Nel più importante museo d’arte contemporanea italiano, il castello di Rivoli, è conservata l’opera di un artista altrettanto importante: Novecento di Maurizio Cattelan (1997). Tecnicamente, se uno non ne sa nulla, siamo davanti a un cavallo vero, morto, e poi imbalsamato, con le gambe spezzate e tese verso il suolo, appeso a un soffitto con un’imbragatura. Il concetto è potente: il novecento come secolo fallito e incavalcabile a partire dal suo simbolo più rilevante (quello equestre, così frequente nei monumenti). In chi osserva le cose del mondo estetico con un minimo di attenzione agli aspetti etici, sorge però una domanda credo importante: era così necessario uccidere o usare un cavallo vero per fare un’opera d’arte? I regolamenti museali non forniscono indicazioni su questo. Ma non ci sono dei limiti che l’arte dovrebbe avere nell’uso di vite coscienti per la sua ricerca? Maurizio Cattelan ha impiegato animali imbalsamati per le sue opere, anche Damien Hirst, e l’elenco è molto lungo. Quindi per un artista vale tutto? Credo che una riflessione in questo senso sia particolarmente importante oggi, di fronte alle azioni di disobbedienza civile degli attivisti e delle attiviste di Ultima generazione: come facciamo a rimproverarli se imbrattano un museo per richiamare la nostra attenzione sulla necessità di difendere l’ambiente e la vita, quando consideriamo normale sopprimere una vita per riempire un museo? Ovunque sia la giustizia, è lontana da questo . ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati