Quando Sean Sherman serve agli ospiti del suo ristorante, l’Owamni, una bistecca di bisonte a cottura media con verdure stufate non si tratta solo di un piatto famoso, ma anche di un simbolo. Alla fine dell’ottocento fu proprio lo sterminio dei bisonti a regalare ai colonizzatori bianchi la vittoria sui nativi del continente e a segnare l’inizio della loro repressione. A partire dal 1870 nell’ovest del paese l’esercito statunitense uccise milioni di bisonti per risolvere la “questione indiana”, come usavano dire i coloni e i politici bianchi alludendo al fatto che le popolazioni native non erano disposte a consegnare volontariamente le loro terre ai conquistatori. Prima dell’arrivo dei colonizzatori nel continente vivevano più di trenta milioni di bisonti; alla fine del diciannovesimo secolo ne erano rimaste solo alcune centinaia. Con loro sparì il mondo dei sioux, dei kiowa, dei comanche e di quasi tutte le tribù che popolavano le grandi pianure dell’ovest. Le riserve create dai bianchi furono per loro gli unici luoghi dove sopravvivere.

Centocinquant’anni dopo all’Owamni Sean Sherman fa a meno di qualsiasi ingrediente importato dai bianchi. E il bisonte nel piatto è anche un modo per incuriosire i suoi ospiti e invitarli alla conversazione. È così che Sherman, cresciuto nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota, intende la sua cucina.

Il cuoco, che appartiene alla tribù degli oglala lakota sioux, ha aperto l’Owamni nell’estate del 2021. Il posto prende il nome da una cascata che i dakota chiamavano owamni yomni, acqua che vortica. Oggi sono diventate le cascate di Saint Anthony e si trovano a Minneapolis. Dalle finestre del ristorante si vedono le rapide create dalla diga sul fiume Mississippi, che nasce qui nel Minnesota e si getta nel golfo del Messico vicino a New Orleans.

In poco tempo l’Owamni è diventato il posto di riferimento per la cucina indigena negli Stati Uniti. Anche se, a dire il vero, al momento non ha concorrenza, dato che le cucine importate dagli immigrati negli Stati Uniti sono soprattutto quelle “tipicamente bianche”: hamburger, catene di pizzerie e raffinati ristoranti all’europea. I piatti tipici dei nativi erano spariti insieme ai bisonti. Ma ora trovano nuova vita all’Owamni.

Qui si cucina come se gli europei non avessero mai messo piede in America. Niente farina, latticini, vitello, maiale o pollo, niente zucchero di canna o pepe, nessuno degli ingredienti arrivati dal vecchio continente. Su questo, lo chef Sean, come ormai è chiamato Sherman, è inflessibile. Le uniche eccezioni sono la birra e il vino. Nel giugno 2022 l’Owamni è stato nominato “miglior nuovo ristorante” dalla James Beard foundation, un’istituzione importante nel settore culinario statunitense. Oggi chi vuole fare un pasto “decolonizzato”, come lo chiama Sherman, deve avere pazienza. Il ristorante è tutto prenotato con settimane d’anticipo.

Un luogo riconquistato

È un mercoledì pomeriggio di fine gennaio. Mentre il resto della città è paralizzato da neve e gelo, con strade e negozi vuoti, nel tempo morto tra il pranzo e la cena gli ospiti dell’Owamni restano seduti ai semplici tavoli di legno del ristorante. L’ambiente non ha nulla a che vedere con il folclore. L’arredamento è moderno senza essere freddo, in sintonia con l’edificio in mattoni. “Sei nella terra dei nativi”, annuncia una scritta al neon rossa. A indicare una sorta di luogo riconquistato dagli indigeni, creato a loro immagine.

Sherman si siede al bar, è appena arrivato da casa, che si trova a un paio di chilometri dal ristorante. Ormai non passa più tanto tempo in cucina, le incombenze di tutti i giorni le ha in gran parte delegate alla sua squadra, in cui lavorano cuochi che lo accompagnano già da parecchio tempo, come Darius, che oggi è ai fornelli. All’apice della stagione, quando il ristorante ha anche i tavoli all’aperto e un camioncino per il cibo di strada sul lungofiume, l’Owamni conta 120 dipendenti, tre quarti dei quali sono di origine nativa.

Per il suo ristorante, Sherman segue regole rigide: si rifornisce prima dai nativi locali, poi dai nazionali, e solo dopo da altri produttori

Per il nostro incontro, Sherman fa arrivare una piccola ciotola con del riso selvatico cotto in padella senza olio: “Puoi rifarlo anche con il riso selvatico del supermercato, ma non sarà così buono”, dice ridendo. Il riso servito dall’Owamni cresce nell’area attorno ai Grandi Laghi del Minnesota ed è raccolto a mano. La cucina del ristorante è regionale. Non solo per la provenienza degli ingredienti, ma anche nella scelta dei piatti: ovviamente non esiste un’unica cucina nativa, dice Sherman. Più a sud, in Arizona, il menù sarebbe diverso. “Siamo così rigorosi perché vogliamo dimostrare che si può cucinare anche senza quello che è stato importato nel paese”. Questa scelta limitata secondo lui rappresenta un’emancipazione dalle tradizioni culinarie europee. E, attraverso una tartare di alce, del pane di mais blu e delle patate dolci con crosta piccante d’acero e cipollotti, gli ospiti possono assaggiare i piatti precoloniali.

Sherman, lunghi capelli divisi in due trecce, uno smartwatch a un polso, un braccialetto intrecciato all’altro, parla a voce bassa, rapidamente ma allo stesso tempo con calma, di quella che per lui è diventata una missione: ridare vita alla cucina indigena e riportare l’attenzione sulla colonizzazione e i crimini commessi contro i nativi.

Quando pensa a cosa mangiava durante l’infanzia, ricorda un misto di piatti tradizionali e statunitensi. Nato nel 1974, Sherman è cresciuto nella fattoria dei suoi genitori. La famiglia aveva pochi soldi, il ragazzo tanta libertà. A sette anni ha ricevuto il suo primo fucile a pallini. Spesso vagava per ore nella prateria, sparava ai fagiani e alle anatre, cercava le bacche di aronia, e ancora oggi ricorda l’odore della salsa che ne ricavava sua nonna. La salsa wojapi che all’Owamni accompagna la bistecca di bisonte è una sua leggera variazione.

Ben diverso era l’odore dei piatti serviti ogni giorno nella riserva. Anche quegli aromi hanno formato Sherman: roba industriale, confezionata, in scatola, parte del piano di alimentazione statale da cui la famiglia di Sherman dipendeva, come molti altri indigeni. “Odoravano di cibo per cani”, dice. Ancora oggi negli Stati Uniti i nativi devono fare affidamento sugli aiuti statali. La conseguenza è che le loro condizioni di salute sono in media peggiori di quelle degli americani bianchi. La loro cucina tradizionale, racconta Sherman, usa invece una grande varietà di piante, molte proteine e pochi carboidrati, quindi è povera di zuccheri e non fa schizzare il tasso glicemico del sangue.

Sherman ha lasciato la riserva da adolescente, per trasferirsi con la madre e la sorella in una piccola città. Non è mai scappato dalla sua famiglia e dalla sua storia, anche se ora chiama “casa” Minneapolis. Sulla sua maglietta e su quelle dei dipendenti dell’Owamni si legge #86colonialism. “Ottantasei” si grida nelle cucine dei ristoranti quando un piatto è esaurito. Il colonialismo è finito, è questo il senso delle magliette, e anche il cuore del lavoro di Sherman: cucinare come forma di resistenza.

L’Owamni è caro, ma per gli standard statunitensi non è inaccessibile. La bistecca di bisonte costa cinquanta dollari, circa 47 euro. Solo le costolette di alce, al prezzo di 55 dollari, sono ancora più costose. Ma per otto dollari si possono provare i tacos di mais con cavolo navone o i canederli di mais; le cavallette, ricche di proteine, per dieci. I piatti si possono condividere. Tutto ha un sapore deciso e insolito. Il latte di semi di girasole è più denso di quello di vacca, la bistecca di bisonte deliziosa come il miglior taglio di manzo, il sapore dei tacos è forse il più familiare di tutti. Non c’è niente di troppo elaborato, grasso o zuccheroso.

Sherman non aspira a servire cibo stellato. In ogni caso non vuole cucinare per i ricchi. Ma il ristorante è di certo più caro del suo camioncino che serve da mangiare per strada, e non tutti possono permettersi di cenare nel suo locale – nella serata che trascorriamo qui gli ospiti sono in maggioranza bianchi.

Quando Minneapolis è precipitata nel caos prima con la pandemia, che ha ritardato l’inaugurazione del ristorante, e poi con la morte di George Floyd, ucciso da alcuni agenti di polizia nel maggio 2020, Sherman e i suoi collaboratori hanno cucinato diecimila pasti alla settimana per i senza tetto, oltre che per nove delle undici riserve indiane dello stato, molto colpite dal covid-19. “Intorno a noi la città bruciava”, ricorda Sherman. Anche lui ha fatto i conti con il razzismo e le ingiustizie quando dalla riserva si è trasferito in una cittadina a maggioranza bianca. Uno dei suoi cugini è stato ucciso dalla polizia. Perfino nel ristorante i dipendenti nativi continuano a fare esperienze spiacevoli e ogni tanto sentono delle battutine stupide.

Il peso del passato

Oggi però all’Owamni non si percepisce nulla del genere. Ai tavoli e in cucina l’atmosfera è piacevole e anche mentre il ristorante si riempie verso sera. La squadra ha un’aria rilassata per un locale di alto livello. Forse è una calma trasmessa dallo stesso Sherman. Quando gli ospiti hanno voglia di scambiare due chiacchiere con lui, interrompe la nostra intervista. Si prende il tempo giusto.

Non fa mai affiorare la rabbia per tutto quello che lui e il suo popolo hanno subìto. Nel ristorante discute spesso del passato con i clienti: “Dobbiamo conoscere la storia. Solo così le atrocità del passato non si ripeteranno”, dice. I suoi bisnonni combatterono contro l’armata bianca degli americani dell’est. Nel 1883 il governo emise il cosiddetto Code of Indian offenses, una serie di leggi che proibì tutte le usanze indigene. Dal punto di vista dei bianchi, le tradizioni erano pericolose, e chi le praticava correva dei rischi. Anche per questo sono state tramandate poco. I nonni di Sherman appartenevano alla prima generazione di bambini obbligati a imparare l’inglese, a convertirsi alla religione cattolica e a tagliarsi i capelli. Per ordine del governo, la cultura indigena fu cancellata. “È quello che fa il colonialismo: esclude e costruisce la struttura che oggi conosciamo come capitalismo e globalizzazione”, dice Sherman.

Anche per questo i piatti cucinati all’Owamni sono il frutto di una lunga ricerca. Sherman non ha usato libri di cucina, ha inventato molte cose. E ha dovuto anche liberarsi di alcuni preconcetti, visto che il suo sapere culinario era in gran parte plasmato dalla tradizione europea.

Biografia

1974 Nasce nella riserva indigena di Pine Ridge, nel South Dakota.
1987 Comincia a lavorare nei ristoranti di Minneapolis come lavapiatti.
2015 Inaugura il Tatanka Truck, un camioncino che serve piatti indigeni per strada.
2017 Partecipa alla scrittura del libro The sioux chef’s indigenous kitchen, premiato come miglior libro di cucina degli Stati Uniti.
2021 Apre il ristorante Owamni, specializzato nella cucina dei nativi americani.


“La prima volta che mi sono sentito un vero cuoco è stato quando ho preparato un risotto perfetto”, ricorda Sherman. All’inizio della sua carriera non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe diventato famoso per dei tacos di bisonte e dei grilli nocciolati su popcorn. Soprattutto non aveva la cucina tra i suoi progetti. Viaggi, fotografia, arte: erano questi i suoi sogni. Ma le circostanze l’hanno spinto a cercarsi presto un lavoro: dopo la separazione dal marito, sua madre era rimasta sola, i soldi non bastavano mai.

A tredici anni Sherman ha cominciato a lavorare in una cucina. Il primo incarico da chef è arrivato nel 2001, in un ristorante italo-spagnolo di Minneapolis. Sherman si è sposato, è diventato padre, passando da un lavoro all’altro sempre nella ristorazione, senza mai avere a che fare con la cucina nativa. Davanti ai fornelli pensava come un europeo, senza nemmeno accorgersene. A trent’anni ha avuto un esaurimento. È andato in Messico, per capire come andare avanti. A San Pancho, sulla costa del Pacifico, ha avuto “un’illuminazione”. Ha cominciato a interessarsi alla storia degli indigeni della regione, scoprendo affinità nelle opere d’arte, nelle cerimonie, nel mangiare. “Sapevo nominare centinaia di piatti europei, conoscevo perfino i loro ingredienti nelle diverse lingue, ma non avevo idea delle ricette lakota”.

Così ha provato ad approfondire la cucina degli antenati. Ristoranti non ce n’erano, anche i libri di ricette erano pochi. Ha trovato appiglio nei libri di storia e nelle conversazioni con gli anziani delle tribù: “Ho cercato di scoprire come vivevano le persone prima dell’arrivo degli europei, con quali animali, piante e sementi, e cosa di tutto questo si trova ancora”. Ha cambiato il suo modo di pensare.

L’allestimento dell’Owamni non è niente di speciale: ha una tipica cucina da ristorante, lunga e stretta, in acciaio inossidabile. È la mentalità ai fornelli a essere diversa. Gli piacerebbe cambiare menù cinque volte all’anno. Il locale non è ancora pronto a farlo, ma Sherman vorrebbe offrire ai suoi ospiti nuove prospettive sull’intero continente nordamericano: “Quali sono i veri cibi del Nordamerica? Non gli hamburger e la Coca-Cola”.

Sherman ha fondato anche un’organizzazione senza scopo di lucro: la North american traditional indigenous food systems (Natifs), per far conoscere la cucina nativa. Oltre a un centro di formazione, ci sono un laboratorio e un mercato dove acquistare prodotti indigeni. Strutture simili saranno costruite in Alaska, Montana e South Dakota. “Dovrebbero esserci ristoranti del genere in ogni regione”, afferma Sherman.

Per il suo ristorante, Sherman segue regole rigide: si rifornisce prima dai nativi locali, poi dai nazionali, e solo dopo prende in considerazione gli altri fornitori. Per quanto possibile, compra alcolici e caffè dalle Bipoc, ovvero aziende fondate da neri, indigeni e persone non bianche. Per Sherman gli Stati Uniti hanno ancora da imparare dall’Europa. È importante comprare prodotti regionali e stagionali. Mangia principalmente vegetariano.

La fine della supremazia

Quando parla di cucina, Sherman perde quell’inflessione formale acquisita nelle sue tante apparizioni pubbliche, compresa una conferenza alle Nazioni Unite. La salsa della nonna, il primo risotto, la cucina italiana, la sua preferita dopo quella indigena: Sherman si entusiasma per tutti i piatti e la loro storia. All’Owamni non gli piace più stare ai fornelli, a casa lo fa continuamente. E così la carriera da chef ha cominciato a farlo viaggiare come sognava da piccolo. Quest’anno andrà in Norvegia e in Australia per parlare di tradizioni indigene.

A volte teme di non poter lasciare molto alle generazioni future. Ma crede nella forza dei movimenti. “La supremazia bianca sta finendo”, dice. Il contributo di Sherman alla resistenza è lo spazio che ha restituito alla cucina nativa. Nel 2016 il presidente Barack Obama ha nominato il bisonte “animale nazionale” degli Stati Uniti. Oggi migliaia di esemplari vivono di nuovo in branchi selvaggi nell’ovest. Anche loro sono tornati. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati