È una danza di colori, vivace, brillante, ma basata su elementi semplici. La materia principale è l’áo dài, l’abito tradizionale vietnamita. Un vestito lungo indossato sopra un ampio pantalone di seta, usato spesso dalle donne nelle occasioni speciali, come matrimoni o funerali. Questo abito a collo alto, con spalle rotonde, maniche lunghe e di grande morbidezza, accompagna la storia del Vietnam. Risale al settecento, all’epoca in cui il paese era diviso in due, con la dinastia Trinh a nord e quella dei Nguyen a sud. Nel 1744 Nguyen Phúc Khoát lo scelse per distinguersi dal suo vicino del nord. C’erano due versioni, una per gli uomini e una per le donne, entrambe con i pantaloni, una grande novità per l’epoca. L’usanza è sopravvissuta fino al 1930, quando lo stilista di Hanoi, Cát Tu’ò’ng lo modificò rendendolo più semplice. La sua versione, considerata indecente dai conservatori, aveva provocato molte polemiche, ma grazie al suo successo era riuscita comunque a imporsi. A nord, dopo l’indipendenza nel 1954, è stato vietato, perché ritenuto poco adatto al lavoro e troppo costoso. A sud invece la sua popolarità era cresciuta, soprattutto sotto l’influenza di Madame Nhu, una politica vietnamita molto influente tra gli anni cinquanta e sessanta, che lo portava in tutte le occasioni, sfoggiando a volte anche dei modelli scollati.

Adottato dalla borghesia, l’áo dài diventò l’uniforme obbligatoria delle liceali. Con la riunificazione del Vietnam nel 1975 era diventato più raro perché considerato un simbolo di decadenza. Chi lo indossava rischiava di essere rinchiuso in un campo di rieducazione. Ma dagli anni novanta ha conosciuto una nuova popolarità, grazie soprattutto agli stilisti Min Hanh e Si Hoang. Oggi l’uso di questo abito è incoraggiato. S’indossa in occasione di feste tradizionali, come quella del Têt, celebrata nello stesso giorno del Capodanno cinese verso la fine di gennaio, lo usa il personale turistico ed è l’uniforme obbligatoria di liceali e studenti universitarie.

L’artista Chiron Duong (il suo vero nome è Du’o’ng Quang Đat) si è ispirato all’áo dài per il suo progetto Portraits of áo dài – Hope for peace and love, e lo ha raccolto in un libro. “Per me quest’abito è sinonimo di donne vietnamite semplici e seducenti, ed evoca molti ricordi”. Così per 365 giorni Duong ha fotografato in studio familiari e amici che lo indossano, abbinando pochi accessori tradizionali, come fiori artificiali e ventagli. “È impossibile descrivere la bellezza dell’áo dài quando ondeggia al vento e i sentimenti che evoca in una sola immagine, così ho sviluppato un progetto di un anno. Volevo che questa impressione si ripetesse ogni giorno, per poter apprezzare quelle emozioni”.

Quadri simbolici

Nato nel 1996, Chiron Duong non pensava di diventare fotografo. Ha studiato architettura del paesaggio all’università di Ho Chi Minh e dopo aver lavorato in questo settore, nel 2017 ha cominciato a interessarsi alla fotografia. In poco tempo si è fatto conoscere nel campo della moda. “Mi sono chiesto cosa rende speciale il lavoro di un architetto e ho subito realizzato che se un luogo non ti trasmette qualcosa, allora l’architetto non è riuscito nel suo intento. Lo stesso vale per la fotografia, che cattura le emozioni, i sentimenti e i pensieri più intimi del fotografo e del soggetto, condensandoli in un istante senza inizio né fine. Per questo mi piace la fotografia. Ho cominciato la mia prima serie pensando all’arte concettuale, alla fotografia artistica e a quella documentaria, poi sono passato alla fotografia d’architettura e in seguito alla moda. In fin dei conti è tutto sempre una questione di forme, luci, proporzioni e colori”.

Nelle sue immagini Duong scompone il movimento fino a creare dei veri e propri quadri simbolici, vagamente surreali, per arrivare all’astrazione. Fondato sul colore, questo lavoro vuole esaltare alcune caratteristiche culturali asiatiche e in particolare vietnamite, a cui l’autore è molto legato. Una modernità che esalta le proprie radici. Il fotografo insiste sulla spontaneità delle sue modelle: “La maggior parte di loro non aveva mai fatto questo mestiere, ma è cresciuta nella cultura tradizionale e moderna del Vietnam. I movimenti e le pose riflettono le loro esperienze e a volte le danze evocano giochi folcloristici infantili”. Un discorso simile riguarda la scelta dei fiori come accessorio: “In quanto architetto paesaggista mi piacciono molto le piante. I crisantemi sono associati alla cultura religiosa vietnamita. Altri fiori sono usati come metafore di alcuni momenti dell’antico Vietnam. Per me i fiori esprimono anche la speranza e la gioia. E questi messaggi si possono percepire nei vari colori delle foto”. Per il fotografo, ammiratore di Paolo Roversi, Nick Knight e Tim Walker, questo lavoro sul colore composto da piccole serie – áo dài nei ricordi d’infanzia; nelle arti e nella poesia vietnamita; nell’amore per il Vietnam; nelle pratiche tradizionali – vuole parlare del Vietnam di oggi senza dimenticare le sue origini.

“Come molti artisti vietnamiti”, afferma, “vorrei combattere lo stereotipo che lega il nostro paese solo a una serie di guerre. Le guerre sono finite. Ma ancora oggi molti ci considerano un paese povero e ferito. Le generazioni di artisti che hanno vissuto in tempo di guerra hanno lasciato opere d’arte uniche, che riflettono gli aspetti della loro epoca, ma io appartengo a una generazione nata in un periodo di pace. Vedo ogni giorno le diverse evoluzioni del Vietnam. Ecco perché devo creare, voglio far sapere quanto sia bello il mio paese. Questo progetto esprime il mio orgoglio di essere figlio del Vietnam. Un paese in cui vedo un senso di pace che vorrei trasmettere al resto del mondo”.◆ adr

Il libro

Il libro Portraits of áo dài – Hope for peace and love di Chiron Duong (Dat Duong) è autopubblicato in trecento copie firmate dall’autore.


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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati