Cos’hanno in comune Rebecca Solnit, Olga Tokarczuk e Amitav Ghosh? Tutti e tre hanno scritto del potere salvifico delle storie. In un articolo sulla crisi climatica pubblicato dal Guardian il 12 gennaio 2023 (Internazionale 1499), Solnit sostiene senza mezzi termini che “ogni crisi è anche una crisi di narrazione”. Storie nuove e migliori possono aiutare le persone a capire che un altro mondo è possibile. Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, Tokarczuk ha detto che il mondo è fatto di parole: ciò che non viene raccontato scompare. Da qui il suo farsi portavoce di storie che vadano oltre la prospettiva in prima persona, di una narrativa stratificata che si liberi dalla sottile distinzione tra verità e menzogna e che quindi “addestri” le persone all’umanità. Per Ghosh, invece, il compito – potremmo quasi dire il fardello – degli artisti e degli scrittori è usare le storie per contrastare l’antropocentrismo che minaccia di distruggere ogni forma di vita, compresa la nostra. Nel suo libro La maledizione della noce moscata (Neri Pozza 2022) scrive che è una questione di “imperativa urgenza morale” ascoltare anche le voci non umane, e che il modo per farlo è attraverso le storie.
Questi appelli appassionati si trovano in forma più annacquata anche nei giornali. Se la “sinistra” si raccontasse bene, vincerebbe le elezioni. Se la distruzione del mondo naturale fosse raccontata come si deve, la gente non potrebbe fare a meno di ascoltare. È diventato un luogo comune fare leva su emozioni e identità per ottenere il cambiamento. I nudi fatti e le informazioni chiaramente non funzionano. Le storie, invece, possono aprire le porte dell’anima. Se vogliamo toccare il cuore di qualcuno, è l’unica via. Questo perché, si dice, il nostro cervello interpreta e spiega il mondo attraverso le storie. Il modo in cui vediamo gli altri, noi stessi, il futuro e il passato: secondo alcuni tutto passa da una struttura narrativa. Vivere equivale a narrare storie, e viceversa: “Ci raccontiamo storie per poter vivere”, come ha detto Joan Didion.
C’è qualcosa in queste convinzioni che mi disturba profondamente (senza offesa per Rebecca, Olga e Amitav). Da anni raccolgo appunti sotto il titolo “Contro lo storytelling”. Nei Paesi Bassi, soprattutto, storytelling, cioè l’arte di costruire storie efficaci, fa pensare più al marketing che alla letteratura. Le storie sono usate per emozionare, sì, ma quasi sempre c’è anche qualcosa da vendere: più che stimolare il pensiero, lo bloccano. Questo vale anche al di fuori dell’ambito pubblicitario. Devono per forza convincerci di qualcosa. Ma davvero una storia può cambiare una catastrofe planetaria? La destra racconta storie migliori della sinistra o usa semplicemente una propaganda più efficace? È difficile dimostrare che lo storytelling funzioni a un livello così alto. Raramente sentiamo di una storia capace di avere un impatto tanto grande.
I tre autori che ho citato sono narratori eccelsi, ma (per fortuna) il loro lavoro non si riduce a soluzioni semplici. L’analisi di Rebecca Solnit sul mansplaining (l’atteggiamento paternalistico dell’uomo convinto che una donna ne sappia sempre meno di lui) ha cambiato il nostro modo di guardare al mondo; Olga Tokarczuk allarga gli orizzonti con la sua “prospettiva in quarta persona” che ci proietta oltre i limiti della nostra esistenza individuale; Amitav Ghosh mostra come gli eventi possono colmare distanze immense nel tempo e nello spazio. Tra questi esempi, la concettualizzazione del mansplaining è quella che ha avuto l’impatto più evidente, mentre gli altri due hanno soprattutto complicato le cose.
Gli esempi più evidenti di successo sono le “grandi narrazioni” come quelle della chiesa o delle ideologie politiche, che solo con difficoltà sono state messe in discussione per lasciare spazio a storie “minori”. La forza più trasformativa non è stata proprio la libertà di raccontare la propria storia? Eppure, quella stessa libertà ha alimentato il desiderio di nuove storie di ampio respiro, capaci di unire.
La mia irritazione nasce anche dal fatto che lo storytelling spesso sembra un trucco da mestieranti. Per fortuna sono finiti i tempi in cui si potevano saltare i primi cinque paragrafi di un articolo di approfondimento, con il loro immancabile aneddoto personale: quello era lo storytelling nella sua forma più elementare. Eppure, anche oggi, quando un pezzo o un podcast ti cattura attraverso una storia, spesso la sensazione è che sia troppo ovvia. Lo stile espositivo che mescola saggistica e narrazione, tenuto insieme da una voce narrante autentica, è diventato dominante. In realtà, la cosa che apprezzo di più dello storytelling è il suo carattere frammentario e divagante: in altre parole, l’aspetto non narrativo. Probabilmente la mia reazione allergica alla “storia che salva il pianeta” dipende proprio dalla sua pretesa di completezza: un racconto che scioglie tutti i nodi e ci consegna un significato. Però questo non ha nulla a che vedere con la vita, almeno per come l’ho conosciuta io.
Non sono l’unica a essere scettica. Articoli e libri “contro lo storytelling” spuntano con una certa regolarità. Il filosofo Galen Strawson da anni porta avanti una crociata contro l’idea che l’essere umano sia un animale narrante per natura, come spiega anche nella sua raccolta di saggi Things that bother me: death, freedom, the self, etc. (Cose che mi disturbano: la morte, la libertà, l’io eccetera, 2018). Peter Brooks, grande studioso di letteratura e narratività, riflette criticamente in Sedotti dalle storie: usi e abusi della narrazione (Carocci 2023) riguardo alla sua “scoperta dell’importanza cruciale della narrazione e dello storytelling” presente in Reading for the plot (Leggere per la trama, 1984). Più di recente, il filosofo Byung-Chul Han ha pubblicato La crisi della narrazione (Einaudi 2024), in cui attacca il fenomeno dello storytelling, anche per riscoprire il potere del racconto.
Davvero una storia può cambiare una catastrofe planetaria? La destra racconta storie migliori della sinistra o usa semplicemente una propaganda più efficace?
Cominciamo dall’ultimo dei tre. Con il suo stile puntuto e pedante, Han spiega dov’è secondo lui il problema. Il fatto che oggi tutti parlino di storie in realtà ne indica l’assenza: “Paradossalmente, l’inflazione della narrazione ne tradisce una crisi. Al centro dello storytelling c’è un vuoto narrativo che si manifesta in una mancanza di significato e di orientamento”. La “storia” nello storytelling ha ben poco a che vedere con quelle autentiche, che Han riconduce al mito del falò attorno al quale vecchi e giovani si radunano per ascoltare gli anziani della tribù, con lo sguardo concentrato e il fiato sospeso. Le storie hanno un valore inestimabile per la loro capacità di dare significato all’esperienza umana, e non per come le ha volgarizzate il capitalismo. Il suo tagliente commento è: “Lo storytelling è storyselling”, raccontare è vendere. Creiamo storie su storie, ma manca una narrazione comune capace di darci uno scopo condiviso. In sua assenza, la società si frammenta, resta senza timone, si arrende al vuoto del consumismo e diventa vulnerabile al populismo e alle teorie del complotto.
Perché le storie hanno un potere di connessione? Han le descrive come una “forma chiusa che stabilisce significato e identità”. La modernità ha cercato di aprire le porte dell’esperienza e abbatterne i confini, facendoci perdere quell’ordine chiuso. Questo ci ha gettato nella solitudine, alla disperata ricerca di un significato. Han, che negli anni sembra diventato più conservatore, fonda la sua critica alla tecnologia digitale su un’idea piuttosto tradizionale di comunità, e collega la storia non solo al mito del falò, ma anche al rituale, al calendario religioso e all’aura dell’arte: luoghi e tempi in cui possiamo ritrovarci insieme, lontani dagli schermi. È lì che possiamo condividere narrazioni comuni che “ci ancorano all’essere”, invece di perderci nelle nostre cronologie individuali.
La morte del racconto, sostiene Han, è dovuta alla combinazione di due fattori strettamente connessi: i social media e il capitalismo. “Le piattaforme digitali come Twitter, Facebook, Instagram, TikTok e Snapchat sono sul grado zero della narrazione”, scrive. Gli schermi hanno sostituito il falò; alla luce del telefono ci scambiamo solo informazioni, frammenti privi di qualsiasi contesto significativo. “La risposta alla domanda ‘Come posso aggiungere o modificare un evento della mia vita sul mio profilo Facebook?’ è: ‘Scrolla e apri ‘avvenimenti importanti’”, commenta sarcastico. L’accumulo d’informazioni prive di significato narrativo genera profitto. Il gemello della tecnologia, il capitalismo, ha trasformato il mondo in un grande magazzino (digitale), dove le storie servono solo a vendere cose o persone.
Ci scambiamo informazioni online a un ritmo frenetico non per conoscere gli altri, ma per vendere noi stessi. Presentiamo le nostre difficoltà e i nostri successi con il linguaggio dei Ted talk. Nel costruire il nostro “brand personale”, riduciamo la storia a un racconto in prima persona che serve interessi egoistici: tutti sintomi della “sindrome del personaggio principale”. La conseguenza è che lo storytelling impedisce anche la critica del sistema. Quando tutti sono impegnati a vendere se stessi, è il buonsenso a rimetterci. Al posto del significato condiviso c’è un’insensatezza frammentata. La storica della cultura Maria Tumarkin definisce queste storie e queste conferenze online “veicoli per l’universale”: trame prevedibili che portano a una conclusione prefissata (del resto, il cliché vuole che esistano solo sette trame diverse). Ma, scrive, una forma così universale “può appiattire i momenti carichi di attrito e silenzio creati dal racconto, facendoli sembrare semplici come se appartenessero a un passato idealizzato, come la pelle dopo una ceretta”. Ed è questo l’incubo che sveglia Han nel cuore della notte: storie online levigate come la pornografia, una gratificazione istantanea che lascia il consumatore vuoto e alienato.
L’alternativa proposta da Han sembra consistere nello scambio di un universale, il mondo digitale, con un altro, quello dell’ordine chiuso delle storie. A cosa dovrebbe somigliare questo ordine, però, non è chiaro. Han allude alle grandi narrazioni del passato, di cui sembra ignorare il declino? Oppure si riferisce alla “grande storia” di Yuval Noah Harari, che abbraccia l’intera vicenda dell’umanità in un solo gesto? Anche le teorie del complotto, in cui il minimo dettaglio trova un significato, rientrano in questa categoria? O, ancora, Han pensa a un sistema chiuso ancora più tecnocapitalista, come il metaverso o il transumanesimo? Per Olga Tokarczuk le serie di Netflix sono i racconti intorno al fuoco del ventunesimo secolo, ma Han non è d’accordo: per lui gli spettatori delle serie tv sono come “bovini messi all’ingrasso”. Effettivamente, la formula narrativa di Netflix si è ormai logorata. Eppure, l’idea di tornare a un passato in cui tutti si accontentavano della stessa storia mi sembra non solo logora, ma terribilmente claustrofobica.
Forse sono anch’io parte del problema: sono troppo postmoderna, troppo laica per riuscire anche solo a immaginare una comunità unita dalle storie. Da quando abbiamo imparato a vederle come costruzioni, dunque contingenti e sostituibili, viviamo in quelli che Han definisce “tempi post-narrativi”, che lui si rifiuta di accettare. In Sedotti dalle storie, Brooks dà un’interpretazione diversa. Alla base della “storificazione della realtà”, scrive, c’è proprio la nostra formazione (post)moderna, che ci ha insegnato a leggere la realtà come un racconto. Accusa di questo perfino i formalisti russi e gli strutturalisti francesi. L’industria pubblicitaria e l’ascesa dei social media hanno accelerato il processo: la narrazione è diventata il mezzo dominante di comunicazione. Non esiste un passato mitico in cui gli esseri umani sono nati come creature narranti: se mai c’è stato, quel passato è il novecento.
Invece d’identificare le storie come il nucleo dell’umanità, che sarebbe stato corrotto, potremmo considerare la storificazione una forma di corruzione. Brooks, però, non arriva a sostenerlo. È indubbio che gli esseri umani sono stati profondamente religiosi e legati gli uni agli altri, ma per questo non servono le storie. Quella funzione può essere svolta altrettanto bene dalla musica, dalle canzoni o dalla poesia.
Il termine storytelling rimanda alla moderna proliferazione di storie (in cui ognuno mette per iscritto le sue memorie) e al bisogno di una storia unica e aggregante (raccontata attorno al falò). Si riferisce alla struttura narrativa che ciascuno sovrappone alla propria vita individuale e alla storia chiusa. Indica tanto il raccontare storie per vendere qualcosa quanto il raccontare storie per capire qualcosa. Lo storytelling è al tempo stesso problema e soluzione. Ma quale forma è il problema e quale la soluzione?
Han non accetta la proliferazione delle storie. La mia resistenza riguarda più la natura chiusa della storia (entrambi, invece, deploriamo il racconto per come è usato nella pubblicità). Se davvero gli esseri umani sono creature narranti, perché la proliferazione di storie dovrebbe essere un male? È singolare che un libro sulla narratività e sullo storytelling non menzioni la fine delle grandi narrazioni proclamata dal filosofo Jean-François Lyotard. La forza di una storia sta proprio nel fatto che ce ne sarà sempre un’altra da raccontare: una terza, una quarta, una quinta.
Come osserva Han, i populisti si sono precipitati a colmare il vuoto di produzione di senso, proponendo un ordine chiuso che offre significato e identità. E Han sostiene che queste storie non creano comunità. Io ho i miei dubbi. Il loro successo, in realtà, mette in discussione la desiderabilità stessa di storie chiuse. Lo storytelling non deve necessariamente risolvere il problema della mancanza di una grande storia proponendone un’altra. Si può tentare di riempire il vuoto di significato con una pluralità di storie senza che ciò debba per forza tradursi in un coro di “io”.
In effetti, esistono molte altre forme narrative da cui possiamo trarre esempio, come lo storytelling delle comunità native, in cui si ascoltano altre voci oltre a quelle umane. In La meravigliosa trama del tutto (Mondadori 2022) la biologa Robin Wall Kimmerer descrive le sue conversazioni con le piante: esseri che sono semplicemente parte del tutto nella tradizione potawatomi e in altre culture indigene. Anche lei sottolinea che la strada da seguire è raccontare storie diverse da quelle a cui siamo abituati. Un altro esempio è la “fabulazione critica” di Saidiya Hartman, un metodo accademico che mescola fatti e finzione per dare voce a persone e vicende dimenticate dalla storia. Ancora, nel suo ultimo libro Il messaggio (Einaudi 2025), Ta-Nehisi Coates descrive il processo attraverso cui prendono vita storie alternative – e quindi significati alternativi – rispetto alla tratta transatlantica degli schiavi e alla Palestina. Collegando questi due momenti storici, Coates crea una nuova narrazione. Questo artificio non ne sminuisce il significato; anzi, rende evidente che narrazioni del genere non sono chiuse ma aperte, porose e incomplete. Una storia non appartiene al narratore, ma nasce in un contesto di scambio reciproco. Le storie vivono nella storia.
Brooks apre il suo libro tornando sulla sua antica convinzione che la narrazione sia la struttura stessa della nostra vita. Un’idea di cui oggi si è liberato. So di cosa parla: ho già scritto di quanto mi sento a disagio di fronte a un significato perfettamente confezionato, che dovrebbe creare un senso di connessione e comunità. Non è sempre stato così. Anch’io, un tempo, ero affascinata dell’idea che la vita fosse una storia, che il racconto fosse il nostro modo di dare un senso alla realtà. Ho studiato la filosofia narrativa di Paul Ricœur, che ho ritrovato non solo nella mia esperienza personale ma anche nelle serie televisive e nei social media. Mi sono immersa nella “costruzione della trama” come forza di autoriflessione e di conoscenza di sé, nella storia come strumento di creazione di significato, nell’etica della narratività. Ah, quanto ho desiderato una “chiusura”, un senso, una comunità! Probabilmente volevo anche avere la conferma di aver fatto bene a scegliere di studiare letteratura, perché esaltare le storie equivale a riconoscere alla prospettiva letteraria un’importanza centrale.
E poi è arrivata la grande narrazione che, come scrive Milan Kundera, ha strappato il velo davanti ai miei occhi: la morte di una persona amata, mio padre. Nulla avrebbe più avuto senso, tutto sarebbe stato privo di significato. Da allora, è proprio questo che ho cercato nella letteratura: storie che rivelino la frammentazione, l’assenza di significato e la casualità della vita, che ti costringano a guardare il dolore dritto negli occhi. Storie che non cercano di essere tali.
Ah, tutti quei romanzi sulla morte in cui alla fine va comunque tutto bene (perché chi resta trova significato, riconciliazione e perdono)! Questo è lo storytelling nella sua forma peggiore. Per me è un autoinganno più che una conoscenza di sé, una finzione che si spaccia per realtà. La vita presentata come un reality show, che diventa del tutto irreale proprio grazie all’uso di tecniche prese in prestito dal cinema e dalla letteratura. Preferisco i social media: almeno lì il mondo frammentato è visibile pezzo per pezzo!
Oggi tutto è trauma, scrive Parul Sehgal in “The case against the trauma plot” (Contro il trauma come trama narrativa), un articolo del 2021 scritto per il New Yorker: usando il trauma ogni azione risulta spiegata, smussata e neutralizzata. È un paradosso, perché il trauma è precisamente il segno di una ferita, uno strappo dai bordi irregolari che non può essere semplicemente ricondotto a una spiegazione. Il trauma, categoria che funziona tanto nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali quanto nella cultura popolare, è diventato un’etichetta comoda per collocare persone ed eventi. Ma ha un prezzo: l’espediente narrativo del trauma, osserva Sehgal, appiattisce tutto, riduce i personaggi ai loro sintomi e aggiunge anche una dose di moralismo. Il paradosso si risolve facilmente se si legge la narrazione del trauma come lo sguardo di un osservatore esterno, che però non restituisce l’esperienza di chi soffre davvero (a volte l’osservatore è qualcuno che a sua volta è uscito da un trauma). La trama, cucita con ordine e servita pronta, è un talismano, un meccanismo di difesa. Una struttura chiusa che dà un significato.
“Il trauma è diventato sinonimo di retroscena”, scrive Sehgal, ma il bisogno di retroscena è un fenomeno recente. La personalità non deve necessariamente coincidere con la storia personale. Su questo punto concorda anche Strawson. In Things that bother me il filosofo britannico s’interroga sulla tesi secondo cui gli esseri umani sono creature narrative. La sua conclusione è che è infondata. Con frustrazione, sostiene che le persone non si concepiscono come il risultato di una storia.
Alcuni filosofi e psicologi, osserva, spingono l’equazione tra essere umano e narratività fino al punto di affermare che chi non concepisce la propria vita come una storia non dovrebbe neppure essere considerato umano. Strawson si considera una di quelle persone che hanno un’esperienza del sé “episodica” o “transitoria”, vale a dire che vivono la propria vita come una successione di scene fugaci, non conservate nella memoria in ordine cronologico, men che meno sotto forma di racconto. In questo senso, si colloca accanto a Montaigne (che, a suo dire, aveva una pessima memoria), a Marcel Proust (che scrisse di un “libro interiore” nato da una serie di “ricordi involontari”) e a Virginia Woolf (pensiamo a Orlando).
Non so se sono una persona episodica come Strawson, anche se il fatto stesso di non esserne sicura probabilmente è il segno che lo sono. Oggi, però, capisco meglio da dove nasce la mia avversione per lo storytelling: non parla davvero di me. Quando ripenso alla mia vita non vedo una trama narrativa, ma qualcosa che sembra uno scavo archeologico: qua e là dei detriti, delle pietre che riaffiorano, un coccio che brilla nel fango. Precoce ma mai cresciuta, all’inizio sempre la più piccola e poi sempre la più grande, ero già invecchiata a vent’anni, appesantita da troppe malattie e morti, ma proprio per questo stranamente più leggera. E ho una pessima memoria, tanto per il futuro quanto per ciò che è già stato.
Strawson mette in guardia il lettore (e se stesso) dal fare una distinzione morale tra persone episodiche e narrative. Nessuna è meglio dell’altra: sono modi diversi di stare al mondo. In ultima analisi, ciò che conta non è la storia né la sua forma narrativa, ma ciò che dà significato, o, come scrive Han, “ciò che ti àncora all’essere”. Essere episodici richiede un ancoraggio diverso. E se tutto può diventare una storia, da una campagna pubblicitaria alla propaganda politica, da un feed di Instagram a un trauma, allora possiamo trovare un significato anche altrove, in luoghi che vanno oltre quella storia.
Dopotutto, intorno al fuoco s’intonano anche canzoni. Nell’oscurità della cella si recitano poesie. La forza del verso di Rainer Maria Rilke “Devi cambiare la tua vita” cambia davvero la vita. Ci sono raccolte di lapidaria (Ryszard Kapuściński) e di frantumaglia (Elena Ferrante). Diari e note del guanciale. Parlando di quello che forse è il miglior romanzo che ho letto nell’ultimo decennio, Wuxu biji (Note sull’immateriale) di Shi Tiesheng, il traduttore olandese Mark Leenhouts osserva che gli autori cinesi non si curano delle trame. C’è anche Byung-Chul Han con la sua pedanteria puntigliosa. Ci sono hashtag, meme e video su YouTube. C’è tutto questo e molto altro. Non siamo solo narratori, come ricorda Robin Wall Kimmerer, ma anche creatori di storie. E a questo io aggiungerei: lettori, ascoltatori, condivisori e scavatori. ◆ fas
Miriam Rasch è una filosofa e scrittrice neerlandese. Lavora all’istituto d’arte Willem de Kooning academie di Rotterdam. Questo articolo è uscito sul giornale letterario olandese De Nederlandse Boekengids. Il titolo originale è “Against storytelling”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati