montante. Diop mette in scena soprattutto l’incontro a specchio tra due donne nere – una scrittrice, che partecipa al processo da spettatrice; l’altra invece sul banco degli imputati – mettendo in relazione, al di là del giudizio della società francese, lo sguardo cosciente dell’una e la parola arroventata dell’altra.

L’ultimo film clandestino del grande regista iraniano Jafar Panahi, Gli orsi non esistono, presentato in assenza del regista imprigionato a Teheran dall’11 luglio, ha ricevuto il Premio speciale della giuria. È una dicitura infelice per un premio che sembra di circostanza, quando invece il film è davvero splendido. Panahi dirige se stesso nei panni di un regista costretto ad arrangiarsi per girare i suoi film a distanza, nascosto in un villaggio di confine dove la sua presenza semina lo scompiglio. Ricco di giochi di specchi e di riflessioni, il film, che strizza l’occhio al suo compianto mentore Abbas Kiarostami, racconta il tira e molla degli artisti iraniani tentati dall’esilio ma incapaci di decidersi a farlo.

Lezione di semplicità

Senza grandi sorprese la coppa Volpi per la migliore attrice è andata a Cate Blanchett per il suo ruolo in Tár di Todd Field, storia di una direttrice d’orchestra lesbica alla guida della Filarmonica di Berlino, che si trova ad affrontare gli effetti della cancel culture. Un’interpretazione degna dell’attrice, che incarna questo personaggio perfezionista facendoci risuonare la stessa maestria dell’attrice, in un film dallo stile gelido e monumentale. L’irlandese Colin Farrell si è aggiudicato il premio d’interpretazione maschile per Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh, un’intrigante favola sulla guerra civile irlandese in cui interpreta un uomo semplice che, da un giorno all’altro, e senza sapere bene il perché, litiga con il suo migliore amico.

Luca Guadagnino, grande habitué e beniamino della Mostra, se n’è andato con il Leone d’argento alla miglior regia per Bones and all, in cui ritrova Timothée Chalamet, per la seconda volta dopo Chiamami col tuo nome (2017), in duetto con l’attrice canadese Taylor Russell, che ha vinto anche il Premio Marcello Mastroianni alla miglior prova d’esordio. La dolcezza e la delicatezza con cui viene trattata quest’avventura cannibale di giovani emarginati attraverso gli Stati Uniti non riesce tuttavia a nascondere la natura illustrativa di una classica storia d’amore tra adolescenti.

È fuori dai sentieri battuti del concorso che abbiamo dovuto cercare il film più bello di questa Mostra: Master gardener, del veterano regista Paul Schrader che, a 76 anni, con questo ritratto di un orticoltore pentito e dal passato ignobile firma una vera e propria lezione di semplicità, equilibrio e grandezza d’animo. Tutte cose che le edizioni future del festival farebbero bene a privilegiare. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati