Qualche anno fa ho imparato ad amare la pioggia. Avevo circa 25 anni e avevo da poco cominciato a sentire una specie di squillo nel mio orecchio sinistro. Non ero sicura di quando fosse comparso esattamente, ma ricordo di aver pensato che sarebbe andato via da sé. Non è successo. Ricordo che non riuscivo a dormire per diverse notti di seguito, e pensavo che sarei impazzita.

Quel suono mi terrorizzava perché era incessante, ma anche perché era vicino, dato che aleggiava come un’aura nel mio udito: troppo vicino per essere esterno, ma troppo estraneo per essere assimilato. Se durante il lavoro mi fermavo per pensare, sentivo solo quel rumore.

A causa di quel fischio acuto che non si fermava un attimo, passavo le mie giornate in preda al panico. Mi sentivo privata di ogni strato protettivo, indifferente a qualsiasi senso delle proporzioni. Il fatto che per il resto fossi in buona salute non faceva alcuna differenza. Durante la pausa pranzo vagavo per il centro di Londra rimpiangendo la pace perduta. Gli occasionali momenti di tregua assumevano un aspetto trascendentale, come quel pomeriggio in cui, incapace di sentire altro che la mia sofferenza, mi sono gradualmente accorta del rumore della pioggia: un suono abbastanza costante e insistente da essere qualcos’altro a cui fare attenzione.

Gli acquazzoni erano un sollievo che arrivava a completa discrezione dell’universo, così facevo lunghe docce per annegare il rumore. Alcune cose mi sono diventate care: il frigorifero, la lavastoviglie e il riscaldamento centralizzato, con il suo rombo soffocato che ha proprio il suono di un aumento del calore, un video su YouTube intitolato “Rumore bianco da aereo”. Li adoravo per il loro ronzare umile e immutabile, per il modo in cui consolidavano la mia salute mentale e mascheravano il tormento che la mia mente aveva concepito per me.

In seguito ho scoperto che la mia disgrazia è piuttosto comune. L’acufene – la percezione di suoni che non hanno una fonte esterna – colpisce circa 7,1 milioni di adulti negli Regno Unito, più di 26 milioni negli Stati Uniti e 740 milioni in tutto il mondo. Probabilmente non tutti hanno l’impressione che il loro cervello voglia vendicarsi di loro. Per qualcuno è un leggero fastidio, ma per altri gli effetti sono più gravi. Secondo un articolo uscito nel 2021 su Physiological Reviews, tra il 10 e il 20 per cento degli statunitensi affetti da acufene presenta “sintomi che riducono drasticamente la qualità della vita”. In un sondaggio recente condotto da Tinnitus Uk, un’associazione che aiuta le persone affette da acufene, un quinto degli intervistati ha dichiarato di aver avuto pensieri suicidi o autolesionisti. Leggendo il forum online di Tinnitus Uk ho trovato echi della mia disperazione: “Mi sento molto triste e depresso”, “In questo momento fatico a reggere”, “Mi chiedo seriamente se posso vivere così”, “C’è troppa sofferenza, la mia vita è finita”.

Il filosofo svizzero Max Picard apprezzava il silenzio perché era rimasto l’unico fenomeno che non poteva essere sfruttato per profitto

Rischi e benefici

Oggi il mio acufene è più gestibile, ridotto a un demonietto in cerca di compagnia, che aspetta la notte, quando gli altri problemi si danno appuntamento, e offre una colonna sonora all’incontro. Ma ho ancora paura di parlarne, perché prestargli attenzione non fa che aumentarne il volume. Io e il rumore non abbiamo mai avuto un rapporto semplice, ma la consapevolezza che i suoni forti aggravano l’acufene ha aumentato la mia sensibilità. La mia vita sociale è diventata una costante valutazione del bilancio tra rischi e benefici. Quando vai al ristorante non sai mai se ti faranno sedere sotto un altoparlante.

Se da una parte l’acufene ha alimentato la mia allergia al rumore, dall’altra ha distrutto il silenzio.

I disturbi del sonno sono una conseguenza comune dell’acufene, forse perché la quiete gli offre l’opportunità di prendere il sopravvento. Nelle notti peggiori m’immergo nel malfunzionamento della mia mente, concentrandomi sempre più sullo squillo finché non resta nient’altro. Uno squillo nelle orecchie non è una malattia letale né la perdita di una persona cara. Lo so benissimo, ma so anche perché alcuni post sul forum mi spaventano: “l’acufene non è doloroso e non ti uccide (se non attraverso il suicidio)”. So perché la mia angoscia nei giorni in cui ho imparato ad amare la pioggia mi sembrava una specie di lutto. Ascoltare la lavastoviglie e i video di rumore bianco su YouTube va bene, ma come ho letto in un altro post, “a volte sono stanco di sentire continuamente rumori. Vorrei solo starmene seduto a pensare, avere un po’ di pace. Ci sono giorni in cui vorrei sbattere la testa fino a farlo smettere”. Quello che ho perso a causa dell’acufene è il silenzio, e ancora oggi non riesco ad accettare questa perdita.

La prima volta che sono andata da un audiologo mi ha descritto l’acufene come una tipica risposta alla perdita di udito, il tentativo stranamente inelegante del cervello di sostituire una frequenza che percepisce come mancante. Le infezioni all’orecchio e i tappi di cerume possono provocarlo temporaneamente, ed è stato collegato al covid lungo, al diabete e alla malattia di Ménière, un disturbo raro che colpisce l’orecchio interno. È stato anche accertato il legame con la depressione, anche se non è chiaro se è l’acufene cronico a provocare la depressione o se le persone depresse sono più vulnerabili. Nonostante le diverse teorie sulle sue cause, non esiste una cura. Perfino il suono è difficile da definire, perché per sua natura sfugge a ogni categorizzazione obiettiva. Ci sono persone che percepiscono per tutto il giorno il rumore dell’elettricità statica, il motore di un jet o il trapano di un dentista. Nel mio caso parlo di uno “squillo” per comodità, ma non è nulla di simile al rumore di un vecchio telefono. È un suono moderno, il gemito acuto di un apparecchio elettronico lasciato in stand-by.

Una camera anecoica nella sede della Samsung a Suwon, in Corea del Sud, giugno 2023 (Chung Sung-Jun, Getty)

Alcune ricerche suggeriscono che il volume della vita contemporanea possa aver reso più comune l’acufene – uno studio del 2023 ha scoperto che chi vive in zone trafficate è più a rischio – ma è un problema antico, citato nei testi mesopotamici e babilonesi. Gli assiri scrivevano su tavolette d’argilla di “sussurri” e “orecchie canterine”. Gli egiziani parlavano di “orecchio stregato”. I greci antichi dicevano che il vento era rimasto intrappolato nelle loro orecchie. Tra i rimedi suggeriti da Aulus Cornelius Celsus, un romano che scriveva nel primo secolo dopo Cristo, c’erano l’esercizio fisico, i massaggi e il succo di ravanello. Plinio il Vecchio proponeva diverse cure, come bere latte materno o succo di porro.

Nell’ottocento John Harrison Curtis, fondatore del primo ospedale londinese specializzato nella cura dell’udito, raccomandava il riposo e le terme. Il medico francese Jean Marc Gaspard Itard, che descriveva il disturbo come “un malessere profondo che porta a un’estrema tristezza”, scoprì che il miglior modo per trovare sollievo era creare un rumore esterno che potesse mascherare quello interno. Credeva che i suoni dovevano essere accoppiati: un fuoco scoppiettante e il rumore del vento, o l’acqua che cade in una ciotola di rame quando l’acufene suonava come una campana. Pare che un suo paziente abbia risolto il problema andando a vivere in un mulino ad acqua.

Il giardino segreto

Non è una sorpresa che l’acufene abbia prodotto una piccola industria di cure più o meno inutili. Tinnitus Uk ne valuta diverse, segnalando quelle efficaci e quelle che si sono dimostrate dannose. Tra le soluzioni con il punteggio peggiore ci sono gli integratori alimentari e metodi che sembrano più medievali di quelli usati nel duecento. Cercare di estrarre il cerume dall’orecchio inserendovi un’apposita candela vuota e accendendola, per esempio, comporta prevedibilmente il rischio di “bruciature del viso, del canale auditivo e del timpano”.

Un’ipotesi sull’acufene è legata all’idea che il nostro cervello si affidi alle previsioni per eliminare segnali sonori che considera meno meritevoli di attenzione e concentrarsi su quelli più significativi. Non possiamo fare caso a tutto quello che i nostri sensi percepiscono, dunque la mente valuta, seleziona e assegna diverse priorità per proteggerci dalla cacofonia dell’universo. Per funzionare al meglio, il cervello dev’essere perfettamente in equilibrio tra allerta e insensibilità, attività e riposo. Secondo questa teoria il sistema nervoso delle persone affette da acufene non riesce a svolgere al meglio la sua funzione di soppressione. Non padroneggiano la capacità di lasciar andare. La soluzione proposta da Gaspard resta una delle poche ad avere un effetto relativamente benefico, anche se mascherare non è una cura ma solo una distrazione (se un problema è generato dalla mente, però, distinguere tra le due cose può essere difficile). Un quinto degli intervistati in un sondaggio condotto da Tinnitus Uk nel 2020 pensava all’acufene “ogni pochi minuti” o “in ogni momento di veglia”. Oggi direi che faccio parte dell’84 per cento che ci pensa solo ogni giorno.

Non sono più costantemente consapevole dello squillo, ma non posso neanche dire di sentirlo andare e venire. È come se ogni tanto facessi caso a un processo che va avanti indipendentemente dalla mia attenzione, come se all’improvviso percepissi la crescita dell’erba o la rigenerazione dei tessuti del mio corpo. A quanto pare non posso liberarmi del mio acufene, dunque la cosa migliore che posso fare è dimenticarmene.

Usare la terapia sonora per mascherare l’acufene può allentare la presa della mente su un rumore spiacevole. Allo stesso modo, la terapia cognitivo/comportamentale – di solito usata nel trattamento dell’ansia – ha dimostrato di avere effetti positivi, aiutando a ridurre la reazione da stress provocata dall’acufene e rendendolo meno invadente. Restare sveglia a letto di notte ad ascoltare il mio cervello che squilla è un po’ come ascoltare i nervi che tintinnano o i miei pensieri che vanno fuori giri, il suono di qualcosa che è intrappolato e continua a girare a vuoto. Al pari dell’ansia, l’acufene grave è accompagnato dall’allerta involontaria di una mente che non riesce a trovare pace.

Per alcuni l’idea di sedersi da soli in una stanza senza suoni può essere una prospettiva più spaventosa rispetto a quella di essere privati del silenzio. Quando la giornalista Caity Weaver ha provato a battere il record di tempo trascorso “nel posto più silenzioso della terra” – una camera anecoica nei laboratori Orfield in Minnesota, dove gli unici rumori che una persona può percepire sono quelli prodotti dal suo corpo – ha descritto l’esperienza come un’ordalia che ha rischiato di farla impazzire. Il suo articolo era intitolato “Potrei sopravvivere nel posto più silenzioso della Terra?” .

Il disagio potrebbe essere una reazione sempre più comune al silenzio. Uno studio condotto per sei anni su 580 studenti dell’università australiana Charles Sturt, concluso nel 2012, suggerisce che i giovani trovino sorprendentemente difficile resistere all’assenza dei suoni: hanno usato parole come “inquietante” e “paura” per descrivere quell’esperienza. Secondo i ricercatori è perché sono cresciuti con il sottofondo costante della tv e della musica. Forse anziché arrabbiarmi con il pendolare che ascolta la musica al telefono farei meglio a considerarlo come qualcuno che sta esprimendo la sua angoscia esistenziale.

Tuttavia la mia convivenza con un suono inarrestabile mi ha convinto che chi evita il silenzio si priva di qualcosa di prezioso. Secondo Henry David Thoreau il silenzio è “il rifugio universale”. Perdere la chiave di quel giardino segreto può avere ripercussioni gravi per la serenità e l’indipendenza della nostra mente. Il filosofo svizzero Max Picard apprezzava il silenzio perché era rimasto l’unico fenomeno che non poteva essere sfruttato a fini di profitto, perché “semplicemente è”. Lo storico Alain Corbin sottolinea che in occidente il silenzio assoluto è stato considerato per secoli “il prerequisito della contemplazione, della meditazione, della preghiera, della fantasticheria e della creazione”. Secondo Corbin “la società ci spinge ad accettare il rumore per essere parte del tutto invece di ascoltare noi stessi”.

A prescindere dall’influsso della società, l’acufene rende più difficile ascoltare i propri pensieri. È difficile concentrarsi quando c’è uno squillo nelle tue orecchie, e lo stesso vale per l’atto generativo di lasciar vagare la mente, perché il suono ci richiama continuamente all’attenzione. Quando scrivo, il modo migliore per afferrare un’idea è prendermi il mio tempo, metterla alla prova restando immobile e in silenzio come se volessi attirare un animale selvatico. In questo l’acufene è utile quanto un clacson nella foresta. Ma il silenzio non riguarda solo il lavoro. Per me è una tregua, un luogo di completa privacy in cui posso allontanarmi dagli altri e anche da me stessa. La presenza costante dell’acufene ha reso impossibile sfuggirmi.

Una pennellata di cielo

Quando il compositore John Cage ha parlato dell’ispirazione per il suo brano concettuale 4’33”, una traccia di quattro minuti e mezzo in cui non è eseguita alcuna musica, ha raccontato che una volta era entrato in una camera anecoica e aveva sentito “due suoni, uno alto e uno basso”. In seguito, quando ne aveva parlato a dei tecnici, gli avevano spiegato che il suono alto era prodotto dal suo sistema nervoso e quello basso dalla sua circolazione sanguigna. Dopo che la prima esecuzione di 4’33”, nel 1952, era stata accolta in modo prevedibilmente scettico, Cage aveva replicato dichiarando che “il silenzio non esiste”. Aveva fatto notare che il rumore della pioggia e del vento fuori della sala concerti erano percepibili. Ben presto si erano aggiunti i mormorii del pubblico e i rumori di chi lasciava la sala.

Più mi sono concentrata sui suoni intorno a me, più il silenzio si è rivelato come un miraggio. Anche in una camera anecoica il suono non sparisce mai del tutto. Mi sono resa conto che il toccasana adorato da Virginia Woolf – “un delizioso sorso di silenzio” – non era qualcosa che avevo perso, ma semplicemente uno stato che ora potevo raggiungere solo sforzandomi di più.

Quello che intendiamo per silenzio di solito è un ambiente che ci permette di prestare attenzione a quello che consideriamo quiete – il cinguettio degli uccellini in giardino invece del tosaerba del vicino – o ai nostri pensieri. “Ascoltate questo suono delicato che è continuo, e che è silenzio”, ha scritto il poeta Paul Valéry. “Ascoltate quello che sentite quando niente si fa sentire”.

Essere costretta a cercare attivamente il silenzio mi ha fatto apprezzare di più i suoi sostituti, i suoni che possono ripristinare la mia pace interiore allentando la morsa del mio cervello sullo squillo. Lo stridio della metropolitana che accelera è ancora intollerabile, ma traggo quel nuovo piacere dalla pioggia. Mi è capitato di essere svegliata da un temporale estivo, il cui ticchettio sul lucernario è stato un sollievo non solo dall’afa ma anche dal martellamento del mio acufene, dopo aver trascorso l’ennesima giornata cercando di scriverne. Mi sono seduta alla scrivania ascoltando lo scroscio: la pioggia aveva un suono così regolare e tranquillo che avrebbe potuto durare per sempre. L’ho avvertita come una passata di rumore di fondo simile a una pennellata di cielo in un acquarello. Sono arrivata a pensare che ognuno possiede il suo personale silenzio, formato dal suo ambiente e dalla sua storia, uno spazio che mette la mente a suo agio. Da bambina vivevo in un posto silenzioso, ma la notte ascoltavo il suono di mia madre che lavorava al computer dopo che ero andata a letto. Quel battere sommesso era diventato il mio silenzio notturno, il suono del sonno che si avvicinava e la prova che mia madre era vicina.

Spesso siamo esortati a controllare la nostra mente per vivere bene, a “evitare i pensieri negativi” e a “pensare positivo”. Eppure imparare a convivere con l’acufene potrebbe essere semplicemente l’estensione di un processo che la maggior parte di noi deve affrontare prima o poi, o continuamente: imparare a convivere con la nostra mente nonostante le sue frenesie e le sue ossessioni. Dopo tutto, con lo squillo il mio cervello sembra volermi dire che continuerà a sferragliare forte quanto vuole, e che dovremo trovare un modo per andare d’accordo. ◆as

Da sapere

◆ Negli ultimi anni la ricerca sull’acufene ha fatto grandi progressi, scrive New Scientist. Uno studio del 2009 ha suggerito che il disturbo possa essere dovuto al danneggiamento dei nervi che collegano l’orecchio interno al cervello, in particolare di quelli che trasportano i segnali prodotti dai suoni più forti. Se così fosse, potrebbe essere possibile curare l’acufene ricostruendo le sinapsi danneggiate attraverso una proteina, la neurotrofina-3. Per sviluppare questa terapia ci vorranno ancora diversi anni, ma un altro trattamento, basato sulla stimolazione dei circuiti nervosi che possono ridurre la reazione del cervello ai suoni, è già disponibile.


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati