In un recente incontro sul tema delle persone che provano il bisogno irresistibile di accumulare oggetti, Daniel Pearson, comandante delle stazioni dei vigili del fuoco dei quartieri londinesi di Shadwell e Whitechapel, ha fatto ascoltare la registrazione di una chiamata al numero per le emergenze in cui una persona in preda al panico segnalava un incendio scoppiato in casa sua. Una squadra di vigili del fuoco è stata inviata subito, ma non ha potuto accedere all’abitazione. Pearson ha mostrato alcune fotografie dell’appartamento, scattate dopo il disastro: le porte e i corridoi erano bloccati da montagne di oggetti, ormai carbonizzati e irriconoscibili. La persona che aveva chiamato era morta. Pearson mi ha detto che casi come questo sono abbastanza frequenti. Nel 2022 i vigili del fuoco di Londra hanno affrontato 1.036 incendi in luoghi pieni di oggetti, che hanno causato 186 feriti e dieci morti. Alcune persone con questo disturbo accertato (disposofobia) sono state inserite in un database, in modo che in caso di necessità possano intervenire squadre di vigili del fuoco più numerose.

La riunione sull’argomento è mensile e partecipano pompieri, operatori della salute mentale, proprietari di alloggi popolari e funzionari del consiglio per l’edilizia abitativa e la salute ambientale. Per lo più si discute di possibili interventi specifici: i vigili del fuoco dovrebbero andare in quelle case e mettere a disposizione rilevatori di fumo e biancheria da letto ignifuga? La persona può essere indirizzata a un programma di sostegno specializzato? Il proprietario dell’appartamento deve prendere in considerazione la pulizia forzata o lo sfratto? Alla base di queste domande ce n’è una più ampia: cosa si può fare per le persone con questo disturbo? Si tratta di una condizione complessa che richiede politiche sociali e un’attenta gestione a lungo termine.

Secondo uno studio, il 50 per cento delle persone che soffrono di questo disturbo ha un parente stretto con lo stesso problema

In caso di emergenza

Alla metà degli anni duemila i reality show televisivi britannici e statunitensi, con titoli come The hoarders next door, Britain’s biggest hoarders o Hoarders buried alive (“Gli accumulatori della porta accanto”, “I più grandi accumulatori britannici”, “Accumulatori sepolti vivi”), ne hanno fatto una forma d’intrattenimento, presentandolo come un problema abbastanza chiaro e di facile soluzione: rimettere in ordine. Ma il disturbo da accumulo è un problema di salute pubblica. Da diversi studi è emerso che ne soffre tra il 2 e il 6 per cento della popolazione mondiale. È uno dei disturbi mentali più diffusi al mondo (la depressione, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, Oms, colpisce il 5 per cento degli adulti). Anche se il servizio sanitario nazionale (Nhs) britannico non fornisce dati specifici sull’argomento, gli operatori del settore e i componenti del consiglio mi hanno detto che incide con una percentuale significativa sui “ricoveri forzati”, perché gli ospedali non possono rimandare le persone in case non sicure. Diversi assistenti sociali mi hanno confermato che per loro non è insolito essere feriti da oggetti che cadono quando visitano la casa di un accumulatore. Hanno imparato a valutare il “rischio valanghe” chiedendo in anticipo le foto dell’abitazione.

Alla fine del 2022 ho partecipato a una riunione in un altro quartiere di Londra. Un funzionario del consiglio locale ha esaminato i costi degli interventi per un una singola persona con questo disturbo in quattro anni: il totale è arrivato a 32mila sterline (37mila euro), di cui diecimila per lo sgombero forzato delle case, diecimila per le riparazioni e diecimila per i procedimenti giudiziari. La cifra non includeva il costo dell’alloggio temporaneo dell’inquilino dopo lo sfratto. Ma le persone che lavorano con gli accumulatori sostengono che la spesa media per mantenere provvisoriamente una persona nelle case popolari è di 45mila sterline (52mila euro). Una funzionaria ha presentato un programma pilota per intervenire prima della crisi, che prevede di stabilire un rapporto con la persona, guadagnare la sua fiducia e ottenere progressi lenti ma duraturi. Tutto questo, però, diventa impossibile se il disturbo è così grave da rappresentare un pericolo immediato per la sicurezza ed è necessario agire in modo rapido e deciso.

Negli Stati Uniti, in Australia e in molti paesi europei le autorità tendono a intervenire solo in caso di emergenza, e spesso ci si occupa dell’accumulo, invece di cercare di risolvere i problemi che l’hanno causato. Ma stanno emergendo nuovi metodi, come quello proposto dal funzionario appena citato.

Negli ultimi dieci anni l’accumulo è stato identificato come un disturbo psicologico autonomo, decisione che ha portato a un “drastico cambiamento nella percezione del problema”, afferma Nicole Steils, una ricercatrice della Social care workforce research unit del King’s college di Londra. Questo ha favorito una crescente consapevolezza della sua portata e della sua gravità. Negli Stati Uniti ci sono più di cento organizzazioni che se ne occupano. Anche nel Regno Unito sono attive decine di gruppi. Ma capire il problema non è la stessa cosa che curarlo.

Fino a tempi relativamente recenti il fenomeno era poco studiato, e compreso ancora meno. Era considerato una forma di disturbo ossessivo compulsivo. Eppure non è una novità. Forse gli accumulatori più famosi sono i solitari fratelli Homer e Langley Collyer, che tra il 1909 e il 1947 riempirono di oggetti la loro casa di Harlem, a New York. Dopo la loro morte furono recuperate 120 tonnellate di oggetti di valore assortiti, cianfrusaglie e altri beni. Per decenni l’accumulo è stato comunemente definito sindrome di Collyer. Nel 1947 lo psicoanalista tedesco Erich Fromm descrisse “la tendenza all’accumulo” come un modo per superare l’insicurezza non separandosi mai da niente. Quindici anni dopo lo psichiatra Jens Jansen parlò di “mania del collezionista” per descrivere le persone anziane che accumulano un volume eccessivo di oggetti. Negli anni novanta queste osservazioni cominciarono a trasformarsi in criteri diagnostici: la difficoltà di separarsi da oggetti apparentemente inutili, gli spazi abitativi così ingombri da diventare difficili da usare e il forte disagio causato da quel comportamento. Nel 2013 il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, l’influente manuale dell’American psychiatric association, ha incluso per la prima volta il disturbo da accumulo, definendolo del tutto autonomo. Lo stesso anno il servizio sanitario nazionale britannico ha stabilito le linee guida per il suo trattamento. Nel 2018 l’Oms ha seguito il suo esempio.

Non tutti gli psichiatri sono stati favorevoli a questa svolta. Alcuni hanno messo in guardia contro la patologizzazione di comportamenti normali, mentre altri non erano d’accordo sul limite oltre il quale l’accumulo richiede cure mediche. “Tutti possiamo avere problemi a buttare via certe cose, perché hanno un valore sentimentale”, dice Satwant Singh, un esperto della materia. “Ma se sei un accumulatore, raggiungi un punto in cui non puoi più vivere in modo normale e la tua casa non è più funzionale”.

Puzzolenti e strambe

La tendenza ad accumulare è ancora spesso liquidata come una forma di pigrizia e scarsa igiene. “Ho la sensazione che alcuni colleghi preferirebbero non occuparsene, perché pensano che si tratti di persone sporche, puzzolenti e strambe”, mi ha detto un componente del consiglio. La tendenza ad accumulare è erroneamente associata alla vecchiaia e alla povertà, ma colpisce persone di ogni età e strato sociale ed è diffusa in tutto il mondo. Singh osserva che è un problema serio anche in Giappone.

I ricercatori concordano sul fatto che l’accumulo spesso comincia, o peggiora, in seguito a un lutto o a un trauma. Ma non è così per tutti. Per alcuni potrebbe essere un comportamento appreso o una predisposizione genetica. Uno studio ha riscontrato che il 50 per cento delle persone con questo disturbo ha un parente stretto con lo stesso problema, che in alcuni casi si sovrappone ad altri disturbi di salute mentale: circa il 50 per cento degli accumulatori è anche afflitto da una grave depressione, mentre il 20 per cento soffre di un disturbo ossessivo compulsivo. Nelle persone anziane la demenza può provocare o peggiorare il comportamento anomalo.

La tendenza ad accumulare è un disturbo mentale insolito perché è definito da oggetti esterni, non solo da uno stato psicologico: quello che gli esperti del settore chiamano “il tesoro”. Dato che le persone hanno livelli di tolleranza molto diversi, i medici hanno creato uno strumento, chiamato clutter image rating, per misurare l’entità dell’accumulo. Usato dalle autorità di tutto il mondo, questo metodo consiste nel partire dalle foto di una cucina, una camera da letto e un soggiorno. Ogni stanza è progressivamente riempita di oggetti su una scala da uno a nove. Al livello 1 le stanze sono abbastanza vuote, il pavimento è coperto solo da alcuni oggetti. Al livello 3 sembrano disordinate e gli oggetti sono sparsi dovunque sul pavimento. Al livello 5 vestiti, giornali e spazzatura sono ammucchiati sul pavimento fino a coprirlo quasi completamente. Al livello 9 le pareti sono appena visibili.

Molte persone con tendenza all’accumulo non arrivano mai all’intervento. Come ha osservato lo psicologo di Oxford Paul Salkovskis, se il tesoro è ordinato, o se hanno abbastanza spazio per ospitarlo, non è necessariamente un problema. “Se qualcuno è felice in un ambiente estremamente disordinato e non ci sono problemi di sicurezza, va bene: dobbiamo accettare che le persone sono diverse”, dice Nele Van Bogaert, che dirige un programma di supporto per l’associazione Mrs independent living. “Ma appena comincia a coinvolgere anche altri, tutto cambia”. Quando un’intera abitazione è al livello 4 o superiore, i medici diagnosticano all’inquilino il disturbo da accumulo e i vigili del fuoco considerano la casa ad alto rischio. In questa fase l’accumulatore rischia di violare non solo il suo contratto di locazione e la legge sugli alloggi (che si applica sia alle case popolari sia alle abitazioni private), ma anche la legge sulla salute pubblica, che si applica a tutti, compresi i proprietari di case.

Singh racconta di un uomo con cui ha lavorato che aveva cinque case ma dormiva nella sua auto, perché erano tutte inaccessibili. Capita spesso che gli accumulatori dormano sul divano o in corridoio per anni, perché non possono raggiungere la camera da letto, o vivano al gelo o senza l’acqua corrente, perché sono troppo imbarazzati per far entrare in casa gli operai.

Eliza Johnson (nome di fantasia) è una madre single che vive nel Surrey. Ha quasi sessant’anni e si occupa del figlio, che ne ha venti e ha difficoltà di apprendimento. Si definisce una “accumulatrice estrema” e dice che il suo comportamento è peggiorato dopo una serie di relazioni violente e dopo essere stata licenziata quando era incinta. “Mi chiedo se non sia la paura di non avere niente, un modo per tenere caldo il nido”, ha detto. Non può più raggiungere la sua camera da letto, quindi dorme nella stanza del figlio, che si è spostato sul divano. Sospetta che la tosse persistente che ha da più di cinque anni sia dovuta alla muffa. Suo figlio le ripete che vuole cambiare casa. “Dice che la situazione è insopportabile, ma non vuole aiutarmi a ripulire”, racconta. Per lei il suo rifiuto è fonte di sollievo e allo stesso tempo di frustrazione. Una volta il figlio ha gettato via per sbaglio alcuni oggetti di valore e teme che possa farlo di nuovo.

Londra, dicembre 2015 (Manu Valcarce)

Johnson ha due auto: una è piena di oggetti – vestiti, cosmetici, sacchetti di cibo – mai portati in casa; l’altra è mezza piena, e di recente, quando si è rotta, ha dovuto svuotarla per farla riparare. Non poteva evitare di gettare via le cose, perché portarle a casa era complicato. “Dovevo trovare posto per tutto. Ho infilato molta roba in un armadio dell’ingresso. Il resto è probabilmente sul mio letto, ma non ho guardato e quindi non ricordo di che si tratta. Sono solo esausta e avvilita”, dice. Quindici anni fa si era rivolta per la prima volta al suo medico di famiglia in cerca di aiuto. Il dottore le suggerì di gettare via tutto: cosa che lei non poteva fare. “Non posso invitare nessuno”, dice. “In passato i miei amici hanno fatto commenti sgradevoli, e mi vergogno troppo”. Ma quando butta via qualcosa, è scontenta di se stessa. “Sono tutte le mie speranze, l’idea che potrei fare questo, o essere quello”, dice. “Quando butti via le cose è come se buttassi via i tuoi sogni”.

In una grigia mattina di giugno sono andata in una casa popolare di Londra sud con Damian Simon, il fondatore dell’impresa di pulizie London blitz clean, e uno dei suoi colleghi. Ci aveva vissuto per decenni una donna di ottant’anni, che ora, su indicazione dell’ospedale dov’era stata ricoverata, si trovava in un altro alloggio temporaneo.

Abbiamo preso l’ascensore fino al quinto piano e siamo entrati in uno stretto corridoio. In cucina, appena a sinistra della porta d’ingresso, stoviglie e pentole strabordavano dalle credenze. C’erano ovunque lattine di cibo, con le etichette che galleggiavano nell’acqua uscita dai tubi rotti. In corridoio c’era una lavatrice-asciugatrice guasta, che bloccava parzialmente l’accesso al bagno. La camera da letto era fuori uso da diversi anni, con i vestiti che sbucavano dall’armadio a muro, coprivano il letto ed erano ammucchiati sul pavimento fino all’altezza delle nostre spalle.

I suoi familiari avevano lavorato diversi giorni per liberare un percorso attraverso ogni stanza e messo nei sacchi più oggetti possibile per portarli via. La London blitz clean avrebbe finito il lavoro. La sorella della donna, più giovane di dieci anni, era arrivata dall’estero e dormiva sul divano. “Abbiamo buttato via tante cose mai aperte e nuove di zecca”, ha detto. Simon annuiva con comprensione mentre il suo collega, in tuta blu e guanti da giardinaggio, trasportava rapidamente i sacchi della spazzatura fuori della camera da letto e li metteva nel furgone. “Voglio che sparisca tutto”, ha detto la sorella, indicando il soggiorno, prima di sprofondare di nuovo nel divano e strofinarsi le tempie. “Avrò bisogno di un analista dopo questa storia”.

Londra, dicembre 2015 (Manu Valcarce)

Costo aggiuntivo

Simon ha dato una rapida occhiata all’appartamento per fare una valutazione approssimativa del volume degli oggetti, poi è uscito per chiamare il suo contatto all’amministrazione locale, che lo pagava per la pulizia. Era andato lì con un furgone, ma ce ne sarebbero voluti almeno due: l’amministrazione avrebbe coperto il costo aggiuntivo? Ha avuto il via libera. La sorella della donna ha guardato i sacchi lasciare l’appartamento. “So che è una malattia, ma sono arrabbiata lo stesso”, ha detto in lacrime. “Va avanti da anni. Mia sorella ha lavorato tutta la vita e non ha mai ricevuto alcun sostegno. Il comune lo sapeva ma nessuno l’ha aiutata, perché pagava regolarmente l’affitto. Come fa un governo a permettere che succedano queste cose?”.

Simon, un ex operatore sanitario, ha fondato la London blitz clean nel 2015, dopo aver visto quante persone erano bloccate in ospedale perché non potevano essere rimandate in case pericolose. L’azienda ora lavora con i consigli comunali e gli ospedali del servizio sanitario nazionale in tutta la capitale. In base alla quantità di lavoro necessaria le pulizie possono costare migliaia di sterline e richiedere da uno a dieci giorni di lavoro. Le autorità locali non sempre pagano. In alcuni casi possono costringere l’affittuario a coprire tutta o parte della spesa. La priorità della pulizia rapida è rendere la casa igienizzata e sicura, smaltendo i rifiuti, rimuovendo tutto quello che può far inciampare e rendendo accessibili tutte le stanze. Gli oggetti che Simon vede accumulati più comunemente sono vestiti, libri e cartoni, ma i casi vanno da un appartamento dove il proprietario aveva telecamere impilate fino all’altezza della vita a molte altre in cui erano state nascoste delle feci. (“Alle persone che hanno una forma molto grave di questo disturbo può sembrare che sbarazzandosi di oggetti come tamponi usati o bottiglie di urina stiano rinunciando a una parte di sé”, dice Singh).

La pulizia forzata è una soluzione temporanea che affronta i sintomi del problema, non le cause, ma anche gli specialisti e gli avvocati ne riconoscono la necessità quando c’è un problema di sicurezza immediato. Per la persona coinvolta, tuttavia, l’esperienza può essere brutale e invasiva. “Immaginate che degli estranei entrino in casa vostra e tocchino le vostre cose, non dimentichiamoci che chi accumula ha un rapporto speciale con quegli oggetti”, dice Singh.

Nel 2014 Edward Brown, 61 anni, di Blackburn, era stato informato dall’associazione degli inquilini che doveva accettare la pulizia forzata o essere sfrattato. Il tecnico del riscaldamento, non riuscendo a raggiungere la caldaia, aveva segnalato il suo caso alle autorità. Brown aveva accettato la pulizia, ma l’aveva trovata profondamente angosciante. Mentre gettavano le sue cose in un camion per lo smaltimento, gli operai facevano commenti offensivi. Tra gli oggetti Brown vide un bollitore nuovo di zecca. Lo recuperò, ma ci furono molte altre cose che non fu in grado di salvare, e spese subito cinquecento sterline per sostituirle. Dopo la pulizia forzata, Brown non ha ricevuto ulteriore sostegno dall’associazione degli inquilini o dal comune e lentamente il suo tesoro si è riformato. Questo succede spesso: secondo i dati delle amministrazioni locali, le persone sottoposte a pulizie forzate non cambiano il loro comportamento. A quasi dieci anni di distanza Brown è ancora riluttante a lasciare che qualunque autorità entri in casa sua.

Londra, dicembre 2015 (Manu Valcarce)

È un uomo simpatico, caloroso e aperto, con una grande barba bianca “come Babbo Natale”, dice. Attribuisce la sua difficoltà a separarsi dagli oggetti a un’infanzia violenta. “Finché quelle cose sono lì mi sento protetto”, spiega. “Chiunque cerchi di avvicinarsi a me deve prima passare attraverso tutta quella roba”. Vive con la moglie, che ha problemi di salute mentale e fisica, e che, dice, non accumula, ma “colleziona”. I due collezionano peluche, ma lui ammucchia anche giocattoli come i mattoncini Lego e prodotti elettronici. Ha diverse friggitrici ad aria, microonde, ventilatori e vecchi computer da tavolo. Accumula cibo in scatola, continuando a comprarlo anche se la dispensa trabocca, e fatica a disfarsi di oggetti che, per usare la definizione del servizio sanitario, “la maggior parte delle persone considererebbe spazzatura”: scatole di cartone, bottiglie di plastica vuote. Brown oscilla tra il mettersi sulla difensiva – “ho percorsi in tutte le stanze, ho in testa la mappa di dove sono le cose, quindi perché devono dirmi come vivere?” – e il cercare disperatamente di cambiare: “Perché non ci riesco? Perché ho tanta difficoltà?”. Per quanto traumatica sia stata la pulizia forzata, almeno gli ha permesso di restare a casa sua.

Linee guida

Michelle Lambert (anche questo un nome di fantasia), 63 anni, fino all’ottobre 2022 viveva da sola in un appartamento delle case popolari di Londra sud. Lavora – paradossalmente, ammette – come consulente per la salute e la sicurezza, e ha lottato contro la tendenza all’accumulo per la maggior parte della sua vita. Alla fine del 2022 il consiglio comunale le ha comunicato che il suo appartamento aveva bisogno di riparazioni. Gli operai non erano stati in grado di accedervi per anni e i problemi si erano accumulati: il soffitto gocciolava, l’impianto elettrico era umido e difettoso. Il comune ha inscatolato gli effetti personali di Lambert e li ha portati in un deposito a cui lei non può accedere. Lei stessa è stata trasferita in un alloggio temporaneo, dove vive ancora a distanza di otto mesi. Quando ha chiesto quanto ci sarebbe voluto per i lavori che, dice, non sono ancora cominciati, le hanno risposto che il ritardo era causato dagli oggetti accumulati. “Le loro risposte sono sempre così aggressive. È come se dicessero: ‘Sei solo spazzatura, quindi anche la tua roba è spazzatura’”.

Nel 2014 il Care act ha modificato il sistema di assistenza sociale per gli adulti del Regno Unito, classificando la negligenza nei confronti di se stessi – una categoria in cui rientra la tendenza all’accumulo – come un problema di sicurezza. Questo significa che i comuni e le autorità in generale hanno la responsabilità di proteggere la persona interessata. Prima del 2014 gli adulti erano considerati a rischio solo se minacciati da qualcuno. Ma i cambiamenti sono stati graduali e frammentari e il supporto specialistico non è sempre disponibile.

Di solito come prima cosa l’Nhs suggerisce la terapia cognitivo-comportamentale (un residuo di quando accumulare era considerato una forma di disturbo ossessivo compulsivo), che però nel caso specifico dell’accumulo non è coperta dal servizio sanitario nazionale. Da alcuni studi, inoltre, è emerso che molte persone con questo disturbo sono riluttanti a impegnarsi in questa forma di trattamento. Ma anche per quelle che lo fanno, la terapia in genere non è particolarmente efficace. Megan Karnes, che ha fondato Hoarding Uk, la principale organizzazione britannica di difesa e sostegno degli accumulatori, definisce “criminale” l’attuale approccio del servizio sanitario e afferma che il disturbo sia l’unico problema di salute mentale per il quale l’Nhs non ha linee guida chiare.

Dall’inizio della pandemia le amministrazioni di tutto il Regno Unito hanno segnalato un forte aumento dei casi di accumulo

I professionisti che se ne occupano mostrano un crescente interesse per un metodo chiamato “decluttering terapeutico”, in base al quale un professionista parla con l’accumulatore per settimane o mesi, aiutandolo a fare pulizia. A Karnes non piace la parola decluttering (riordinare) perché “non si tratta di una cura”. Hoarding Uk propone un metodo simile e altrettanto graduale che unisce il supporto pratico a quello psicologico, a domicilio. Il suo programma di un anno è molto richiesto. Karnes mi ha raccontato di un uomo con cui ha lavorato che accumulava giornali. All’inizio gli ha chiesto di fare una pila separata dei giornali che aveva letto. E a poco a poco si è reso conto che non li leggeva. Ci sono volute 14 settimane per fargli gettare via un giornale. Ma da quel momento il cassonetto della carta è stato sempre pieno. “Ha messo quelle pile di giornali nel bidone da solo, e questo è un risultato diverso da quello della pulizia forzata”, dice Karnes. “Stiamo cambiando il suo modo di pensare, non lo stiamo costringendo”.

L’ostacolo maggiore

Jody Hake è un’assistente sociale che partecipa a un programma istituito dal consiglio del distretto di Sevenoaks nel 2018. Dice che convincere qualcuno ad accettare aiuto è l’ostacolo maggiore. La sua regola è offrire aiuto per sei volte al telefono. Poi, se la persona è d’accordo, organizza una visita e discutono di quale risultato vorrebbe ottenere: magari vuole tornare a dormire nel suo letto o usare il divano. “La mia priorità è la sicurezza, cioè liberare le vie di fuga e i passaggi, ma se vogliono cominciare con l’accesso alla cucina, cominciamo da lì”, spiega. Quando trovano un obiettivo comune, torna una volta alla settimana oppure ogni 15 giorni. Cerca sempre di avere un tono gentile che non provochi angoscia, anche se è abbastanza pressante per ottenere progressi: “Cosa t’impedisce di sbarazzarti di quel sacco di calzini?”.

Un lavoro così dispendioso in termini di tempo e risorse può essere difficile da far accettare alle amministrazioni locali, ma sembra che sia più efficace della pulizia forzata. Da quando è partito, il programma di Sevenoaks ha lavorato solo con cinquanta persone, ma è stato un successo: in genere non c’è stato bisogno di interventi più drastici o ripetuti.

L’amministrazione di Blackburn, dove vive Brown, non ha un programma di sostegno specifico, ma negli ultimi anni l’approccio è diventato meno punitivo. Nel dicembre 2021 un tecnico del riscaldamento l’aveva segnalato di nuovo all’associazione degli inquilini, ma invece di imporre una pulizia forzata, il nuovo responsabile degli alloggi gli aveva chiesto quanto tempo gli servisse per sgomberare l’appartamento, e avevano concordato per Pasqua. Brown e sua moglie avevano cominciato a fare progressi. Avevano trovato un’app per catalogare le lattine nella dispensa – ce n’erano venti di zuppa, fagioli e pomodori pelati – in modo da poter controllare cos’avevano prima di tornare a fare la spesa.

Ma sgomberare l’appartamento era un lavoro lungo, e Brown aveva la sensazione che i funzionari comunali attribuissero più importanza ai problemi che ai progressi. Lui e sua moglie avevano soprannominato il terapista occupazionale che li seguiva “Due microonde”, a causa della sua insistenza sul fatto che dovevano tenerne solo uno. Sentirsi dire cosa doveva fare era frustrante. “Vogliono decidere loro di cosa ho bisogno invece di lasciare che sia io a farlo. In fondo che male c’è ad avere due microonde?”.

Intanto la scadenza di Pasqua stava per arrivare. Brown non riusciva a dormire. Era arrivato a pensare ad atti di autolesionismo. Il disordine si era accumulato di nuovo. Durante una visita il responsabile degli alloggi aveva detto che la sua casa era “la peggiore che avesse mai visto”. Quella frase risuonava nella testa di Brown. Nonostante le sue dolorose interazioni con le autorità, negli anni ha collaborato con il consiglio per creare un gruppo di sostegno e di aiuto. Durante una seduta aveva confessato che, come molti accumulatori, non era in grado di accedere al suo bagno (da due anni, lui e sua moglie usavano il lavandino della cucina e i deodoranti). In risposta il consiglio aveva emesso un’ordinanza per consentire agli accumulatori di accedere gratuitamente alle docce delle palestre del quartiere.

Senso di paralisi

Chiacchierando con chi ha il disturbo da accumulo, ho notato la tendenza a riferirsi ad archi di tempo dilatati: una pulizia avvenuta dieci o quindici anni fa, una riparazione necessaria da cinque, sei, sette anni. Questo senso di paralisi è uno dei maggiori ostacoli da superare. Brown, in fin dei conti, mira a un risultato modesto: che sua moglie sia in grado di muoversi per casa senza dover camminare sulla spazzatura, che entrambi possano entrare in soggiorno, usare i fornelli della cucina e il bagno. Ma anche questi obiettivi sembrano fuori della sua portata.

Dall’inizio della pandemia le amministrazioni locali di tutto il Regno Unito hanno segnalato un forte aumento dei casi di accumulo. Questo dato, insieme alla riduzione dei bilanci comunali e alla conseguente diminuzione degli stanziamenti per la salute mentale e l’assistenza sociale, ha reso più difficile sostenere queste persone. Il progetto pilota di Londra presentato alla fine del 2022 sarebbe costato trentamila sterline per assistere quindici persone per quattro mesi. Il programma Sevenoaks è costato 68mila sterline solo nell’ultimo anno. Ma non c’è un’alternativa più economica, se si confrontano queste somme con le 45mila sterline necessarie per un singolo intervento di pulizia forzata e trasferimento. “Il sostegno personalizzato è costoso, ma anche non usarlo costa, economicamente e in termini di perdita di vite umane”, dice Sarah Hanson, docente associata di salute della comunità all’università del West Anglia.

Mi ha colpito quanto siano appassionati i professionisti che se ne occupano: non solo i ricercatori e gli operatori delle associazioni, ma i vigili del fuoco, i funzionari e i consiglieri comunali. È come se, una volta compresa la portata, non possano più smettere di pensarci. “È un’ossessione”, mi ha confessato una persona del consiglio.

A gennaio sono andata a Blackburn per incontrare Brown di persona per la prima volta (in precedenza ci eravamo parlati al telefono). Era troppo ansioso per portarmi a casa sua. Durante le feste di Natale il suo tesoro era cresciuto, e ha detto che poteva essere pericoloso. Mi è venuto a prendere alla stazione con la sua auto, i sedili posteriori erano pieni di oggetti provenienti dall’appartamento, compresi vestiti e un ventilatore. “Ho uno spazio di archiviazione in più”, ha detto sorridendo. Mi ha portato al bar del supermercato Morrisons e durante la colazione mi ha mostrato le fotografie del suo appartamento sul cellulare. L’unica cosa a cui lui e sua moglie potevano accedere era il letto, circondato da scatole e pile di vestiti. Era lì che mangiavano, guardavano la tv (su un iPad, perché il televisore era sepolto) e dormivano. Un tentativo fallito di liberare il soggiorno aveva significato riempire la vasca da bagno. “Non so dove spostare le cose”, ha detto, mostrandomi la foto di una vasca piena di bottiglie di plastica, secchi e articoli per la casa. “Ho pensato: ‘Per il momento le metterò nella vasca’. È sempre solo ‘per il momento’, finché non le sposto da qualche altra parte. Ma poi sono sopraffatto”.

Brown stava aspettando di sapere se il consiglio avrebbe pagato per fargli seguire il programma di dodici mesi della Hoarding Uk, che da solo non può permettersi. Nel frattempo spera che il suo desiderio di cambiare scongiuri le periodiche minacce di sfratto. “Credo che nessuno scelga di essere un accumulatore”, dice. “Vorrei una vita normale. Ma non posso farcela da solo”. ◆bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati