Una parola compare sempre più spesso nei documenti di alcune multinazionali. Dai giganti di Wall street come il fondo d’investimento Black­Rock a colossi come la Coca-Cola e la Tesla, nel 2023 gli amministratori delegati delle principali aziende quotate in borsa negli Stati Uniti hanno usato la parola “geopolitica” dodici volte, quasi il triplo rispetto a due anni fa. Ci sono prove concrete del fatto che le tensioni nelle relazioni internazionali e più di un decennio di avvertimenti sulla fine della globalizzazione spingono le aziende a schierarsi. Le multinazionali occidentali che per anni hanno ignorato la geopolitica e cercato solo il profitto, stanno costruendo le fabbriche in paesi amici.

Mentre i leader mondiali erano riuniti a New York per l’assemblea generale annuale delle Nazioni Unite, i dati indicavano un mondo pronto a riorganizzarsi in blocchi rivali, sebbene ancora collegati, che riflettono il voto del Palazzo di vetro sull’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2022 quasi 180 dei 1.200 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri greenfield (quelli che prevedono la costruzione di un impianto o di un’infrastruttura) sono stati spostati dai paesi che hanno rifiutato di condannare l’invasione della Russia verso quelli che l’hanno fatto.

“È un cambiamento storico”, ha affermato l’ex ministro del commercio sudcoreano Yeo Han-koo, secondo il quale “sta nascendo un ordine economico che provocherà incertezza e imprevedibilità”. Con un linguaggio insolitamente diretto, all’inizio del 2023 la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha dichiarato che “assistiamo a una frammentazione dell’economia globale in blocchi contrapposti, ciascuno dei quali cerca di coinvolgere buona parte del resto del mondo nei suoi interessi strategici”.

Ci sono buoni motivi per essere preoccupati. All’inizio di quest’anno gli economisti del Fondo monetario internazionale (Fmi) avevano calcolato che nella situazione più estrema, con un’economia globale divisa in rigidi blocchi, a lungo andare perderebbe il 7 per cento della produzione, un cambiamento simile alla scomparsa dell’economia francese e di quella tedesca.

Nuove relazioni

La frattura non è né equilibrata né netta. Guidati dagli Stati Uniti, i paesi che hanno condannato l’invasione dell’Ucraina rappresentano più di due terzi del pil globale. La Cina si trova al centro dell’altro blocco e la sua corsa per superare gli Stati Uniti è frenata dal rallentamento della sua crescita, che secondo molti provocherà problemi duraturi.

Questa cortina di ferro economica è estremamente permeabile. L’istinto delle aziende a cercare profitti e mercati redditizi è forte quanto il desiderio di risparmiare dei consumatori. I paesi di entrambi i blocchi continuano a vendersi prodotti a vicenda. Ad agosto la segretaria al commercio statunitense Gina Raimondo è andata in Cina a proporre una ripresa delle vendite di aerei della Boeing e di altre esportazioni statunitensi. Le aziende cinesi produttrici di veicoli elettrici cominciano a invadere l’Europa, anche se questo ha spinto Bruxelles ad aprire un’indagine sui sussidi di Pechino. Paesi come l’India, che hanno scelto di non condannare l’invasione della Russia astenendosi dal voto all’Onu, tentano d’intrecciare nuove relazioni strategiche con gli Stati Uniti e altre potenze occidentali. Sia gli investitori cinesi sia quelli occidentali si stanno concentrando su un gruppo sempre più importante di economie, come il Vietnam e il Messico, che a loro volta cercano di avere buoni rapporti con entrambi i blocchi.

In una fabbrica di materiali per l’assemblaggio di semiconduttori a Hai’an, Cina, 27 febbraio 2023 (CFOTO/Future Publishing/Getty)

Ma nessun altro dato è più significativo di quello degli investimenti esteri diretti greenfield, che spesso richiedono anni per essere completati e quindi sono una scommessa sul futuro. Usando come filtro il voto alle Nazioni Unite sull’invasione dell’Ucraina, Bloomberg Econo–mics ha scoperto che negli ultimi due anni la quota globale di questi investimenti destinata a paesi che non hanno condannato l’invasione è stata in media solo del 15 per cento, in calo rispetto al 30 per cento del decennio fino al 2019. Nel 2022 la quota diretta in Cina, inclusa Hong Kong, è scesa a meno del 2 per cento da una media di quasi l’11 per cento. Gli investimenti in Russia sono stati praticamente azzerati.

I dati indicano che i paesi occidentali puntano soprattutto dove i governi la pensano come loro. Tra il 2021 e il 2022 negli Stati Uniti la quota di investimenti diretti esteri ha registrato il maggior aumento rispetto al decennio precedente alla pandemia. Ma la crescita più alta è stata quella di paesi come la Germania, l’Italia e il Regno Unito. Questo potrebbe riflettere, tra l’altro, un cambiamento della politica industriale statunitense, che incoraggia gli investimenti in settori strategici come i semiconduttori e i veicoli elettrici, e la risposta degli alleati europei e asiatici. Ma allo stesso tempo segna una svolta di un altro tipo. Anche se a settembre l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha affermato che è prematuro dichiarare la fine della globalizzazione, l’organismo ha sottolineato che le tensioni cominciano a influenzare i flussi commerciali e ci sono i primi segnali di frammentazione. Secondo la Wto, dopo l’invasione dell’Ucraina l’aumento degli scambi tra i due ipotetici blocchi geopolitici è stato di circa il 4-6 per cento più lento di quello all’interno degli stessi blocchi.

Percorsi abituali

All’inizio del 2023 gli economisti dell’Fmi hanno dichiarato che i flussi di investimenti e merci non seguivano più i percorsi abituali. Mentre un tempo prevaleva la promessa di nuovi mercati redditizi, dall’analisi di due decenni di dati è emerso che negli ultimi anni la politica ha svolto un ruolo importante nel determinare il flusso di capitali. “Anche se si valutano aspetti come il rischio paese e la distanza geografica, che generalmente è un fattore chiave del commercio bilaterale e dei flussi finanziari, si nota comunque che la geopolitica conta”, afferma Andrea Presbitero, ricercatore dell’Fmi.

Secondo un’analisi del Fondo monetario condivisa con Bloomberg, gran parte del cambiamento ruota intorno alla Cina. Tra il secondo trimestre del 2020 e il primo trimestre del 2023 gli investimenti diretti delle aziende statunitensi in Cina sono crollati del 57,9 per cento e quelli delle aziende europee sono calati del 36,7 per cento rispetto ai cinque anni precedenti alla pandemia, mentre gli investimenti degli altri paesi asiatici sono diminuiti di più di due terzi. La valutazione dell’Fmi riflette un’evoluzione più ampia in corso tra gli economisti, che per generazioni hanno studiato l’economia globale usando modelli legati alla tendenza delle aziende a massimizzare i profitti e influenzati dalla geografia o dall’attrattività dei grandi paesi. Ora devono fare i conti con dei dati che mostrano un’inafferrabile spinta della geopolitica e con un modo di definire la sicurezza nazionale che si espande continuamente.

Secondo Maurice Obstfeld, ex capo economista dell’Fmi, si torna a quella che per secoli è stata la norma, cioè che i commerci sono determinati dalla competizione per il potere. Penny Goldberg, ex capo economista della Banca mondiale, definisce la geopolitica “un’incertezza creata dall’uomo”. Dietro a questo cambiamento negli Stati Uniti e in altre economie occidentali c’è in gran parte la sensazione che per troppo tempo i leader politici abbiano avuto una fiducia ingiustificata nella capacità dei mercati di prendere sempre la decisione giusta.

Investimenti in Cina
Calo inesorabile
Investimenti stranieri in Cina dal 2020, variazione rispetto a cinque anni prima, % (Fonte: fondo monetario internazionale)

*Albania, Bielorussia, Bosnia Erzegoviva, Bulgaria, Ungheria, Kosovo, Moldova, Montenegro, Macedonia del Nord, Polonia, Romania, Russia, Serbia, Turchia e Ucraina.


Ma Goldberg teme che oggi il mondo stia andando troppo nella direzione opposta. Investire usando come guida la sicurezza nazionale spesso significa agire più sulla fiducia che sui dati. In passato molti governi hanno commesso errori di calcolo in nome della sicurezza, come nel caso della guerra in Iraq del 2003, osserva Gold­berg. Se la geopolitica guida gli investimenti “bisogna fidarsi del proprio governo. E a volte anche le persone ben intenzionate possono sbagliare”.

Goldberg vede conseguenze negative più ampie per l’economia globale. Per esempio, un aumento dell’inflazione dovuto ai maggiori costi di produzione, meno innovazione a causa della minore cooperazione internazionale nella ricerca e più disuguaglianza globale in seguito allo stallo degli investimenti nei paesi poveri.

E mentre finora la competizione geopolitica si è concentrata su settori tecnologici strategici, come i semiconduttori e l’energia, ora la spaccatura si sta ampliando. Il commercio delle materie prime diventa frammentato. Tutto è partito dal petrolio e dal gas, ma gli Stati Uniti e i loro alleati vogliono garantirsi nuove catene di approvvigionamento “più amichevoli” per materiali come il rame, il nichel e il litio, fondamentali per i semiconduttori.

In alcuni paesi la spaccatura si deve al desiderio di sottrarsi al condizionamento del dollaro. I Brics, il gruppo di economie emergenti che comprende il Brasile, la Russia, l’India, la Cina e il Sudafrica, stanno esplorando la possibilità di introdurre una nuova valuta condivisa, che potrebbe proteggerli dalle sanzioni occidentali.

La guerra in Ucraina
Blocchi contrapposti
Quota di pil globale in base al voto sulla risoluzione Onu di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina (Fonte: Fmi, Banca mondiale, Bloomberg economics)

All’inizio del 2023 la Germania ha dichiarato che le sue maggiori “aziende, nei processi decisionali, devono tenere sufficientemente conto dei rischi geopolitici”. Le ha anche avvertite che se un giorno dovessero affrontare i costi associati a una crisi geopolitica, non potranno contare sul fatto che il governo le salverà.

Il premier cinese Li Qiang ha risposto con un messaggio altrettanto netto in occasione di una visita in Germania, invitando le aziende a prendere da sole le decisioni sugli investimenti invece di seguire le indicazioni del loro governo.

Un paragone troppo facile

È forte la tentazione di credere che tutto il declino sia cominciato con la vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi del 2016. Ma la spinta verso nuovi blocchi economici era già in atto. L’amministrazione di Barack Obama aveva avviato negoziati commerciali motivati dalla geopolitica con l’Unione europea e i paesi asiatici. La nuova via della seta lanciata dalla Cina, e che ha raggiunto l’Asia e l’Africa, ha avuto apertamente un peso geopolitico fin dall’inizio.

Quello che probabilmente succederà è anche più complicato di quanto faccia pensare il paragone spesso citato con la guerra fredda. La Cina ha ancora un ruolo dominante in molte catene di approvvigionamento e in futuro anche le nuove fabbriche probabilmente avranno bisogno del paese asiatico. Secondo un’analisi del Rhodium group, anche se le aziende diversificano gli investimenti e gli scambi allontanandosi da Pechino, grandi spostamenti verso paesi alternativi possono comportare solo un ridimensionamento minimo della Cina. Inoltre, molte economie emergenti che hanno rapporti con il governo cinese desiderano ancora attirare investimenti dall’occidente, aggiunge Obst­feld. Non vogliono essere costrette a scegliere.

Il gruppo dei Brics potrebbe espandersi, ma è un blocco tuttora lacerato dalle rivalità geopolitiche, come ha dimostrato la decisione del presidente cinese Xi Jinping di non andare all’ultimo vertice del G20 in India. La stessa costruzione delle alleanze di Pechino mostra altre crepe. L’Italia ha dichiarato di voler uscire dall’accordo sulla nuova via della seta. Pochi giorni dopo l’India e l’Arabia Saudita hanno aderito al progetto degli Stati Uniti e dell’Unione europea di costruire legami commerciali tra l’Asia meridionale, il Medio Oriente e l’Europa. L’economista Jim O’Neill, che nel 2001 coniò il termine Bric, definisce la divisione in blocchi irrealistica e “inventata da politici e idealisti. Anche i paesi che hanno più esperienza e successo nelle esportazioni, come la Germania e la Corea del Sud, sono molto attenti a non legarsi troppo a uno dei due schieramenti”.

Eppure è difficile ignorare i dati. Le aziende scommettono sulla geopolitica. La quota cinese nelle esportazioni asiatiche sta perdendo terreno al ritmo più veloce degli ultimi due decenni, anche perché il commercio si sta diversificando, spiegano gli economisti della banca Nomura in un rapporto uscito a settembre.

Il “paesaggio geopolitico frammentato”, che il presidente della BlackRock, Larry Fink, ha definito una nuova forza “strutturale” decisiva per i profitti del suo fondo, è destinato a durare. E anche gli amministratori delegati si stanno preparando per il nuovo mondo. Nella sua riunione di luglio con gli investitori della Tesla, Elon Musk ha suggerito la sua soluzione all’ascesa della geopolitica: “La cosa migliore che possiamo fare è avere fabbriche in molte zone del pianeta”, ha detto. “Se le cose si mettono male in una zona, possiamo comunque andare avanti nelle altre”.◆ bt

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati