In un pomeriggio di fine luglio, durante un pattugliamento lungo la Grand rue a Port-au-Prince, un veicolo corazzato Mrap della polizia keniana si è rotto. Due agenti armati di fucili automatici sono scesi per ripararlo. Erano una piccola parte dei quasi quattrocento arrivati ad Haiti da Nairobi alla fine di giugno e una frazione minuscola in confronto alle migliaia di affiliati alle bande armate che queste truppe dovrebbero contrastare. La parola haitiana per indicare un guasto meccanico è pann. È un’espressione che indica metaforicamente il malfunzionamento di qualsiasi sistema, perfino il fallimento di uno stato. Qualcosa di rotto che ha bisogno di un intervento esterno.
Nell’ultimo secolo Haiti ha assistito a ripetuti interventi stranieri che promettevano di aggiustare la sua democrazia. Sugli haitiani si è abbattuta una rapida escalation di violenza dopo l’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel luglio del 2021. Il vuoto di potere è stato rapidamente colmato dalle bande armate, da tempo legate alle élite del paese.
Per questo chi critica la missione internazionale di sicurezza armata guidata dal Kenya ha subito usato la parola pann, dopo che è circolata la notizia del guasto del veicolo degli agenti keniani. L’intervento della missione, come tutti quelli che lo hanno preceduto, sembrava essersi arenato e andare incontro al fallimento. Gli stranieri, mi dicono tutti gli haitiani, non capiscono il paese.
Si prevede che le forze della missione cresceranno nei prossimi mesi, fino a raggiungere i duemilacinquecento effettivi. E gli haitiani si preparano a osservare cosa farà questo nuovo gruppo di invasori. In pochi minuti le immagini del veicolo in panne sono state diffuse sui social media.
Da Londra seguivo la vicenda sul cellulare. Boulevard Jean-Jacques Dessalines, che tutti chiamano Grand rue, è una strada che ricordavo per la sua vivace attività commerciale. Ora era arida e incolore, sbiadita dalla violenza. Ma a colpirmi di più erano le persone che filmavano la scena.
Gli haitiani oggi hanno un maggiore controllo su come viene raccontata la crisi del loro paese, ma non è per forza un bene. I social media hanno trasformato in celebrità i capi delle bande. Chi ha guadagnato di più da questa perversa interpretazione del potere popolare è stato Jimmy Chérizier, detto “Barbecue”, che guida le Forze rivoluzionarie della famiglia G9 e dei suoi alleati. La sua fama deriva soprattutto da una grande capacità di usare i social media per dare senso alla sua causa. Barbecue si presenta come un combattente per la libertà e il suo G9, una vasta organizzazione responsabile di centinaia di omicidi, rapimenti e violenze sessuali, come un movimento politico.
Ad Haiti i cambi di leadership avvengono sempre in modo particolare. Il degrado e la conflittualità lasciano dei vuoti che sono riempiti da persone con una scarsa preparazione per il ruolo che assumono. È una caratteristica che ho riscontrato in tutte le classi sociali.
Nel 2004 in un campo per profughi haitiani in Giamaica ho conosciuto un contadino. Aveva ricevuto in dono una cravatta dalla chiesa locale. Una volta indossata, i suoi modi sono diventati di colpo formali. Gli altri lo chiamavano avoka (avvocato) e questo piccolo cambiamento lo aveva reso di fatto il loro rappresentante. La cravatta sembrava dargli un certo grado di potere democratico.
Così è stato anche per Chérizier. Nato a Delmas, a pochi chilometri dalla capitale, e cresciuto con la madre, una donna sola, venditrice ambulante di pollo fritto, era un agente di polizia invischiato con la malavita prima di salire ai vertici di una violenta gerarchia criminale. La sua ascesa è stata favorita dalla presunta alleanza con l’ex presidente Jovenel Moïse, che avrebbe fatto affidamento sul G9 per mantenere stabile il governo. Dopo l’omicidio di Moïse le bande si sono rafforzate e Chérizier è oggi il loro leader incontrastato.
Nei suoi deliri di grandezza si paragona a Malcolm X e a Jean-Jacques Dessalines, il liberatore di Haiti che nel 1804 trasformò un movimento rivoluzionario di africani schiavizzati e oppressi in una repubblica indipendente. Per Chérizier i keniani sono invasori, vicini agli haitiani per origine etnica ma simbolicamente non distanti dai colonizzatori francesi, dai marines statunitensi che hanno controllato il paese fino al 1934 o dalle forze delle Nazioni Unite arrivate dopo il terremoto del 2010. La vera democrazia e la pace, sostiene, possono venire solo dagli haitiani a nome dei quali sostiene di parlare. In realtà Chérizier è potente non perché è amato, ma perché è temuto.
Presunzione di superiorità
Nei Caraibi la paura arrivò nel quattrocento con gli spagnoli, autori di violenze terribili per conquistare l’arcipelago. Fu fondamentale per l’istituzione della schiavitù e del dominio coloniale, principalmente dell’Inghilterra e della Francia, che sottomisero le comunità africane e caraibiche. A partire da quest’eredità, la violenza è penetrata nella società di Haiti. Poi i leader indipendenti sfruttarono la paura per rimanere al potere. Gli agenti della paura del ventunesimo secolo sono le bande armate. Si sono diffuse soprattutto nelle zone più povere delle città caraibiche, sono estremamente agili ed espandono il loro raggio d’azione con cellulari, auto e motociclette.
Durante le mie visite ad Haiti negli ultimi dieci anni mi sono tornati in mente alcuni aspetti della mia infanzia a Kingston, in Giamaica, dove negli anni settanta i gruppi criminali politicizzati scandivano il ritmo della vita nelle zone più povere. Giovani uomini e ragazzi combattevano tra loro nel nome di politici, partiti, territorio e onore. Finché i leader – chiamati don – mantenevano le comunità fedeli al capo politico, avevano una giurisdizione illimitata. Ma Haiti è un caso a parte rispetto ai paesi vicini.
Oggi le bande sono onnipotenti e la paura sta divorando il paese. Dal 2021 circa 700mila persone sono scappate dalla loro casa. Imbarcazioni cariche di sfollati affrontano il pericoloso viaggio attraverso il mar dei Caraibi verso gli Stati Uniti, l’America Latina e le isole vicine. Ogni volta che una crisi ad Haiti cattura l’attenzione internazionale, l’interesse si concentra meno sulle cause che l’hanno scatenata e più sui modi per risolverla. Il metodo scelto è l’intervento straniero nelle sue varie forme: dalle missioni diplomatiche all’occupazione militare, fino alle operazioni di mantenimento della pace. Ognuna di queste cosiddette soluzioni è stata presentata come un successo dalle forze di occupazione coinvolte, ma raramente ha avuto un effetto duraturo, perché le sfide che Haiti deve affrontare sono complesse e radicate nella storia. I miei amici haitiani, come tutti, faticano a capire quali risultati possa portare la nuova missione guidata dal Kenya.
Una parte del problema, e motivo dello scetticismo, è la convinzione che gli interventi delle nazioni “sviluppate” partano sempre da una presunzione di superiorità. Nell’estate del 1888 il presidente Lysius Salomon affrontò una rivolta di oppositori a Port-au-Prince ordinando ai suoi seguaci d’incendiare metà della città. Guardando dalla sua casa le fiamme che divampavano, un diplomatico britannico espose in una lettera i suoi pregiudizi razzisti nei confronti degli haitiani e della loro capacità di condurre uno stato indipendente: “Tutto quello che posso dire è che Haiti è una vergogna per l’Europa. L’Inghilterra e la Francia dovrebbero prendere in mano la situazione e cancellare una repubblica che è una vergogna per l’umanità”.
Un uomo d’acciaio
Da allora Haiti è stata vittima di pregiudizi, incomprensioni e abusi di stranieri, spesso in tenuta da combattimento e stivali militari, che la considerano una “vergogna”. L’uccisione del presidente Jean Vilbrun Guillaume Sam, nel 1915, spinse il presidente statunitense Woodrow Wilson a inviare i marines ad Haiti. Occuparono il paese fino al 1934, quando il presidente Franklin D. Roosevelt li ritirò per la sua “politica di buon vicinato”, un accordo stipulato da Washington con le nazioni dell’America Latina per sostituire l’intervento militare con la cooperazione e il commercio, lasciando la politica locale ai leader dei singoli stati, indipendentemente dalla natura del loro governo.
Dopo il ritiro dei marines statunitensi la tensione tra le aspirazioni degli haitiani e quello che i politici dell’élite, cresciuti con una propria concezione di democrazia, erano disposti a fare, alimentò un movimento popolare per il cambiamento.
Élie Lescot, il presidente filo-statunitense che celebrava il “mistero della democrazia” mentre si impossessava di poteri dittatoriali, diventò il bersaglio di una protesta nazionale per la democrazia guidata dagli studenti nel 1946. Dopo essere stato caricato su un’auto governativa e messo su un aereo, fu sostituito da Dumarsais Estimé. Acclamato dagli alleati come il simbolo di una nuova politica, Estimé, magro e stempiato, aveva un piede nella campagna contadina in cui era nato e l’altro nel mondo della vecchia politica che considerava sacrosanto il potere. Il cambiamento era arrivato, ma prese una piega pericolosa perché Estimé si rifiutò di lasciare il potere. Quando i senatori respinsero i suoi tentativi di modificare la costituzione, chiese il sostegno di alcune bande criminali. Nel maggio del 1950 queste presero d’assalto e devastarono il senato, sradicando i seggi, distruggendo i documenti e staccando le piastrelle del pavimento.
Quel pomeriggio Estimé si rivolse alla nazione dal palazzo del governo. Le azioni delle bande erano dimostrazioni di “eloquenza” e “maturità politica” dei veri sostenitori della democrazia. La parola “democrazia” era tornata di moda, ma questa volta piegata nella forma. Poteva significare armi e saccheggio. Quel discorso segnò la fine di Estimé. L’esercito, principale intermediario del potere ad Haiti, organizzò un colpo di stato ed esiliò Estimé. La soluzione alla crisi doveva essere elaborata internamente.
Imbarcazioni cariche di sfollati affrontano il pericoloso viaggio attraverso il mar dei Caraibi verso gli Stati Uniti, l’America Latina e le isole vicine
L’esercito in quel momento era forte: ricostruito dai marines negli anni venti, era diventato un’istituzione di prestigio sociale e potere politico. I suoi vertici avevano la stessa sete di potere dei parlamentari. Il leader era un generale, Paul Magloire, che succedette a Estimé e guidò il paese con il pugno di ferro. I rivali si rifugiarono nella clandestinità. Uno di loro era il medico e intellettuale François Duvalier, detto Papa Doc.
Qualsiasi parvenza di democrazia esistesse negli anni cinquanta non sopravvisse a quello che seguì. Magloire giocò male la sua mano, fu rovesciato mentre Duvalier si faceva avanti. Nel 1964 si proclamò presidente a vita, passando il titolo al figlio diciannovenne Jean-Claude “Baby Doc”, sette anni dopo.
Per garantire la longevità del proprio governo Duvalier scavalcò l’esercito e il popolo, istituendo una milizia nota come Tonton macoutes, fedele solo a lui e per consistenza pari all’esercito. Per decenni l’immagine di Haiti sotto Duvalier, diffusa da riviste e giornali, è stata quella di minacciosi ufficiali con occhiali da sole che imbracciavano fucili e revolver.
La milizia dei Tonton macoutes fu supportata dallo stato e armata da potenze come gli Stati Uniti, disposti ad appoggiare i leader autoritari dei Caraibi e dell’America Latina in cambio del loro impegno a fermare la diffusione del comunismo nella regione. Chi è sopravvissuto preferisce non parlare troppo di quel periodo.
Gli anni di Duvalier finirono nel 1986, quando il figlio fu sconfitto dal tempo e dall’avidità. Come tutti i dittatori, Baby Doc non voleva andarsene ma alla fine fu costretto. “Democrazia” diventò la parola d’ordine degli anni ottanta. Truppe di giornalisti stranieri si stabilirono ad Haiti per realizzare servizi su un altro nuovo inizio: la vittoria di Jean-Bertrand Aristide.
Aristide era la grande speranza di Haiti. Ex sacerdote salesiano e sostenitore della giustizia sociale, incarnava il legame tra gli ideali dei liberatori haitiani del settecento e il futuro politico del paese. Era considerato un riformatore, il primo leader votato democraticamente nelle storiche elezioni del 1990, il nuovo volto del popolo haitiano. Ma era scomodo per l’élite, che temeva l’effetto della democrazia sul suo prestigio consolidato, e per l’esercito, determinato a mantenere il ruolo di principale mediatore del potere.
Aristide aveva i giorni contati. Rovesciato da un colpo di stato nel settembre del 1991, fu costretto all’esilio negli Stati Uniti. Tornò nel 1994 e nel 2000 si candidò di nuovo alla presidenza, questa volta senza opposizione. Il suo margine di vittoria fu straordinario: 91 per cento. Tuttavia la sua seconda presidenza fu duramente criticata: secondo gli oppositori aveva trasformato un movimento genuino in uno strumento di terrore.
Ogni suo discorso pubblico trasudava parole di pace, ma Aristide era ormai un uomo d’acciaio, concentrato solo sul potere. Quando arrivò il momento di cederlo, chiamò in campo le bande di strada per intimidire e distruggere. Fu l’inizio di una nuova era di scontri.
Cumuli di macerie
I segnali di questo fenomeno erano già emersi nelle elezioni del 2000. Durante un comizio dell’opposizione a Port-au-Prince, prima del voto, alcuni giovani con lo zaino si disposero lungo il perimetro della folla, poi gli spruzzarono addosso l’urina di cui avevano riempito delle bottiglie di plastica. Ero vicino alla manifestazione quel giorno. Quando ne parlai con degli amici, risero. Gli sembrava una specie di scherzo. Poi gli dissi dei rapimenti, delle aggressioni notturne e degli omicidi ancora irrisolti di giornalisti indipendenti e diventarono seri.
La gente camminava veloce per paura di possibili aggressioni o rapimenti. Insieme a questa nuova paura arrivò lo smantellamento della sicurezza. Le forze speciali della polizia nazionale – ricostituite da Aristide dopo aver sciolto l’esercito nel 1994 – furono accusate di esecuzioni extragiudiziali e per le strade le bande armate di giovani, chiamate chimères, scatenavano il caos.
Un gruppo ribelle di ex ufficiali dell’esercito, sostenuto a livello internazionale, approfittò del disordine. Dopo il rovesciamento nel 2004, Aristide finì in esilio, prima nella Repubblica Centrafricana e poi in Giamaica, dove lo incontrai. Era il nostro secondo incontro quell’anno. La prima volta era ancora al potere e sprigionava la sua nota energia esplosiva, convinto che l’investimento nella democrazia lo avrebbe tenuto al sicuro. La seconda volta era un uomo diverso, cordiale ma più pacato. Decisi di tenere la conversazione su toni leggeri.
Dopo il 2004 la politica haitiana diventò più frammentata. Erano state uccise molte persone. I ribelli e le forze paramilitari legate alle reti criminali internazionali si scontravano con le bande armate. Il mondo esterno, che osservava Haiti con un misto di tristezza e disprezzo, intervenne, dichiarando che voleva salvare la democrazia. In realtà cercava di contenere la fuga di decine di migliaia di haitiani. Quell’estate le Nazioni Unite avevano già introdotto una forza di pace nel paese, la missione di stabilizzazione Minustah, con l’obiettivo di “sostenere una soluzione pacifica e costituzionale alla crisi”.
Migliaia di peacekeeper in tenuta militare arrivarono dal Nepal, dal Brasile e da altri paesi dell’Onu. Il brasiliano Luiz Carlos da Costa, vicerappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Minustah ad Haiti, aveva il compito di garantire che tutte le parti rispettassero l’impegno a costruire una struttura democratica funzionale. Aveva già assistito a conflitti e credeva nella pace e nella democrazia.
Avviò progetti con i giovani poveri delle baraccopoli per offrirgli alternative alla brutalità delle bande. Quando parlai con lui nel 2009, esaminava con attenzione i problemi del paese. Non c’era una soluzione facile, mi disse. I giochi di potere portavano con sé diffidenza e intolleranza, ci voleva estrema prudenza. Gli accordi presi dopo settimane e mesi di pianificazione potevano saltare con molta facilità. La violenza, in quel caso, era inevitabile. Nelle sue parole Haiti era un groviglio di fili intrecciati che bisognava districare con pazienza per sciogliere i nodi, senza mandare in cortocircuito l’intero sistema.
Altri problemi
Poi arrivò una nuova, inaspettata, catastrofe. Il 12 gennaio 2010 un terremoto di magnitudo 7 sulla scala Richter – il più devastante dei Caraibi da quando la Giamaica, un secolo prima, era stata colpita da una scossa di magnitudo 9,5 – colpì Port-au-Prince e le zone vicine, uccidendo centinaia di migliaia di persone. Tra le vittime ci fu anche Da Costa, che al momento del sisma era nel suo ufficio.
L’immagine di Haiti proiettata da giornali e tv di tutto il mondo era quella di strade piene di macerie e svuotate di speranza. Il paese e la sua gente dovettero adattarsi a disordini di natura completamente diversa. Tutto quello che aveva preceduto il terremoto non sembrava più rilevante. È tabula rasa, mi dicevano a Port-au-Prince.
Ma il passato non si ritira mai senza lasciare tracce. Poche settimane dopo la scossa mi trovavo nella capitale. Mentre visitavo luoghi che conoscevo bene, ridotti a cumuli di polvere di cemento, il passato inquieto era ancora lì. Le jeep della Minustah si muovevano tra i quartieri esercitando il loro potere armato su persone sconvolte che cercavano di rifarsi una vita. Mi sembrava un oltraggio. L’allora presidente René Préval, un riformista del partito Lavalas di Aristide che era stato eletto due volte nel 1996 e nel 2006, era considerato un fantoccio, messo alla berlina dagli haitiani e dagli stranieri per la sua incapacità di rispondere alla catastrofe. Mancava una leadership politica.
Un pomeriggio, alla ricerca di un momento di conforto, andai in un ristorante nel ricco sobborgo di Pétion-Ville, a
mezz’ora di macchina a sudest di Port-au-Prince. Gli unici altri clienti quel giorno erano Michel “Sweet Micky” Martelly, un famoso musicista e cantante di konpa, la musica da ballo haitiana, e la sua famiglia. Ricordo di essermi chiesto cosa pensasse del paese. La risposta arrivò un anno dopo, quando Martelly sorprese tutti candidandosi e vincendo le elezioni nel maggio del 2011.
Fu un periodo strano. Baby Doc tornò nel paese senza sanzioni per vivere i suoi ultimi anni. E anche Aristide. Nel frattempo Haiti era guidata da un ex cantante pop senza esperienza politica ma sostenuto dagli Stati Uniti.
L’interesse internazionale per il paese diminuì. Dall’elezione di Martelly fino al 2017, mentre le forze della Minustah si preparavano al ritiro, i vecchi problemi e quelli nuovi legati alla protezione di una democrazia fragile, in un contesto in cui l’abuso di potere era abituale e tollerato anche dalle forze internazionali, si sono consolidati. Il risultato è stata un’intensificazione della violenza delle bande e un crescente senso di paura.
Questa nuova ondata di terrore è stata orchestrata dalle élite statali e dai leader politici che hanno sostenuto la criminalità nelle zone più povere della capitale, in cambio del sostegno delle bande alla loro influenza in quei quartieri. Lo scorso agosto Martelly è stato sanzionato dagli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e per il finanziamento delle bande criminali.
Passato idealizzato
La missione guidata dal Kenya avrà più possibilità di produrre un cambiamento significativo rispetto alle precedenti, se considererà l’attuale tensione ad Haiti non solo come il risultato del suo passato, ma come parte della crisi di lungo corso che interessa tutte le ex colonie. Le truppe in arrivo devono capire e trattare il paese come se fosse il loro, come uno stato fragile cresciuto sul dolore e sulla ferocia, che sta lottando per trovare la fiducia nella democrazia. Come quelle dell’Africa orientale, le bande di Haiti e dei Caraibi si nutrono della povertà e della rabbia dei giovani. I keniani dovranno lavorare non solo con le forze di sicurezza e lo stato, ma anche con le parti della società civile interessate.
Non sarà facile. Le bande hanno ormai preso il posto dei politici. Hanno costruito le loro economie alimentate dal traffico di droga, dai rapimenti e dalle estorsioni, e hanno creato le loro democrazie in miniatura sulle rovine delle baraccopoli.
◆ Il 9 dicembre 2024 l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha reso noto che, nei due giorni precedenti, almeno 184 persone erano state uccise nella capitale Port-au-Prince dalle violenze scatenate su ordine del leader di una banda criminale.
Finora quest’anno le vittime della violenza delle bande, che oggi controllano l’80 per cento della città e intere zone del paese, sono cinquemila. Per cercare di stabilizzare la situazione, ormai fuori controllo, il 25 giugno è arrivato ad Haiti il primo contingente della missione internazionale di sicurezza armata guidata dal Kenya. A settembre il governo di Nairobi ha annunciato l’invio di seicento agenti, che si aggiungeranno ai quattrocento già in servizio per la missione.
A marzo di quest’anno il primo ministro Ariel Henry si è dimesso ed è entrato in carica un consiglio presidenziale di transizione composto da nove persone, con il compito di ripristinare la sicurezza e organizzare le elezioni, che non si svolgono dal 2016. Da allora si sono dati il cambio due primi ministri a pochi mesi l’uno dall’altro, segno dell’instabilità politica del
paese.
Il 20 novembre l’ong Medici senza frontiere ha annunciato la sospensione delle sue attività ad Haiti, a causa delle ripetute minacce delle forze di polizia contro il suo staff e i pazienti. Afp, Bbc
La paura con cui convivono gli haitiani è quasi impossibile da immaginare. I notiziari riportano le cifre della violenza e tracciano il bilancio delle perdite: circa 2.500 persone uccise o ferite dalla violenza delle bande nel primo trimestre del 2024 in un paese di undici milioni di abitanti. Il danno psicologico di chi vive la violenza non può essere quantificato.
Negli anni i governi haitiani hanno cercato di coprire le cicatrici del passato.
Dopo il 1986, quando l’ultimo dei Duvalier lasciò il potere, lo stato tolse ogni riferimento ai dittatori dagli edifici pubblici e dal materiale didattico, una sorta di cancellazione ufficiale di un’eredità che oscurò anche le storie di terrore. La rimozione dei Duvalier ha funzionato così bene che un po’ di tempo fa gli studenti di un liceo di Port-au-Prince mi hanno detto che desideravano il ritorno di un dittatore come Papa Doc, che avrebbe fermato l’orrore delle bande. Immaginano una città diversa, dove potersi muovere liberamente per riunirsi nei club konpa e organizzare partite di calcio che durano tutta la notte, dove non devono camminare rasente ai muri e accucciarsi per schivare i proiettili vaganti.
Non sono solo i giovani a idealizzare il passato autoritario. Nei quartieri dominati dalle bande alcune persone si sono abituate all’idea che siano loro le custodi delle comunità, le uniche protettrici in una città dove il pericolo la fa da padrone: piccoli monarchi di un regno in rovina. Il loro valore è misurato dall’estensione dei territori che controllano, dalla forza dei battaglioni incappucciati e dal rumore assordante delle armi.
Ricorda molto la storia che sentivo da giovane in Giamaica: è solo un velo per mascherare la paura. Nel 2010, l’anno del terremoto ad Haiti, l’esercito fece una grande operazione militare nei Tivoli Gardens di Kingston per soddisfare una richiesta di estradizione negli Stati Uniti di Christopher Coke detto Dudus, il leader della comunità locale, accusato di narcotraffico.
La comunità protestò, dicendo che l’uomo che chiamavano prezi, abbreviazione di “presidente”, era in realtà una brava persona. Garantiva da mangiare, si assicurava che i loro figli andassero a scuola e tornassero a casa sani e salvi la sera. Manteneva l’ordine. Parlando con gli abitanti della zona, prima e dopo il 2010, mi dicevano che avevano paura di quello che sarebbe successo se non avessero rispettato le regole di Coke. Sotto il suo comando i bambini potevano andare a scuola, ma le ragazze subivano abusi.
Anche la polizia cedette al potere di Coke. Quando l’incursione portò a un confronto armato tra l’esercito e gli uomini del criminale, la vicenda diventò un caso internazionale. In quel momento pensai alle persone con cui avevo parlato e mi chiesi se la paura fosse mai scomparsa, anche se il dolore per la perdita dei loro cari nella violenza rimaneva.
A Port-au-Prince ci sono tanti Tivoli Gardens, e ciascuno è molto più grande delle cosiddette fortezze di Kingston. Il quartiere di Bel-Air, un tempo popolato dagli immigrati più poveri della capitale, ora è sotto il controllo di una federazione di bande che incendia le case dei rivali e si accanisce sui corpi delle vittime. Gli spari terrorizzano i residenti e gli uomini stuprano per affermare il loro potere.
A Port-au-Prince e nei dintorni, nei sobborghi di Pétion-Ville e nelle montagne, questo ciclo di orrore si ripete ogni giorno. La bambina di Delmas 95, come quella che abita nella zona più ricca di Pelerin 5, sono cresciute immerse in questa nuova e distorta paura. È il problema dei Caraibi, nella sua forma più pura. ◆ svb
Matthew J. Smith è uno scrittore giamaicano e insegna studi caraibici allo University college London.
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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati