John Podesta, occhiali squadrati e una calvizie incipiente, sale sul palco di una sala congressi di New Orleans. Dopo i noiosi convenevoli di rito arriva subito al punto: i soldi. Cold hard cash, il vile denaro. Podesta parla del “più grande programma di investimenti della storia nella protezione del clima e nella produzione di energia pulita. Circa 370 miliardi di dollari, se non di più”. Dopo aver alzato un attimo lo sguardo, aggiunge: “Ci saranno sovvenzioni per tutti i settori: energia, trasporti, edilizia, industria, agricoltura, silvicoltura”. Podesta snocciola cifre, parla di milioni di nuovi posti di lavoro e annuncia che gli investimenti pubblici spingeranno i privati a investire a loro volta migliaia di miliardi di dollari. Proprio così: non dice miliardi, ma migliaia di miliardi, cifre a dodici zeri. Alla fine fa una promessa: gli Stati Uniti dimezzeranno le emissioni di anidride carbonica entro il 2030. Ed entro il 2050 le azzereranno.

A New Orleans è riunita l’intellighenzia dell’energia pulita. Sedute su lunghe file di sedie, ci sono circa tremila persone tra ingegneri esperti di parchi solari, progettisti di parchi eolici e inventori di speciali rivestimenti per le pale dei rotori. Ci sono anche produttori di imbracature usate dagli addetti alla manutenzione per calarsi dalle pale eoliche a più di cento metri d’altezza, oltre a rappresentanti di aziende che fabbricano viti speciali, olio lubrificante e batterie di ultima generazione. A tutte queste persone Podesta ha appena annunciato che nel giro di qualche anno il governo degli Stati Uniti le renderà molto ricche.

Nel Partito democratico Podesta, 74 anni, consulente politico, nonno e maratoneta, è l’uomo da chiamare quando il gioco si fa duro. Bill Clinton lo nominò capo di gabinetto, Barack Obama gli affidò il passaggio di consegne dal suo predecessore George W. Bush. Hillary Clinton gli chiese di gestire la sua campagna elettorale per le presidenziali. Anche Joe Biden si è rivolto a lui, ma questa volta per un compito completamente diverso: traghettare gli Stati Uniti nell’epoca verde.

Milioni di pick-up sulle strade, decine di migliaia di voli interni al giorno, abitazioni senza un adeguato isolamento termico e circa cento chili di carne consumati ogni anno dallo statunitense medio: questo è lo stile di vita americano, con il suo impatto sul clima; questi sono i problemi di cui dovrà occuparsi Podesta. Gli Stati Uniti sono il secondo paese al mondo, dopo la Cina, per emissioni di gas serra. Per quanto riguarda le emissioni pro capite, sono di gran lunga il primo tra i maggiori paesi del pianeta. Nella sala congressi di New Orleans, Podesta affronta il suo nuovo compito accennando appena alla crisi climatica: non parla degli incendi boschivi che ogni anno devastano la California né del fiume Colorado, un tempo imponente, che si sta lentamente prosciugando, né degli uragani sempre più forti. Non parla neanche di abbassare le emissioni di anidride carbonica attraverso nuove linee guida o nuovi divieti. Parla di soldi, investimenti e affari. Perché la risposta del governo statunitense alla crisi climatica è proprio questa. È il capitalismo che ha permesso agli statunitensi di volare tanto, guidare tanto e di mangiare tutta quella carne. E sarà il capitalismo a permettergli di continuare così. Ma in modo diverso, cioè senza emettere anidride carbonica.

Proprio gli Stati Uniti, che sono tra i primi responsabili del cambiamento climatico, hanno lanciato il piano d’intervento più grande di tutti i tempi: l’Inflation reduction act (Ira), una legge approvata dal Congresso nell’agosto 2022. È innanzitutto un gigantesco programma di sovvenzioni. In parole povere, ci sono soldi per fare praticamente qualsiasi cosa possa mitigare il cambiamento climatico. L’idea è rendere più convenienti prodotti e tecnologie verdi, arrivando a sostituire quasi tutto ciò che brucia gas e petrolio. Da questo punto di vista, prima di essere un pericolo, il cambiamento climatico è una nicchia di mercato.

Foto di Edoardo Delille e Giulia Piermartiri

A New Orleans John Podesta ha finito di parlare, rimette in tasca i fogli del discorso e scende dal palco per andare a prendere il prossimo volo per Washing­ton. Si lascia alle spalle l’interrogativo a cui vorremmo trovare una risposta: la protezione del clima si può comprare?

Impianti eolici nel Connecticut

Bridgeport, Connecticut, è una città portuale di 150mila abitanti sulla costa orientale degli Stati Uniti. Un tempo qui si viveva di caccia alle balene, poi, con l’industrializzazione, sono arrivate le fabbriche di macchine per cucire e di munizioni. Oggi è piena di edifici abbandonati e fatiscenti. Tra questi, fino a poco tempo fa, c’era anche un cantiere navale vicino al porto. Occhiali a specchio e giacca a vento, Harry Boardsen, 46 anni, indica uno dei capannoni del cantiere e dice: “Lì dentro c’era una montagna di robaccia, i procioni si erano fatti la tana”.

Oggi il cantiere, tinteggiato da cima a fondo, è pieno di macchinari nuovi di zecca. Boardsen, che gestiva un porto turistico per yacht, ha preso in gestione gli impianti insieme al suo socio, con cui ha fondato la Bridgeport Boatworks, un’azienda che oggi ha cento dipendenti tra saldatori, meccanici e tecnici della vetroresina. “Tutti ottimi posti di lavoro”, osserva. Alcuni uomini in tuta da lavoro stanno smerigliando la prua arrugginita di una vecchia nave da carico, mentre altri operai ispezionano la superficie verniciata di fresco di uno yacht a motore. Board­sen è particolarmente fiero delle nuove gru posizionate davanti ai capannoni, in grado di sollevare dalla darsena navi che pesano varie tonnellate. Anche la sua azienda sorprendentemente è tra i beneficiari delle sovvenzioni governative. Cosa c’entra un cantiere navale con la lotta al cambiamento climatico? In effetti, fino a poco tempo fa Boardsen non aveva molto a che fare con l’energia pulita. Ma le cose stanno cambiando.

Diverse aziende vogliono installare parchi eolici offshore al largo del Connecticut. Dovrebbero sorgere centinaia di giganteschi impianti, ma al momento mancano siti di ormeggio e riparazione per le navi che si occupano del rifornimento e della manutenzione: Boardsen vorrebbe rimediare a questa carenza con i soldi dell’Ira. Ha capito che, oltre a produrre energia elettrica, le pale eoliche potrebbero generare profitti riportando un pezzo di industria a Bridgeport.

Foto di Edoardo Delille e Giulia Piermartiri

Il pacchetto di finanziamenti governativi si basa proprio su quest’idea: se per combattere il cambiamento climatico ci si affida solo agli ambientalisti e a chi ha già una coscienza ecologica, le emissioni continueranno ad aumentare. Per ridurle bisogna coinvolgere il mondo degli affari.

Aiutato dai consulenti economici del comune, Boardsen ha chiesto e ottenuto 10,5 milioni di dollari. I fondi dell’Ira saranno erogati in gran parte in forma di sgravi fiscali. Per riempire il buco che questa legge inevitabilmente aprirà nelle finanze statunitensi, Biden non ha intenzione di contrarre nuovi debiti, ma di aumentare le tasse da qualche altra parte. D’ora in poi, le aziende con un fatturato annuale superiore al miliardo di dollari pagheranno un’imposta sugli utili societari pari almeno al 15 per cento. In passato, le aliquote per le aziende di queste dimensioni erano decisamente più basse, rasentando in alcuni casi lo zero. Si stima che la nuova aliquota minima frutterà in dieci anni più di 222 miliardi di dollari. Un’imposta dell’1 per cento sul riacquisto di azioni dovrebbe far incassare allo stato altri 74 miliardi. La Casa Bianca, inoltre, spera di raccogliere cento miliardi intensificando la lotta all’evasione fiscale. Insomma, il governo vuole dimostrare che nella lotta alla crisi climatica non bisogna per forza rimetterci.

Intanto, in piedi sul muro della banchina, Boardsen abbraccia con un ampio movimento il porto, il centro storico e la centrale a carbone dismessa che ha di fronte. Disegna in aria le sue ambizioni per l’azienda, che deve crescere, e per la città, a cui l’energia eolica dovrebbe regalare la reindustrializzazione. Al posto della centrale a carbone, Boardsen prevede nuovi quartieri, con abitazioni, uffici e negozi: “Sento che sono in arrivo cambiamenti positivi per Bridgeport”.

Foto di Edoardo Delille e Giulia Piermartiri

È l’effetto domino sul piano economico: anche Boardsen rientra nei calcoli alla base dell’Ira. Attraverso questi fondi il governo butta giù la prima tessera del domino che, cadendo, butterà giù la seconda e così via: un capitalismo green che avanza in modo automatico. Una reazione a catena che non ha bisogno di ulteriori interventi.

Lo scuolabus elettrico

Charleston, West Virginia, 45mila abitanti. Tony Nichols gira il volante e attraversa rumorosamente i binari della ferrovia. “Devo dire”, osserva, “che è una cosa fantastica: guarda come accelera, come sterza e poi senti, non puzza per niente”. Si riferisce a uno scuolabus elettrico. Lo sta guidando, senza passeggeri a bordo, su strade piene di crepe e di buche. Quando il mezzo si avvicina a una fermata, gli altoparlanti esterni emettono un segnale acustico. “Così i bambini lo sentono arrivare”, visto che il motore è silenziosissimo, spiega Nichols prima di svoltare per rientrare nello stabilimento. Il nostro breve giro di prova si conclude davanti al capannone dove è stato fabbricato lo scuolabus, con le portiere che si aprono con un sibilo.

Corpulento, con il pizzetto e il cappellino da baseball, Nichols lavora per la
Green Power Motor Company, un’azienda canadese che a Charleston produce scuolabus elettrici. Lui si occupa dell’assistenza tecnica: se in qualsiasi angolo del sud dello stato ci sono problemi con lo scuolabus, lui monta sul furgone e va a risolverli. In futuro il suo raggio d’azione dovrebbe allargarsi, visto che la fabbrica di Charleston arriverà a rifornire tutta la costa orientale. Le commesse dello stato di New York, che entro il 2035 vuole convertire all’elettrico tutti i suoi scuolabus, superano i diecimila veicoli.

Rispetto all’anno scorso, la Green Power ha più che raddoppiato gli utili, e anche il prezzo delle azioni è schizzato verso l’alto. “Non è male lavorare finalmente in un settore in crescita”, dice Nichols. Per lui è la prima volta. Oggi Nichols ha 57 anni. Quando ne aveva venti, fu assunto in una miniera di carbone, come suo padre e il padre di suo padre prima di lui. Si occupava della manutenzione di macchinari e attrezzi e della riparazione dei nastri trasportatori. Poi, però, ci fu il “crollo”, come lo chiama lui. Macchine sempre più grandi divoravano quantità sempre più grandi di carbone, rendendo superflui migliaia di dipendenti. Intanto il gas, estratto dal sottosuolo in tutti gli Stati Uniti con la tecnica del fracking, soppiantava il carbone come principale fonte d’energia. “In quel periodo bastava un inverno un po’ più mite, in cui la gente usava meno i riscaldamenti, per farmi perdere il lavoro”, conclude Nichols che, per sbarcare il lunario, si metteva a guidare gli scuolabus finché alla miniera non serviva di nuovo gente e lui poteva essere riassunto per un anno o due. È andata così per parecchio tempo.

Con le precipitazioni che diminuiscono anche nelle montagne Rocciose e le temperature che salgono, l’acqua evapora più di prima

Una strada stretta risale le colline verdeggianti e arriva alla miniera, dismessa nel 2015, superando roulotte arrugginite, divani a brandelli e carcasse di automobili. Tra i fili d’erba spuntano rifiuti. Un giovane emaciato passa sfrecciando su un motorino. “Qui la gente ha problemi di droga,” racconta Nichols. “Crystal meth e fentanyl, roba pesante”. La West Virginia è tra gli stati più poveri del paese.

Alla vecchia miniera, dove un tempo i minatori scendevano ogni giorno nei pozzi, oggi sono tornati gli alberi. Nelle pozze crescono le canne. Nichols racconta degli artificieri che bucavano la roccia per piazzare le cariche con cui far esplodere massi enormi e arrivare al carbone. Oggi la natura, pezzo dopo pezzo, si riprende la montagna.

L’ultima volta che Nichols ha lavorato in miniera è stata nel 2015. Poi si è rimesso a guidare gli scuolabus per 32mila dollari all’anno, “non molto, neanche per la West Virginia”. Migliaia di persone della zona hanno vissuto esperienze simili, perché negli ultimi decenni quasi nessun altro stato del paese è stato tanto dipendente dal carbone. Man mano che le miniere chiudevano, la gente si radicalizzava: in passato, quando i sindacati, scontrandosi duramente con le aziende del carbone, riuscivano a strappare salari più alti e migliori condizioni di lavoro, alle elezioni i minatori votavano per il Partito democratico; oggi molti considerano Donald Trump il paladino della gente comune, il loro eroe.

Stile di vita

Da quando le parole effetto serra, decine di anni fa, sono entrate nel linguaggio comune, ci si chiede se sia possibile in democrazia un’efficace politica di tutela del clima. La crisi climatica è una crisi dello stile di vita industriale. Ma come fa un governo a convincere gli elettori a cambiare stile di vita senza perdere i loro voti? Negli Stati Uniti rispondere a questa domanda è più difficile che mai, perché non sembra esserci un altro paese in cui i cittadini siano così contrari a qualsiasi forma di ingerenza della politica nei loro affari. Gli antenati di molti statunitensi sono venuti dal mare per costruirsi una nuova vita, non perché qualcuno gli dicesse come viverla. È un atteggiamento che si è mantenuto per generazioni ed è vivo ancora oggi. Potrebbe essere posta anche così: come fa uno stato che da decenni cerca invano di proibire ai cittadini di possedere fucili d’assalto a imporgli quale auto guidare, come riscaldare la casa e cosa mangiare? Ecco, forse grazie ai soldi riuscirà a convincerli che l’energia verde è un’energia buona.

Secondo le prime stime, sembra che gran parte dei fondi dell’Ira non andranno agli stati che alle presidenziali del 2020 hanno scelto Joe Biden, ma a quelli in cui la maggioranza dei voti è andata ai repubblicani. C’è un articolo della legge che sembra scritto apposta per la West Virginia: riguarda le cosiddette energy communities, comunità energetiche, quelle aree degli Stati Uniti dove si produceva energia da combustibili fossili e che ora sono minacciate dalla svolta energetica. Alle comunità energetiche sono destinati finanziamenti specifici e le aziende che assumeranno ex minatori riceveranno ulteriori sovvenzioni. La legge, inoltre, finanzierà anche l’assistenza medica per chi soffre di silicosi, una malattia polmonare causata dall’inalazione della polvere di silice (quarzo). “Mio padre respira a fatica”, racconta Nichols, “gli basta percorrere pochi metri per restare senza fiato”. Questa malattia, diffusissima nella West Virginia, è causata da sottili particelle di carbone che si depositano sui polmoni. In passato per coprire le spese delle cure c’era un’imposta straordinaria sui profitti delle aziende carbonifere, ma nel 2018 il congresso di Wash­ington, a maggioranza repubblicana, ha tagliato i fondi. Con l’Ira l’amministrazione Biden li sta ripristinando.

L’elemento innovativo della legge è che non mira esclusivamente a tutelare il clima, ma impone certe condizioni a tutte le imprese che vorrebbero beneficiare delle sovvenzioni: il massimo degli sgravi fiscali si ottiene concedendo salari equi a operai e impiegati, e sono particolarmente favorite le aziende che usano materiali prodotti negli Stati Uniti. L’Ira è infatti espressione di una politica economica che ormai ha anche un nome proprio: bidenomics. Nei suoi discorsi – preferibilmente nei capannoni industriali davanti agli operai – Biden accusa sempre il pluridecennale smantellamento delle infrastrutture statali statunitensi e la politica che ha nutrito la logica del profitto, anima di un mercato deregolamentato. A questo il presidente prova a contrapporre un capitalismo che, seppur orientato alla crescita e al profitto, sia spinto dall’intervento dello stato per indirizzare il denaro nella giusta direzione.

Dove sorgeva la miniera di Charleston, le ruspe riempiono le vecchie cave sollevando molta polvere. “Ho sentito dire che qui si installeranno dei pannelli solari,” racconta Nichols. Presto la più grande azienda produttrice di energia solare della zona comincerà i lavori per costruire un enorme magazzino a ovest di Charleston. Il logo dell’azienda è un minatore che pianta il piccone nel sole.

Per decenni in Texas sono stati scoperti nuovi giacimenti di gas e petrolio e oggi Corpus Christi è attraversata dalle raffinerie di greggio

Un geyser oleoso

Corpus Christi, Texas, 320mila abitanti. Dal pozzo uscì fango e poi, dopo qualche minuto di silenzio, un getto di petrolio schizzò verso l’alto, come una fontana nera. Un geyser oleoso di trenta metri che confermava le speranze di chi era convinto che in Texas il petrolio ci fosse e, come si legge nei resoconti dell’epoca, per mesi lo aveva cercato invano perforando inutilmente il terreno roccioso. Finalmente il 10 gennaio 1901 il petrolio sgorgò, segnando l’inizio di una nuova epoca.

Non era la prima volta che si trovava il petrolio, fino a quel momento usato soprattutto per le lampade a olio al posto del grasso di balena. Ma era la prima volta che se ne trovava tanto. Il petrolio diventò il combustibile dell’era industriale, il carburante per ogni forma di mobilità. Per decenni in Texas sono stati scoperti nuovi giacimenti di gas e petrolio e oggi Corpus Christi, sul golfo del Messico, è attraversata dalle raffinerie di greggio, con i tubi che si snodano lungo le autostrade come rampicanti d’acciaio e le ciminiere che si stagliano contro il cielo come uno strano bosco di conifere. Nel porto approdano quasi ogni giorno le metaniere.

La maggior parte degli abitanti di Corpus Christi è ancora impiegata nel settore delle materie prime o lavora nell’indotto delle grandi compagnie energetiche. Tra loro c’è Jan Sherman, che aspetta i giornalisti della Zeit nella hall di uno dei grandi alberghi della città. Indossa la polo bordeaux dell’università dove ha studiato, la Texas a&m university, specializzata in materie scientifiche e tecniche. Sherman è un’ingegnera petrolifera che ha lavorato per trent’anni alla Shell. Era responsabile dei cosiddetti progetti non convenzionali che, nel gergo del settore, sono quelli che usano tecniche di estrazione diverse da quelle tradizionali. Cioè la trivellazione e il pompaggio, che servono solo per i giacimenti vicini alla superficie terrestre. Le alternative sono il fracking o la trivellazione in acque profonde.

Sherman ci accoglie amichevolmente, ma è piuttosto riservata. Poi ci spiegherà qual era la parola d’ordine del suo lavoro: se ti cerca la stampa, devi aver sbagliato qualcosa. Ora però ha cambiato lavoro. È cofondatrice della Carbonvert, tra le prime aziende statunitensi a occuparsi di carbon capture and storage (Ccs). In parole povere, catturano l’anidride carbonica emessa attraverso la combustione di gas e petrolio e la depositano nel sottosuolo. Non quella emessa da singole automobili o da singoli impianti di riscaldamento, ma quella delle grandi centrali elettriche e delle aziende ad alto consumo energetico. È possibile addirittura assorbire l’anidride già fuoriuscita nell’atmosfera, mitigando l’effetto serra.

Sherman guida fino al porto, dove un pellicano si è posato in mezzo ai pescatori. Da qui riusciamo a vedere uno dei due terreni del Texas general land office che la Carbonvert ha preso in affitto per trent’anni: è un’area grande dieci volte il distretto di Manhattan a New York. Qui si vedono solo le onde che increspano l’acqua. Ma quello per cui la Carbonvert è disposta a versare un canone annuale allo stato del Texas è qualcosa che non appare in superficie: si tratta delle formazioni rocciose sotto il fondale marino.

Il Ccs funziona così, spiega Sherman: durante la combustione di gas e petrolio, si cattura l’anidride carbonica che poi, una volta liquefatta, è iniettata nelle profondità della terra, all’interno di cavità-serbatoio che poi sono sigillate, in modo da imprigionare il gas serra per l’eternità. Gli impianti di iniezione che l’azienda sta per costruire non sono più alti di un trampolino da tre metri in piscina.

Può sembrare futuristico, ma il Ccs è un metodo consolidato. E sembra proprio che in pochi paesi del mondo le condizioni siano favorevoli come negli Stati Uniti: qui ci sono non solo abbastanza geologi, ingegneri e lavoratori specializzati nella gestione delle condutture e del processo di fluidificazione dell’anidride, ma anche informazioni dettagliatissime sulle formazioni rocciose presenti nel sottosuolo. In stati come il Texas, l’Oklahoma, il Wyoming e il North Dakota, infatti, generazioni di statunitensi alla ricerca del petrolio hanno analizzato praticamente ogni metro quadrato di terra ottenendo una mole di dati geologici senza pari che ora facilita l’individuazione di siti per lo stoccaggio.

Molti ambientalisti criticano la Ccs, perché temono che possa far rinviare l’abbandono dei combustibili fossili. Inoltre, è impossibile escludere con certezza assoluta che il gas serra a un certo punto non fuoriesca dai siti di stoccaggio sotterraneo. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico e l’Agenzia internazionale per l’energia, invece, senza la Ccs è ormai impossibile raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Abbiamo aspettato troppo per cominciare a ridurre le emissioni.

Gas serra
Il prezzo dell’industria
Emissioni di CO2 dopo l’industrializzazione, miliardi di tonnellate all’anno (Fonte: Global Carbon Budget, Stand 2021)

Non puntare esclusivamente sullo sviluppo delle energie rinnovabili ma anche sullo stoccaggio dell’anidride carbonica è parte dell’approccio pragmatico dell’Ira. Questa tecnologia è sempre stata troppo costosa per i gruppi industriali che bruciano grandi quantità di gas e petrolio, ma ora le cose stanno cambiando. Per ogni tonnellata di anidride catturata all’uscita delle ciminiere di una fabbrica o di una centrale elettrica e poi stoccata, la legge garantisce fino a 85 dollari in sgravi fiscali e addirittura 180 dollari alla tonnellata alle aziende che estraggono anidride dall’atmosfera.

La Carbonvert si è assicurata un secondo lotto sottomarino, al largo di una delle isole di fronte a Corpus Christi. Sherman si ferma a guardare dei bambini che giocano a pallone. Non lontano da qui sorgono gli impianti delle principali compagnie petrolifere, le sue potenziali clienti.

Le foto
Disastri proiettati

◆ Le foto di queste pagine sono tratte da California drought, un lavoro di Edoardo Delille e Giulia Piermartiri. Sono state scattate in California nell’area colpita dal Camp fire, l’incendio del 2018 considerato il più devastante nella storia dello stato, proiettando sulle abitazioni o al loro interno immagini di siccità e incendi.


Un gestore di porti turistici con un’azienda che presto si occuperà delle navi che fanno manutenzione dei parchi eolici offshore, un ex minatore che ora si occupa di scuolabus elettrici e un’ingegnera che vuole stoccare l’anidride carbonica nel sottosuolo: sono tre esempi di come l’Ira sta cambiando gli Stati Uniti, tre beneficiari della nuova legge, tre persone che hanno vinto. Ma c’è anche chi perde?

L’Arizona a secco

Casa Grande, Arizona, sessantamila abitanti. Paco Ollerton scende dal suo
pick-up senza spegnere il motore, perché altrimenti smette di funzionare anche l’aria condizionata. Guarda verso nord, verso i campi che arrivano fino all’autostrada. La terra è incolta e nei solchi polverosi è rimasto impigliato qualche bocciolo di cotone sporco. “Anno dopo anno diminuiscono le razioni e ormai l’acqua non ci basta più”, racconta Ollerton, 70 anni, che ha le mani segnate da 42 anni passati a lavorare la terra. Qui coltivava cotone, angurie senza semi, teff ed erba medica, tutte piante che hanno almeno una cosa in comune: non riescono a crescere bene con quel poco d’acqua rimasta.

Nel deserto dell’Arizona non piove spesso e l’acqua è scarsa: ma, per secoli, ci ha pensato il Colorado, un fiume che nasce sulle montagne Rocciose, a circa mille chilometri dai campi di Ollerton. Scorrendo verso il mare, il fiume attraversa il Colorado, lo Utah, l’Arizona, il Nevada e la California e dappertutto la gente attinge la sua acqua: gli agricoltori come Ollerton per produrre il mangime per milioni di mucche, le centrali per produrre elettricità e quaranta milioni di persone per lavare i panni e annaffiare i giardini. Ma di acqua ce n’è sempre meno.

Tutto questo è più evidente che mai al confine tra l’Arizona e il Nevada. Lake
Mead è il lago artificiale più grande del Nordamerica e, una volta, si estendeva per 180 chilometri attraverso la piana del Colorado, fino alla gigantesca parete della diga di Hoover, lungo la quale corre dritta una linea bianca: si è formata nel 1983, quando il lago raggiunse il livello massimo. Da allora cominciò a perdere acqua. Nel 2022 ha raggiunto il suo livello più basso: la superficie del lago ora si trova più di quaranta metri sotto quella linea bianca. Con le precipitazioni che diminuiscono anche nelle montagne Rocciose e le temperature che salgono, l’acqua evapora più di prima e la gente che abita lungo il Colorado ne consuma troppa. Nel sudovest degli Stati Uniti non si tratta più di scongiurare la crisi climatica: la crisi è già qui. Ollerton porta il pick-up su una collina: in un ampio canale di cemento scorre l’acqua del Colorado. “Prima ce n’era abbastanza per irrigare tutto il terreno”, racconta. Oggi buona parte di quei campi è incolta.

Gas serra
Apporto individuale
Emissioni di anidride carbonica per abitante, tonnellate, 2021 (Fonte: Global Carbon Budget, Stand 2021)

Sembra che Ollerton voglia solo ignorare la crisi e continuare a irrigare i campi con la stessa quantità d’acqua che usava in passato. Ma deve scontrarsi con una realtà fatta di caldo e siccità e, da qualche tempo, anche con il governo di Washing­ton, che l’anno scorso ha proclamato lo stato d’emergenza idrica. Per evitare che il fiume si prosciughi del tutto, il governo usa i soldi dell’Ira per stipulare accordi con proprietari terrieri e tribù indigene: paga per evitare che chi vive lungo il Colorado tocchi l’acqua del fiume. Solo che, in questo modo, a quelli come Ollerton viene a mancare la fonte di sostentamento.

Finora l’assicurazione contro i cattivi raccolti ha sempre rimborsato Ollerton per i danni subiti a causa della mancanza d’acqua. “Ma non so per quanto potrò ancora contarci”, dice con aria stanca. Come la maggior parte degli agricoltori statunitensi, Ollerton è repubblicano e ritiene che l’Ira sia “una fesseria da politici”. Vorrebbe soltanto che tornasse l’acqua, come in passato. Già suo nonno coltivava cotone in questo deserto, e dopo di lui suo padre. “Non so se mio figlio abbia la mentalità giusta per reggere tutto questo”, osserva. “È possibile che l’agricoltura in questa zona degli Stati Uniti sia finita”.

Piante grasse e piscine

Phoenix, Arizona, 4,7 milioni di abitanti. Aree verdi e immensi campi da golf si estendono ai margini della città. Tra gli impianti d’irrigazione sibilanti, alla fine della giornata i giovani impugnano con disinvoltura le mazze da golf. Le strade tortuose di Camelback Mountain portano a ville milionarie con grandi vetrate, elaborate composizioni di piante grasse e piscine. Nei dehors dei bar, i nebulizzatori spruzzano minuscole goccioline sugli avventori. Nel bel mezzo del deserto i quartieri ricchi di Phoenix sono pieni d’acqua.

Gas serra
Apporto per paese
Quota delle emissioni di anidride carbonica prodotte dal 1751 al 2021, percentuale (Fonte: Global Carbon Budget, Stand 2021)

La città si trova in una delle regioni metropolitane degli Stati Uniti che sta crescendo più rapidamente. I terreni edificabili sono ancora relativamente economici e Los Angeles e San Francisco si raggiungono facilmente in aereo. Sempre più gente consuma sempre più acqua e sempre più elettricità, perché senza il condizionatore acceso tutto il giorno la vita è quasi insopportabile: l’estate scorsa le temperature massime hanno superato i 43 gradi per trentuno giorni di fila.

Qui, nella capitale dell’Arizona, l’Ira mostra con più evidenza i suoi limiti. L’idea che lo stesso capitalismo, aiutato da sovvenzioni statali, possa azzerare le emissioni di anidride carbonica negli Stati Uniti suona bene e sembra anche fattibile ma, per raggiungere davvero gli obiettivi climatici di Biden, lo sviluppo delle energie rinnovabili dovrebbe procedere a un ritmo sei volte più veloce di quello attuale, anche tenendo conto dell’eventuale stoccaggio di anidride nel sottosuolo.

Secondo i calcoli degli ingegneri, questo significherebbe passare i prossimi trent’anni a costruire due impianti solari da 400 megawatt e 800 ettari ciascuno ogni settimana, oltre a installare duemila turbine eoliche offshore entro il 2030 e fino a sedicimila chilometri di linee elettriche ad alta tensione all’anno, senza contare tutto quello che è già in programma. Inoltre, circa cento milioni di famiglie dovrebbero passare alle pompe di calore per il riscaldamento domestico, e le auto elettriche dovrebbero passare dagli attuali tre milioni a 330 milioni di veicoli.

Le cifre sarebbero decisamente più basse e raggiungibili se gli statunitensi abbassassero i loro consumi. Dove sta scritto che al supermercato bisogna comprare sempre le bistecche, quando l’allevamento dei bovini richiede enormi quantità d’acqua? E dove sta scritto che in Arizona le famiglie devono avere un giardino con il prato invece che con le piante grasse? E dove sta scritto che, nel bel mezzo del deserto Sonora, è scontato scegliere tra decine di campi da golf, mentre le acque del Colorado diminuiscono? In altre parole: è possibile tutelare il clima a colpi di sovvenzioni statali, senza danneggiare nessuno?

Lo stato dell’Arizona ha annunciato che sospenderà l’approvazione di alcuni progetti edilizi nell’area di Phoenix finché non si troverà una soluzione alla crisi idrica. La politica tira il freno a mano e ne risentiranno i privati, che non saranno più autorizzati a costruirsi la casa. Lo stop edilizio di Phoenix potrebbe essere il primo segnale di una crisi sempre più acuta che costringerà il governo a ricorrere a imposizioni e divieti per ridurre le emissioni.

Tuttavia, presto potrebbe esserci anche un violento terremoto politico, in seguito al quale alla Casa Bianca non importerà più niente del clima. Perché, se negli Stati Uniti si votasse oggi, con tutta probabilità non vincerebbe Joe Biden, ma Donald Trump. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati