Il giorno prima c’era stata solo una spolverata di neve, ma mio fratello Jebsen era andato lo stesso a fare snowboard. Lui e i suoi amici avevano scoperto un posto segreto dietro un piccolo centro commerciale a Saugerties, nello stato di New York, e avevano costruito delle rampe su un leggero pendio in mezzo agli alberi. Le cataste compattate erano resistenti e non si scioglievano, perciò bastava solo che nevicasse un po’ e Jebsen e i suoi amici sparivano per l’intera giornata.

Mentre io e mia madre accostavamo con la macchina per andarlo a riprendere, mi è sembrato stanchissimo. Aveva lo sguardo spento, pareva quasi che non si fosse accorto del nostro arrivo, e il suo snowboard era per terra in mezzo al parcheggio, come se non gli importasse di recuperarlo.

Dopo essersi stravaccato sul sedile di dietro, ha cominciato a lamentarsi che aveva mal di testa. Dopo un po’ ha confessato di aver sbattuto la testa su una roccia ed essere svenuto. Poi, quando aveva ripreso conoscenza, aveva deciso di continuare a fare snowboard con gli amici.

Mia madre ha fatto un respiro profondo e ha girato lo sguardo verso lo specchietto retrovisore per dargli un’occhiata. “Probabilmente è un trauma cranico”, ha diagnosticato in tono pragmatico. All’epoca, il trauma cranico era considerato un infortunio sconveniente ma passeggero, e Jebsen aveva già avuto molti traumi cranici che si erano apparentemente risolti senza problemi. Anziché considerare i suoi precedenti come un fattore di rischio di danni cerebrali più seri, era più facile vederli come una prova della sua capacità di ripresa. “È meglio se ti riposi per qualche giorno”, ha detto mia madre.

A un semaforo, però, abbiamo notato che c’era qualcosa di diverso dal solito. Mia madre stava parlando di un episodio successo il giorno prima e Jebsen non ricordava nulla. Mi sono messa a ridere, pensando che scherzasse, ma quando mi sono girata per sorridergli aveva la bocca aperta e l’aria confusa.

Per il resto del viaggio lo abbiamo tempestato di domande, verificando prima le cose importanti – nomi, persone, luoghi – finché non abbiamo individuato la fascia temporale che separava i suoi ricordi intatti dagli eventi che erano stati spazzati via: due settimane. Le ultime due settimane della sua vita erano state rimosse di netto, come quando una corrente sottomarina stacca il sedimento esterno di una roccia mentre precipita verso il fondo del mare.

Ero sollevata che le cose importanti, tutte quelle fondamentali per la sua identità, fossero ancora integre. Lì per lì, sembrava una perdita di poco conto. Mentirei, però, se negassi il disagio che mi dava quella sua perdita di memoria. Era come una voragine che all’improvviso crea dei buchi sul terreno: la transenniamo con il nastro, provando a rassicurarci di aver circoscritto il pericolo.

Sono una paleoclimatologa, e il mio lavoro si basa sul principio che il passato fornisce il contesto che ci aiuta a capire meglio il futuro. Sapere quanto si è riscaldato il pianeta ci permette di comprendere le possibili traiettorie future del clima all’aumentare dei gas serra.

L’archivio della Terra ci dà una serie di informazioni attraverso le carote di ghiaccio, gli anelli di crescita degli alberi, i sedimenti oceanici, le stalattiti e le stalagmiti nelle grotte, gli anelli di crescita nei coralli, nelle zanne e nei molluschi. Questi faldoni aggregano ricordi di archi temporali che variano da mesi a milioni di anni, facendoci vedere lo spettro dei cambiamenti su varie scale di tempo e spazio: è grazie a queste informazioni che siamo in grado di capire come la biologia, gli oceani e il ghiaccio rispondono al cambiamento climatico secondo modelli riconoscibili, e di vedere le soglie di tolleranza di questi sistemi.

Questo è uno degli aspetti più importanti degli archivi paleoclimatici: ci mostrano come il mondo reale arriva al punto di rottura, come la resilienza si arrende alla catastrofe. Ci rivelano i limiti e le asimmetrie del sistema climatico: le soglie di tolleranza nelle interconnessioni di habitat; la lenta e costante fatica della diversificazione e la scure rapida dell’estinzione; i tempi lunghissimi che le lastre di ghiaccio ci mettono a formarsi – accumulando memorie di milioni di anni – e quanto possono sciogliersi velocemente, trasformando la storia in un’onda anomala che erode i banchi del nostro futuro.

Dopo un po’ Jebsen ha confessato di aver sbattuto la testa su una roccia ed essere svenuto. Poi, quando aveva ripreso conoscenza, aveva deciso di continuare a fare snowboard

Quando osservo gli eventi estremi che stanno sconvolgendo il nostro pianeta, il mio pensiero torna continuamente a quel momento in auto con mio fratello. È la stessa sensazione di qualcosa che si rompe a causa di un singolo evento traumatico, anche se l’entità del danno deve ancora rivelarsi.

Il giorno che mio fratello ha avuto l’incidente in snowboard non siamo andati all’ospedale. Siamo tornati a casa e mia madre ha preparato la cena. Jebsen si è ritirato in camera sua e si è steso sul letto. Da quel momento in poi, si è allontanato.

All’inizio i segnali erano sottili. Era dimagrito. Era sempre più chiuso e arrabbiato per le ingiustizie del mondo, ma era difficile distinguere i tipici sbalzi di umore di un adolescente dalle cose che andavano al di là del normale. All’epoca stava leggendo Jiddu Krishnamurti e sembrava voler essere un asceta, soprattutto nel modo di mangiare, che a un tratto era diventato per lui un atto di consumismo grottesco. Provavo a mostrarmi sua alleata, ma come facevo sbagliavo. Il semplice fatto di ingerire cibo lo disgustava.

Un giorno sono entrata in cucina e l’ho visto versare del succo di frutta nel vaso del nostro albero di arancio. Quando gli ho chiesto cosa stesse facendo, mi ha risposto che l’albero aveva bisogno di più sostanze nutritive per crescere meglio e dare frutti. “Non so se funziona così”, gli ho detto, da brava sorellina ancora timorosa di contraddire il fratello maggiore. “Forse non fa bene alla terra”. È rimasto a guardarmi a lungo dall’altro lato della stanza, con aria più di commiserazione che di rimprovero, e mi sono accorta che i suoi occhi cominciavano a percepirmi come un’estranea, e non più come una sorella che aveva condiviso con lui la stessa caotica edu­cazione.

Durante i fine settimana, continuavamo ad andare tutti e due allo sfasciacarrozze dove eravamo cresciuti per fare dei lavoretti per mio padre. Jebsen, però, era diventato più inaffidabile, distratto. Quando un giorno mio padre lo ha trovato a sniffare benzina, lo ha cacciato e gli ha detto di tornare solo dopo aver messo la testa a posto. Pensava che un bello scossone gli avrebbe fatto tornare il buon senso, ma in realtà per Jebsen è stato come perdere un punto di riferimento della sua identità.

Da ragazzini, spesso ci lasciavano liberi di esplorare insieme i meandri infidi dello sfasciacarrozze: ettari di vecchie auto ricoperte di liane, pulmini scolastici sfasciati e relitti di barche di legno marcio disseminati lungo la palude e le rocce di basalto della nostra proprietà nel nord dello stato di New York. Saccheggiavamo i bagagliai delle auto e delle roulotte in cerca di regali per mia madre. D’inverno pattinavamo sulla palude ghiacciata. Fingevamo di guidare le decappottabili accartocciate e di navigare sulle barche che lentamente si riempivano di foglie secche. Per quanto potesse sembrare un posto ostile a chi non lo conosceva, per noi era un’isola di continuità, un luogo di conforto, con i volti invecchiati delle auto che avevano vegliato su di noi durante l’infanzia. Per mio fratello essere scacciato dallo sfasciacarrozze era stato come essere mandato in mare aperto.

In geologia, una “non conformità” è un’aberrazione nel normale accumulo di sedimenti, un’anomalia nel processo di archiviazione della storia della Terra. “Un’amnesia nell’archivio geologico, dove la roccia sovrastante, significativamente più giovane di ciò che sta al di sotto, rappresenta l’interruzione di una storia di formazione”, secondo la definizione dello scrittore e poeta Kim Stafford.

La lacuna più lunga della storia della Terra è nota come la “grande non conformità”. È un vuoto temporale che oscilla tra cento milioni e più di un miliardo di anni, a seconda del luogo. È visibile nel Grand Canyon, nella cinta tra lo scisto precambriano di Vishnu e l’arenaria cambriana di Tapeats, lungo la quale, tra milleseicento e seicento milioni di anni fa, si è creato un buco temporale di un miliardo di anni. Osservando questa linea tra gli strati, è difficile capire cosa può essere successo in un arco di tempo così grande, su cui non è stata trovata neanche una testimonianza. Non c’è traccia di presenza animale: né dinosauri né balene né esseri umani né piramidi.

Com’è possibile che un miliardo di anni sia andato perso? La grande non conformità è un mistero geologico, in primo luogo perché è difficile ricostruire la storia senza i suoi registri.

Beatrice Bandiera

A quanto pare, le calotte di ghiaccio sono ottime tritarifiuti. Secondo le ultime ricerche, la grande non conformità potrebbe essere ricondotta alla “Terra a palla di neve”: un periodo di abbassamento drastico della temperatura, circa settecento milioni di anni fa, durante il quale gran parte della superficie del pianeta fu coperta dai ghiacci. Un miliardo di anni di storia è stato triturato dal ghiaccio e spinto sotto il fondale marino, è finito nel mantello terrestre ed è stato riciclato in magma, anche se con alcuni residui del passato conservati al sicuro in cristalli sotterranei.

Se da un lato le calotte di ghiaccio potrebbero essere responsabili della più grande non conformità nella storia della litosfera della Terra, dall’altro sono tra le migliori banche dati del pianeta. In Groenlandia sono conservati più di centomila anni di storia. In Antartide più di un milione. Queste masse di ghiaccio sono in grado di registrare le grandi eruzioni vulcaniche avvenute durante la loro esistenza e l’andamento del clima in quegli anni. L’Antartide ricorda il livello di diossido di carbonio nell’atmosfera di ottocentomila anni fa e le sue variazioni da allora: i limiti massimi e minimi dei cicli glaciali e interglaciali, e la sconvolgente uscita da quei limiti negli ultimi decenni. La Groenlandia ricorda quando i romani cominciarono a fondere l’argento grazie alla polvere tossica di piombo che si depositava sul ghiaccio, e sa anche quando Roma cadde perché la polvere smise di depositarsi. Non c’è niente di più adatto del ghiaccio per conservare informazioni.

Ora, però, le storie custodite dai ghiacciai del mondo si stanno perdendo, come in un’emorragia. Quelli di montagna si stanno consumando ai bordi come carta bruciata e la Groenlandia sta rilasciando un milione di tonnellate di ghiaccio al minuto: nelle giornate peggiori, è una quantità d’acqua sufficiente a sommergere interi stati. Tra il 1994 e il 2017 nel mondo sono andati persi trentamila miliardi di tonnellate di ghiaccio, e il riscaldamento è appena cominciato. Nell’agosto 2021 ha piovuto sulle vette della Groenlandia. L’evento porterà alla formazione di uno strato di ghiaccio sciolto, un segnale terribile per la parte superiore di una calotta. Le zone costiere sono diventate troppo fangose per scavare, e questo impedisce agli scienziati di prelevare carote di ghiaccio dal terreno, rendendo la sua storia inaccessibile.

L’Antartide è stata la più lenta a risvegliarsi, ma i tentacoli di ghiaccio che tengono ancorato il gigante stanno cominciando a staccarsi. Queste piattaforme galleggianti si diramano dal punto in cui la calotta è attaccata al substrato roccioso, contribuendo a stabilizzare l’interno, ma ora cominciano a indebolirsi per effetto del riscaldamento degli oceani e dell’innalzamento del livello del mare. Mentre le piattaforme di ghiaccio si disintegrano nell’oceano, il ghiaccio a monte accelera la sua discesa.

Nel 2022, una doppia ondata di calore ha colpito l’Artide e l’Antartide, provocando un rialzo delle temperature di quasi 40 gradi rispetto alla norma. La piattaforma Conger, nell’Antartide orientale, ha dato il suo addio al pianeta. L’Antartide occidentale è sempre stata considerata più esposta alla perdita di ghiaccio a breve termine, ma ora anche quella orientale sta cominciando a mostrare delle crepe. Il caldo facilita il lavoro dell’oblio.

Con il passare dei mesi le condizioni di mio fratello si sono aggravate, ma ogni tentativo di convincerlo ad andare da un medico era inutile. Quando è diventato maggiorenne mia madre, nonostante gli sforzi, non è riuscita a costringerlo a farsi visitare. Emaciato per il digiuno, la testa sempre china in avanti, era diventato l’ombra di se stesso. Ogni volta che qualcuno gli consigliava di farsi aiutare sbatteva la porta e si chiudeva ancora di più.

Un giorno, tornando a casa dopo una passeggiata nel bosco, ho notato che su un vecchio steccato nel campeggio vicino alla nostra proprietà c’era un rovo carico di more. Mi ricordo nitidamente la sensazione di speranza che ho provato vedendole, l’illusione di una soluzione. Pensavo che Jebsen non avrebbe fatto obiezioni a mangiare le more, perché erano selvatiche e non costavano nulla, quindi sono corsa a casa e ho preso un colino per raccoglierle.

Ho bussato alla porta della sua camera con il colino traboccante di more. “Guarda cos’ho trovato dall’altra parte della strada”, ho detto, porgendogli le more come un’offerta di pace. Lui ha alzato gli occhi e ha incrociato il mio sguardo per la prima volta dopo mesi. “E gli uccelli cosa mangeranno?”, mi ha chiesto. Ho preso il colino e l’ho scaraventato via, insieme alle mie speranze di vederlo stare meglio.

Quando è arrivato l’autunno mia madre gli ha dato un ultimatum: o vai dal medico o te ne vai di casa. E così lui se n’è andato, scomparendo nel freddo autunnale senza nemmeno una giacca addosso. Qualche settimana dopo, mia madre lo ha trovato nel seminterrato all’esterno della nostra casa. Per dormire si era sistemato sul pavimento vicino allo scaldabagno, in mezzo alle trappole per topi. Lo ha riportato a casa, sollevata che fosse ancora vivo.

Beatrice Bandiera

Siamo andati avanti così per qualche mese, nel limbo della consapevolezza che qualcosa doveva succedere. Finalmente, un giorno mia madre mi ha detto: “Lo faremo domani. Stanno venendo zio Bill e papà. Verrà anche la polizia”. Quel giorno, quando sono scesa dal pulmino scolastico, Jebsen non era a casa. Era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico. Ho chiesto a mia madre cosa fosse successo, ma lei si è limitata a scuotere la testa. L’unica cosa che ha detto è stata: “Hanno dovuto immobilizzarlo”. Qualche giorno dopo gli è stata diagnosticata la schizofrenia.

Nella biosfera, la resilienza è intrecciata alla memoria: è la capacità di un sistema di tornare a uno stato di equilibrio dopo una perturbazione, il che implica il ricordo di uno o più stati precedenti. Per esempio, possiamo considerare la memoria ecologica delle foreste come un contenitore d’informazioni materiali che mappano le strategie con cui quegli ecosistemi si sono adattati alle perturbazioni: incendi, siccità o cambi di temperatura. Tra questi lasciti ci sono i semi che germogliano dopo un incendio e i ceppi morti che diventano la casa di piante e funghi.

I materiali, tuttavia, possono andare dispersi o ridursi al variare delle condizioni ambientali. Spesso i cambiamenti sono provocati dall’uomo, come le estinzioni o l’introduzione di specie invasive. E possono dare luogo a un “debito di resilienza”, riducendo la capacità di un sistema di riprendersi. Questo debito si manifesta solo dopo che un ecosistema viene disturbato. Dato che per natura gli ecosistemi rispondono lentamente alle modifiche dell’ambiente – ci mettono decenni o secoli – queste possono essere scambiate per resilienza, rendendo difficile predire le risposte future a nuove perturbazioni.

L’importanza della memoria non sta solo nelle informazioni che contiene. Nel sistema Terra, le componenti dotate di grande capacità di memoria sono un cuscinetto contro la variabilità a breve termine, una forma d’inerzia, che rallenta la risposta iniziale a una perturbazione. Gli oceani assorbono il calore atmosferico e il diossido di carbonio; le foreste raffreddano l’ambiente attraverso la cattura di anidride carbonica e l’evapotraspirazione, un processo che restituisce acqua all’atmosfera e contribuisce a stabilizzare il ciclo idrologico. Le calotte di ghiaccio mantengono fresco il pianeta. Con il loro scioglimento, una quantità maggiore di radiazioni solari viene assorbita dalla Terra, facendo alzare le temperature.

Ma la complessità della memoria è anche ciò che la avvia al fallimento quando è spinta oltre i suoi limiti. La struttura che può stabilizzare il sistema di fronte a piccole perturbazioni può crollare drammaticamente quando la frequenza e l’ampiezza del cambiamento diventano troppo grandi.

Prima che un sistema complesso arrivi a un punto critico ci sono dei segni premonitori che è possibile riconoscere. Il più conosciuto di questi segni è il “rallentamento critico”, il fenomeno che per esempio si verifica quando il nostro computer si blocca e noi, anziché prestare attenzione alle implicazioni di questo processo di elaborazione più lento, schiacciamo furiosamente i tasti in preda alla frustrazione, sovraccaricandolo ulteriormente prima che si spenga completamente. Sono i momenti in cui è più facile perdere le informazioni, se prima non sono state messe al sicuro in un archivio.

Il rallentamento critico indica che il sistema sta perdendo la capacità di mantenere l’equilibrio precedente e che qualcosa lo sta attraendo verso un altro stato. È una perdita di resilienza, una perdita dei feed­back negativi che aiutano un sistema a radicarsi e a restare stabile. Vari sottosistemi sensibili alle soglie – come la foresta amazzonica – mostrano già le avvisaglie di un rallentamento critico.

Data la complessità del sistema Terra, è difficile valutare l’entità della perdita d’informazioni in corso. Alcuni tentativi di quantificarla, tuttavia, sono stati fatti. In un modello in cui il fattore di stress sono le emissioni di anidride carbonica prodotte dall’uomo e la risposta del sistema è la capacità della terraferma e dell’oceano di assorbirle, i ricercatori mostrano che la seconda è intrinsecamente più lenta del primo. Si stima che il 60 per cento della memoria del pianeta fosse già degradato nel 1959, e che la capacità della Terra di accumulare memoria sia compromessa, riducendo la capacità del sistema di rispondere alle sollecitazioni all’interno del suo regime naturale di stress-deformazione. Nel modello, le stime sulla persistenza (un parametro simile al rallentamento critico) stanno aumentando, prefigurando il superamento dei limiti del regime naturale della Terra ben prima del 2050. Anche la memoria dell’oceano si sta degradando, e questo vuol dire che le temperature future saranno più variabili e meno prevedibili.

L’intricato problema con cui ci confrontiamo è l’asimmetria delle scale cronologiche: ci vuole tempo per costruire la memoria, ma basta un istante geologico per cancellarla. Come per molte cose che diamo per scontate, è difficile accorgersi di queste forze stabilizzanti finché non ci sono più. Più ci sganciamo dalle ancore del passato, più il futuro va alla deriva.

La salute e la memoria di Jebsen hanno continuato a peggiorare. In un momento di crisi ha smesso di prendere le medicine ed è stato cacciato dalla casa di cura dove viveva. Per settimane ha dormito nei boschi come un senzatetto, senza rispondere al telefono. Quando è ricomparso, mio cugino, i miei zii e i miei fratellastri hanno fatto una colletta per sistemarlo in un motel. Io ero sulla costa occidentale, avevo un bambino piccolo e non potevo andarlo a trovare molto spesso, ma parlavamo regolarmente al telefono. Sentivo dalla sua voce che stava peggiorando, ma mi aveva fatto giurare di non mettere più in mezzo i medici.

Ogni volta che parlavamo mi raccontava le stesse storie, come se tutto il resto fosse stato spazzato via. Quasi sempre ricordava i vecchi tempi, quelli dello sfasciacarrozze. Spesso i suoi ricordi riguardavano situazioni di pericolo: la volta in cui ero rimasta bloccata nel furgone di mio padre che scivolava lungo il vialetto mentre Jebsen gli correva appresso dicendomi di saltare giù dal finestrino; oppure quando mio padre si era tagliato un dito con il finestrino rotto di una macchina e aveva chiesto a Jebsen di andare a prendere dei tovaglioli di carta. La storia finiva con Jebsen che diceva: “Ehi, papà, mi sa che i tovaglioli di carta non ti basteranno”, e tutti e due scoppiavamo a ridere.

Jebsen è morto di cirrosi pochi mesi prima di compiere 39 anni.

I limiti della memoria della Terra sono messi duramente alla prova. La biodiversità è in drastico declino. Ecosistemi complessi che contengono biblioteche d’informazioni genetiche – potenziali armadietti dei medicinali per malanni che non si sono ancora manifestati – si stanno riducendo a monoculture. Negli ultimi decenni, i tassi di estinzione sono da dieci a cento volte più alti rispetto agli ultimi dieci milioni di anni, e oltre un milione di specie sono a rischio. L’estinzione è la perdita di memoria definitiva, l’interruzione di un flusso d’informazioni che da centinaia di milioni di anni vengono metodicamente trascritte nella biblioteca vivente della Terra.

Gli incendi stanno radendo al suolo antiche foreste e intere città: migliaia di anni di storie tramandate da imponenti sequoie ridotte in pirocumuli che fluttuano nell’aria. Questi paesaggi carbonizzati sono ovunque in California: i segni delle ustioni partono dalle montagne di Santa Cruz e arrivano fino all’oceano. I corvi stanno appollaiati sugli alberi. L’Echo summit è disseminato di pezzi di carbone sparsi e l’unico segno delle case distrutte sono i caminetti in mezzo alle ceneri.

Ovunque sulla Terra brucia il fuoco sommesso dell’amnesia. La cenere delle nostre antiche biblioteche ci sta piovendo addosso in un fumo tossico che avvolge il pianeta e annerisce i ghiacciai, accelerandone lo scioglimento. Migliaia di anni di storia si riversano nell’oceano, che avanza inesorabilmente erodendo i banchi del nostro futuro. Chi ha sempre cercato la saggezza nel passato non riesce a scrollarsi di dosso i brividi del disagio, e all’improvviso si ritrova davanti al silenzio spettrale di monconi di storia che non rispondono più.

Non saprò mai se l’incidente sullo snowboard di Jebsen fosse direttamente collegato alla schizofrenia, ma quando ripenso alla tragica svolta che ha preso la sua vita, mi fisso su quel momento in auto quando mio fratello ha mostrato i primi segni di amnesia. Mi soffermo sulla nostra immobilità, sulla nostra incapacità di prendere un’iniziativa che ci aiutasse a valutare i danni più gravi che potevano nascondersi sotto quel buco nella sua memoria. A tenerci lontani dagli ospedali non è stata la mancanza di scrupoli, ma un eccesso d’inerzia che ci ha ancorati al nostro tran-tran quotidiano. Magari non sarebbe cambiato niente, ma almeno ci avremmo provato, e forse saremmo stati più preparati per quello che ci aspettava. Non avremmo ignorato i tanti segnali inquietanti che all’inizio era facile sottovalutare, finché un giorno mio fratello fu pelle e ossa, ingobbito e farfugliante, incapace di guardarmi negli occhi, e tutto quello che io potevo chiedermi era: come ho fatto a non vedere? La risposta è che l’avevo visto, ma volevo che quei segnali di pericolo fossero aberrazioni; volevo credere che la resilienza fosse illimitata.

Poco prima di morire, Jebsen mi ha parlato di una cosa che non c’entrava nulla con quel che raccontava di solito. Era il ricordo di una gita dall’Oregon alla California del nord insieme a me e a mia madre, l’unica volta che ci eravamo avventurati a ovest. Eravamo diretti al monte Shasta, ma avevamo fatto una deviazione al parco di Humboldt Redwoods per vedere gli alberi giganti. Quel giorno Jebsen era stato molto silenzioso, e allora avevo pensato che fosse ansioso per il viaggio. Mio fratello mi ha raccontato nei minimi particolari il momento in cui avevamo attraversato la avenue of Giants, la strada con gli alberi più alti del mondo. Sono rimasta sorpresa dalla vividezza del suo ricordo e gli ho confidato che all’epoca avevo interpretato il suo silenzio come un segno di disinteresse. “No”, mi ha corretto, “quegli alberi erano la cosa più incredibile che avessi visto in vita mia”. ◆ fas

Summer Praetorius è una paleo­climatologa. Usa i sedimenti oceanici e i microfossili marini per ricostruire il passato degli oceani. Questo articolo è uscito sul trimestrale scientifico statunitense Nautilus con il titolo The great forgetting.

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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati