La terra di Max Sigoro somiglia a una giungla. Muscoloso, sulla cinquantina, il contadino avanza con un machete su una ripida collina piena di alberi di chiodi di garofano, noce moscata, cacao e cocco. “Ho piantato io la maggior parte degli alberi, trent’anni fa. Sono i miei figli”, dice Sigoro, che è nato e cresciuto sulla remota isola di Halmahera, nell’arcipelago indonesiano delle Molucche. Il governo gli ha concesso la proprietà su 1,5 ettari, in quanto appartenente alla tribù sawai.

Ma di recente alcune aziende straniere hanno messo gli occhi sul suo terreno. Dalla capanna di bambù in cima alla collina si sente un rombo continuo, come se si stesse avvicinando un mostro enorme. Il contadino indica i cartelli in cinese lungo il confine della sua proprietà e le ciminiere fumanti dipinte di rosso e bianco che spuntano da dietro gli alberi. “La zona industriale si sta allargando sempre di più; vogliono comprare la mia terra, ma non vogliono pagare quasi niente”. Sigoro agita il machete: “Non mi manderanno via”.

Halmahera, un’isola poco popolata nell’estremo nordest dell’Indonesia, si è ritrovata ad avere un ruolo importante nella strategia nazionale del paese per dominare il mercato globale del nichel e per farsi spazio in quello delle batterie e delle auto elettriche. Secondo le previsioni, gli investitori esteri e le aziende statali spenderanno più di dieci miliardi di euro nella costruzione del Weda Bay Industrial Park (Iwip), una zona industriale integrata che ruoterebbe intorno al nichel, dall’estrazione del minerale alla produzione di veicoli della Tesla. Sarebbe il primo impianto di questo tipo al mondo.

Il posto scelto per realizzare il progetto si trova in una baia isolata che, prima dell’avvio dei lavori nel 2018, era famosa per le sue splendide barriere coralline e le foreste incontaminate. Il grosso dei soldi arriva dalla Cina, ma anche il gruppo chimico tedesco Basf e il gigante minerario francese Eramet vogliono metterci del loro, per un totale di 2,4 miliardi di euro, per una fabbrica high tech in grado di produrre nichel e cobalto di alta qualità. Il presidente indonesiano Joko Widodo gira il mondo per convincere le grandi case automobilistiche, come la statunitense Tesla e la cinese Byd, a venire a Halmahera.

Così da un giorno all’altro a Lelilef, un villaggio di pescatori con meno di mille abitanti fatto di casette di legno con una palma davanti alla porta, sono arrivati 75mila minatori e operai dalla Cina e da altre zone dell’Indonesia. Nei prossimi anni se ne aggiungeranno altri 25mila. Seguiamo la strada costiera che parte dal molo dei traghetti. A sinistra ci sono piantagioni e foresta vergine e a destra un mare trasparente e isole vulcaniche in lontananza. Nell’aria c’è profumo di chiodi di garofano. Dopo tre ore e mezza di macchina, la strada comincia a scendere e compare una pianura artificiale piena di colline spoglie, ciminiere fumanti, capannoni industriali e camion in coda. Come se un’acciaieria fosse atterrata su un’isola tropicale. L’Iwip occupa già una superficie di cinquemila ettari e potrebbe arrivare a quindicimila. Le dodici centrali elettriche a carbone previste – oggi ce ne sono cinque – producono una quantità di energia che basterebbe per quasi quattro milioni di famiglie europee.

Lavoro noioso

Molti abitanti del villaggio e molti immigrati sono contenti della crescita economica. Ovunque si affittano _rumah kost _(camere di due metri per tre con un bagno in comune), con cui si guadagna più che coltivando. Al mercato di Lelilef gli operai, in tute dell’Iwip e con caschi gialli protettivi e scarpe di sicurezza, comprano i pasti avvolti in una foglia di banana. I _warung _(tipici locali a gestione familiare che vendono da mangiare e altri beni di prima necessità), i bar a bordo piscina e i bordelli (nascosti) fanno buoni affari. Alle cinque, quando c’è il cambio tra il turno di giorno e quello di notte, si crea una lunga fila di fuoristrada e moto da cross lungo l’unica strada percorribile del villaggio. “Lavoro dodici ore al giorno in un padiglione dove viene portato il nichel grezzo”, racconta Muhamad Rifai, trent’anni, davanti alla porta della sua camera. “Con la scavatrice faccio piccole montagnole tutte della stessa grandezza”. Un’attività noiosa ma ben retribuita, dice il muratore, che viene dalla vicina isola di Ternate. “Prendo sette milioni di rupie (409 euro) al mese per venti giorni di lavoro. A casa non potrei mai guadagnare tanto”. Il pescivendolo Ali dice: “Qui guadagno cinque milioni di rupie (293 euro) al giorno!”.

“Questi progetti sono molti importanti per l’Indonesia”, commenta Stania Puspawardhani, responsabile dei programmi del centro studi Core Indonesia. Puspawardhani dà consigli al governo sulla transizione energetica e il downstreaming, cioè la controversa politica che vieta l’esportazione di materie prime e obbliga gli acquirenti a costruire i loro stabilimenti nel paese. “Se l’Indonesia non lo facesse, resterebbe sempre incagliata in fondo alla catena di produzione mondiale”. Il problema, dice, è che le regole sulla consultazione e compensazione degli abitanti locali e sulla protezione e il recupero della natura non vengono rispettate. “Halmahera è lontana da Jakarta. E i politici che potrebbero intervenire hanno spesso interessi commerciali nelle miniere, nel petrolio o nelle piantagioni”.

Puspawardhani ci mostra dei grafici da cui emerge che le Molucche del nord sono il posto in cui l’economia indonesiana cresce più rapidamente (25 per cento), ma anche che la povertà è in aumento: “C’è un problema di transizione, perché non si può trasformare all’improvviso un contadino o un pescatore in minatore o impiegato”. Inoltre, gli abitanti del luogo non hanno soldi da investire. I nuovi negozi e le pensioni vengono aperte da immigrati: “Solo chi ha venduto la terra a volte ha migliorato la sua situazione economica”. La consulente spiega che ci vuole tempo prima che le persone acquisiscano nuove competenze, e definisce caotica l’esecuzione della strategia nazionale: “La realtà non rispecchia le previsioni”.

Acqua in bottiglia

Facendo qualche domanda in giro, scopriamo che qualcuno cerca di resistere. “Assalamualaikum, Gaer! Gele!”, mormora Nafisa Thaib, 67 anni, in una piroga sul cristallino fiume Sagea. “Pace a voi, nonno e nonna!”. La contadina sparge manciate di nasi kuning (riso giallo) nell’acqua che scorre rapida, accompagnata da altri due attivisti. Vicino a un vecchio albero che cresce su una grossa roccia, con le radici in acqua e i rami alti nel cielo azzurro, fanno un’offerta a Boki Moruru, il dio nascosto. La scena ricorda Avatar, il film di fantascienza in cui una popolazione indigena viene scacciata dalle ruspe.

Qualche chilometro più avanti, il fiume selvaggio scompare in una grotta spettrale piena di pipistrelli, dove macchine gigantesche scavano per estrarre il nichel. “Dopo ogni acquazzone, il Sagea si colora di marrone e rosso. Una volta non succedeva mai. Non abbiamo più il coraggio di bere quest’acqua”. Thaib e altri abitanti del villaggio hanno protestato davanti all’ufficio dell’Iwip finché non sono stati mandati via in malo modo dall’esercito.

Alla fine Takuling ha deciso di cedere la terra. “Non avevo scelta: l’Iwip aveva già comprato tutti i terreni intorno al mio e bloccava l’accesso”

Dall’altra parte della zona industriale, a un’ora di macchina tra lo smog e le nuvole di polvere, si vede la stessa cosa nel fiume Kobe. Sulla riva c’è uno spesso strato di sedimento rossastro. “Qui ci lavavamo e prendevamo l’acqua da bere”, dice il coltivatore di noce moscata Abner Dowongi. “Ora dobbiamo comprare acqua in bottiglia”. Da quando è cominciata l’estrazione del nichel i suoi banani e i suoi cocchi crescono più lentamente e danno meno frutti.

Anche Dowongi ha manifestato, insieme a un centinaio di persone della tribù sawai, vicino a un posto di blocco dell’Iwip e da allora riceve aiuti alimentari: ogni tre mesi cinque chili di riso, un chilo di zucchero, cinque confezioni di noodles istantanei e una bottiglia di olio di cocco. “No, non è abbastanza. Nella mia famiglia siamo in undici”. Nel villaggio di pescatori di Gemaf, Abdullah Ambar, 61 anni, indica il mare calmo accanto a casa sua: “L’acqua è diventata torbida. Ho pescato davanti alla porta di casa per trent’anni, ora devo navigare almeno dieci miglia per riuscire a prendere un pesce. È costoso”. Secondo Ambar, la barriera corallina è ricoperta di sedimento soprattutto nella zona dove è stato aperto l’aeroporto per apparecchi privati. “La barriera sta lentamente morendo, ed è un problema per specie sedentarie come la spigola e il pesce napoleone”.

Secondo l’organizzazione per la difesa ambientale Walhi, a Halmahera le autorità locali e le aziende di nichel infrangono tutte le regole. “Stiamo ancora raccogliendo prove”, dice il direttore Faisal Ratuela nel suo ufficio a Ternate. Walhi fa analizzare campioni di acqua, pesci e aria, e intervista contadini che hanno venduto i loro terreni per pochi spiccioli, intimoriti dall’esercito. “Chi si lamenta con le aziende si ritrova il giorno dopo militari armati sulla porta”. L’organizzazione sostiene che nei campioni d’acqua del fiume e del mare c’è una quantità troppo alta di metalli pesanti come il cromo. I pesci marini subiscono danni al fegato e ai reni. Altri rapporti lo confermano. “Stiamo pensando di andare in tribunale, ma non vogliamo farlo da soli. Non tutti gli abitanti del villaggio sono dalla nostra parte. Hanno finalmente un lavoro e possono comprarsi uno scooter a credito”. È comprensibile, dice Ratuela, ma è un comportamento poco lungimirante. “Il loro ambiente viene distrutto in modo irreversibile e quasi tutti i vantaggi spariscono a Giacarta e all’estero”. Ha scritto una lettera al proprietario della Tesla, Elon Musk, per provare a fare pressione sul governo indonesiano. “Purtroppo non ho mai avuto risposta”.

Vendere cara la pelle

Sul suo sito l’Iwip promette una gestione responsabile delle risorse, e attenzione al benessere dei lavoratori e allo sviluppo sostenibile. Rispondendo ad alcune domande per questo articolo, sostiene di rispettare tutte le norme e di avere tutti i permessi richiesti dal governo. Questo vale anche per gli affittuari della zona industriale. Inoltre, dice di aver installato duecento punti di misurazione per controllare gli effetti sull’ambiente, di offrire vari programmi per aiutare gli abitanti del posto, di aver piantato più di mille ettari di bosco e di aver costruito vasche di contenimento e barriere per evitare che il fango raggiunga le idrovie. Ma il Volkskrant non ha potuto verificarlo.

“Ho dovuto vendere il mio terreno”, sospira Harnemus Takuling, 58 anni, nella veranda della sua grande casa di pietra a Lelilef. “Offrivano ottomila rupie per metro quadrato, 47 centesimi di euro. Una miseria”. Takuling è andato a protestare insieme ad altri sessanta proprietari terrieri ed è stato arrestato dall’esercito perché aveva con sé un pugnale: “Mi sono fatto un anno di carcere, eravamo in dieci in una cella”. Alla fine ha deciso di vendere, nel 2018. “Non avevo scelta: l’Iwip aveva già comprato tutti i terreni intorno al mio e mi bloccava l’accesso”. Takuling almeno è riuscito ad alzare il prezzo a 40mila rupie al metro quadrato. “Questa casa è il mio messaggio al resto del paese: vendete cara la pelle, se proprio dovete venderla!”. L’ex agricoltore mette in guardia gli abitanti dei villaggi più lontani. “Non vendete all’Iwip. La strategia nazionale a noi non frutta nulla. Si prendono la terra dei tuoi antenati, trasformandoti in uno spettatore impotente nel tuo stesso villaggio”. ◆ oa

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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati