La crudele guerra israeliana nella Striscia di Gaza ha superato i duecento giorni e il prezzo pagato dal popolo palestinese è sempre più alto. Il territorio e gli abitanti della Striscia assediata sono stati annientati a un livello che non si vedeva dalla Nakba, la “catastrofe”, del 1948 (quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case in seguito alla nascita di Israele). La fame e la malnutrizione dilagano e centinaia di migliaia di famiglie nel nord e nel sud hanno un bisogno disperato di viveri e assistenza medica, mentre tentano di fuggire dai bombardamenti che proseguono senza sosta da ottobre.

Le perdite che abbiamo subìto negli ultimi sette mesi – e che continuano ad aumentare – sono incalcolabili. Non riguardano solo le case e i mezzi di sussistenza, ma anche i sogni e le aspirazioni di intere generazioni. E ora l’esercito e i funzionari governativi israeliani promettono un’operazione di terra nella sovraffollata città di Rafah, che ospita quasi due terzi della popolazione della Striscia. Il futuro sembra avere in serbo altro dolore e altra sofferenza.

Eppure l’attenzione del mondo sta diminuendo e la comunità internazionale appare più indifferente. È doloroso vedere come la nostra identità ci abbia condannati a una sofferenza spropositata e a essere trattati da meno che umani da chi sta al di fuori dei nostri confini.

Invece di darci speranza, le notizie sui negoziati in corso per un cessate il fuoco sono diventate una forma di guerra psicologica. Tutti i tira e molla falliti negli ultimi sette mesi hanno piegato ulteriormente il morale della popolazione di Gaza. Gli sforzi diplomatici non sono stati in grado di rispondere ai bisogni urgenti degli abitanti, che chiedono solo il riconoscimento della loro umanità e dignità. La sconfortante copertura giornalistica internazionale, che spesso amplifica le voci degli oppressori invece di quelle degli oppressi, contribuisce alla sensazione di una sorta di complicità nel massacro in corso.

Come giornalista e scrittore che vive a Gaza, ho trascorso gli ultimi mesi a testimoniare e documentare le tragedie della guerra. Attraverso le mie cronache e le mie interviste con gli abitanti di ogni parte del territorio ho potuto osservare le terribili conseguenze dei continui bombardamenti. In sette mesi di stragi e disperazione, la nostra richiesta di libertà e della fine di questa follia è stata tragicamente distorta nei mezzi d’informazione occidentali e rappresentata come “sostegno al terrorismo”. Le nostre voci sono state messe a tacere, mentre qualunque attacco alle nostre vite è cinicamente giustificato dai leader israeliani nel nome della “sicurezza”.

Per noi giornalisti palestinesi raccontare la guerra a Gaza non è solo un lavoro, è un dovere nazionale di fronte a una situazione insostenibile. Portare avanti questa impresa è difficile: in mezzo a traumi e a sofferenze così schiaccianti, la priorità per molti giornalisti, me compreso, è fuggire da Gaza e semplicemente sopravvivere. Ma se le nostre telecamere si spengono non resterà più nessuno a documentare l’aggressione israeliana. E se le nostre voci sono messe a tacere nessuno potrà sentire le nostre grida di aiuto.

Da sapere
Le trattative e l’offensiva

◆ Il 6 maggio 2024 l’organizzazione palestinese Hamas ha fatto sapere di aver informato l’Egitto e il Qatar, paesi mediatori insieme agli Stati Uniti, che ha approvato la loro proposta per un accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La proposta, che comprende tre fasi, dovrebbe portare alla fine dell’offensiva israeliana nel territorio palestinese e al rilascio degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, in cambio della liberazione dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Migliaia di persone sono scese in piazza a Tel Aviv, Gerusalemme e in altre città di Israele per chiedere al governo di Benjamin Netanyahu di accettare i termini del cessate il fuoco. Israele ha inviato una sua delegazione al Cairo, continuando però le operazioni a Rafah, la città nel sud della Striscia di Gaza dove sono rifugiate 1,2 milioni di persone. L’8 maggio sono ripresi i colloqui in presenza dei rappresentanti israeliani e di Hamas.

◆ L’esercito israeliano ha preso il controllo del valico di frontiera tra Rafah e l’Egitto il 7 maggio, interrompendo l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Il giorno prima aveva cominciato a trasferire decine di migliaia di famiglie palestinesi dalla parte orientale della città, per avviare “un’operazione limitata” nella zona. Le persone sono state indirizzate verso l’area “umanitaria” di Al Mawasi, a una decina di chilometri da Rafah, che però secondo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani è già sovrappopolata e distrutta. I bombardamenti nella notte hanno ucciso 27 persone, portando il bilancio complessivo dall’inizio dell’offensiva a 34.789 morti tra i palestinesi.

◆ Il 7 maggio un alto funzionario statunitense ha fatto sapere che la settimana scorsa gli Stati Uniti hanno sospeso la consegna di un carico di bombe a Israele a causa della mancata risposta del governo israeliano ai timori espressi da Washington sull’operazione di terra a Rafah. Afp


Tutto il possibile

Il governo israeliano ci vuole in silenzio. Continua a vietare ai giornalisti stranieri di entrare e lavorare nella Striscia. E ha cercato di far tacere i giornalisti palestinesi direttamente: più volte l’esercito israeliano mi ha mandato messaggi e mi ha telefonato per costringermi a smettere di scrivere. Sono stato tentato di dare la precedenza alla mia incolumità, ma non potevo ignorare l’oppressione del mio popolo. Se noi giornalisti palestinesi smettessimo di fare il nostro lavoro, chi colmerebbe il vuoto?

I grandi mezzi d’informazione non possono e non vogliono sostenere la nostra battaglia schierandosi come facciamo noi. Finché regnerà la loro idea di “neutralità”, la nostra sofferenza e la nostra umanità svilita resteranno inascoltate. Nel contesto attuale, essere neutrali equivale a schierarsi con l’oppressore mentre si assiste all’uccisione in diretta tv dell’oppresso, la cui morte è ingiustamente legittimata dal fragile pretesto del diritto all’“autodifesa” del più forte.

Eppure, a quanto pare non è bastato fare tutto il possibile per informare il mondo della nostra battaglia. Da più di duecento giorni portiamo alla luce fosse comuni disseminate ovunque. Da più di duecento giorni siamo in fuga, senza un posto davvero sicuro per rifugiarci. Da più di duecento giorni i neonati nascono sotto il rombo minaccioso degli aerei da guerra. E da più di duecento giorni donne e bambini sopportano il peso di sofferenze inimmaginabili.

Nonostante questa crisi senza fine, e nonostante la crescente indifferenza del mondo, ci aggrappiamo alla speranza che la giustizia trionferà. Aspiriamo al riconoscimento della nostra umanità e del nostro diritto a vivere in condizioni di uguaglianza e libertà. La vera solidarietà deve sostenere la giustizia per tutti, rifiutando di dare priorità ai diritti di un popolo a scapito di un altro.

Non abbiamo bisogno di altri colloqui, altri negoziati, altre parole e gesti vuoti. Abbiamo bisogno di una duratura azione dal basso in tutto il mondo, di politici e governanti disposti a misurarsi con la realtà del genocidio in Palestina e a chiedere conto a Israele e ai suoi fiancheggiatori delle loro atrocità. Questa condizione di oppressione ha accompagnato tutta la nostra esistenza, intaccando ogni diritto a una vita libera e sicura. E va avanti non da duecento giorni, ma da 75 anni, dalle prime espulsioni di palestinesi dalle città, dai paesi e dai villaggi in tutta la Palestina occupata.

Questo è il momento di una rivolta globale che prosegua finché il popolo palestinese non sarà liberato, non solo dagli orrori della guerra a Gaza ma dal peso dell’occupazione che soffoca la nostra esistenza. Le proteste nei campus universitari statunitensi sono il segnale di un’ondata di sostegno. Il loro messaggio dovrebbe riecheggiare forte e chiaro: la Palestina rimane una causa che trascende i confini e riguarda tutte le persone che hanno a cuore i diritti umani.

Noi immaginiamo un mondo fondato sulla giustizia, e questi studenti coraggiosi e tenaci offrono un assaggio di quel futuro. Ma da soli non possono farcela. Hanno bisogno di un vasto sostegno e di politici e mezzi d’informazione che amplifichino il loro messaggio. Perché quella per la Palestina non è solo una battaglia per rivendicare ciò che è stato perduto: è una battaglia per l’esistenza stessa del nostro popolo nella terra dei nostri antenati. ◆ fdl

Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese che vive a Gaza. +972 Magazine è un sito indipendente di giornalisti israeliani e palestinesi.

Contro Al Jazeera
Trasmissioni interrotte

Il 5 maggio il governo israeliano ha deciso di chiudere l’emittente qatariota Al Jazeera, considerata complice di Hamas. La decisione, presa all’unanimità, ha una validità di 45 giorni, rinnovabile più volte. Si basa su una legge approvata il 1 aprile che dà all’esecutivo il potere di bloccare “temporaneamente” le emittenti straniere considerate un rischio per la sicurezza nazionale. La polizia israeliana ha fatto irruzione nell’ufficio dell’emittente a Gerusalemme Est, smantellando e confiscando le attrezzature. In un comunicato Al Jazeera ha condannato quello che ha definito un “atto criminale” che viola “i diritti umani e il diritto fondamentale di accesso all’informazione”.

In un articolo su Haaretz, Zvi Barel sostiene che la mossa “non impedirà né ostacolerà i programmi dell’emittente, che sono trasmessi in più di novanta paesi e raggiungono 350 milioni di telespettatori in lingua araba e milioni in inglese in tutto il mondo”. Al Jazeera non ha bisogno di uffici a Tel Aviv o Ramallah per continuare a “mostrare al mondo la distruzione, la morte e la fame a Gaza”, prosegue Barel: “Trasmette questa realtà direttamente dalla Striscia”. Al Quds al Arabi scrive che il sindacato dei giornalisti palestinesi ha condannato la chiusura, parlando di un “crimine di guerra” che si aggiunge “ai crimini storici dell’occupazione” israeliana ed è un tentativo di “eliminare qualsiasi documentazione giornalistica”. Israele ha sempre avuto rapporti tesi con l’emittente, accusata di avere pregiudizi antisraeliani, e il quotidiano panarabo ricorda che l’ultimo episodio arriva a pochi giorni dall’anniversario della morte della corrispondente di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio 2022 in un raid israeliano a Jenin, in Cisgiordania.

Il 2 maggio il premio dell’Unesco per la libertà di stampa nel mondo è stato assegnato a tutti i giornalisti che hanno raccontato l’offensiva militare da Gaza, dove dall’inizio del conflitto non possono entrare reporter stranieri. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1562 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati