La Germania era un film in bianco e nero. Per una generazione cresciuta in Turchia negli anni settanta la “Almanya” era quell’immagine sgranata alla televisione in cui uomini provenienti dalle regioni rurali turche si mettevano in fila e si spogliavano davanti ai medici mostrando i denti. Portavano con sé piccole valigie e prendevano treni per diventare Gastarbeiter (lavoratori ospiti). Credevano che sarebbero tornati una volta messi da parte i soldi, mentre la Turchia diventava un paese degno dei loro figli. La maggior parte non è mai tornata. Si è trasformata in una specie ibrida, come migliaia di lavoratori dal Portogallo, dalla Grecia o dalla Spagna.
Decenni dopo, siamo arrivati noi. Non come migranti economici, ma come persone in fuga dall’autoritarismo della Turchia. Non abbiamo avuto bisogno d’ispezioni mediche. Tuttavia, abbiamo affrontato prove di dignità a bassa intensità negli uffici per l’immigrazione e subìto la burocrazia. All’epoca i Gastarbeiter scrivevano lettere e cantavano canzoni sulla nostalgia di casa, ora noi usiamo i nostri profili Instagram per fare battute pungenti sulle difficoltà in questa “patria amara”, com’è chiamata nella letteratura turca.
Quando l’8 dicembre ha deciso di creare campi di deportazione sul modello di Giorgia Meloni, l’Europa – il continente faro del diritto– è diventata un luogo sempre più insidioso
Questi due gruppi formano due diaspore diverse. Loro ci vedono come pochi privilegiati, ci chiamano i “nuovi arrivati”. In confronto siamo dei viziati, perché viviamo in una condizione che loro hanno ottenuto dopo aver lavorato sodo. Quando noi, i nuovi arrivati, sentiamo nostalgia di casa, andiamo nei loro supermercati dove si vendono marche turche che non abbiamo mai visto nel nostro paese.
Quando pensano che per noi sia troppo facile, si mostrano orgogliosi di essere esperti della vita in Germania. Quando ci parliamo, le parole tedesche che loro inseriscono nelle frasi non hanno senso per noi, mentre il nostro turco di Istanbul a loro suona strano. Noi stiamo cominciando ora a costruire la solidarietà e le associazioni che loro hanno messo in piedi in decenni. L’hanno fatto nelle fabbriche e nei dormitori per i lavoratori. La nuova generazione lo fa negli auditorium e nei collettivi artistici.
I nuovi migranti turchi in Germania, però, non portano lo stesso bagaglio di speranze di quelli arrivati prima. Portiamo qualcosa di più delicato: la memoria di una democrazia incrinata. Siamo venuti qui con la consapevolezza di come una nazione può rivoltarsi contro la sua stessa gente.
Con la memoria fresca di come si perde una democrazia, entriamo in un continente che, ancora una volta, si fa tentare dai suoi impulsi più oscuri. La Germania – spesso vista come il paese che ha imparato meglio la lezione dalla storia europea – non ne è affatto immune. Gli attacchi razzisti sono cominciati in sordina, poi sono diventati più rumorosi. La retorica politica è diventata più aspra. Le persone comuni sono più sospettose le une verso le altre. Specialmente dopo Gaza, chi di noi viene da terre distrutte percepisce l’insidiosa sensazione che qualcosa stia per succedere. A volte, soprattutto quando i sondaggi certificano l’ascesa dell’estrema destra, i ricordi del male politico nel nostro paese si fondono con la conoscenza della storia tedesca.
Non è solo la Germania. Quando l’8 dicembre ha deciso di creare campi di deportazione sul modello di Giorgia Meloni, l’Europa – il continente faro del diritto, della diversità e dell’uguaglianza– è diventata un luogo più insidioso. Non solo gli stranieri ma anche i tedeschi ammettono di sentirsi in pericolo. È ironico essere arrivati in questa terra in cerca di una vita pacifica solo per sentir dire ai tedeschi che vogliono partire perché qui non è più sicuro: come i cittadini di molti paesi europei che stanno combattendo con l’ascesa dell’estrema destra, alcuni stanno pensando di trasferirsi in Grecia; i più benestanti in Spagna. Quando gli spiego che la crisi della democrazia è una faccenda globale, e non ci sono santuari in cui rifugiarsi, rispondono con la stessa battuta: “Almeno il clima è migliore”.
Le rotte dell’esilio si stanno invertendo. Le immagini in bianco e nero dei treni diretti a ovest sono sostituite da quelle dei tedeschi arrivati in Grecia o in Spagna. La battuta più popolare su Instagram, abbinata alla foto di un uomo o una donna che si gode il sole, è: “Pensavo di essere depresso, ma era solo la Germania!”. Il migrante, però, sa meglio di tutti che quando la realtà sedimenta nessun filtro social può nascondere la pena di aver lasciato la propria terra.
Forse il paese che prima ha avuto bisogno della nostra forza lavoro adesso ha bisogno del nostro monito. Portiamo la memoria della perdita, non come un peso, ma come una forma di conoscenza. Qualcosa di cui l’Europa ha bisogno per affrontare i suoi demoni. I nuovi migranti che arrivano in Germania non stanno solo cercando rifugio. Stanno offrendo all’Europa uno specchio. La questione è se l’Europa avrà il coraggio di guardarsi. ◆ ga
Questa column è stata scritta per il quotidiano spagnolo El Mundo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1645 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati




