Nel 2007 tre psicologi sperimentali hanno coniato, un po’ per scherzo, il termine sugrophobia (dal latino sugere, succhiare, che rimanda all’inglese sucker, fesso o babbeo, e phobia, paura) per indicare il timore di essere raggirati. Kathleen Vohs, Roy Baumeister e Jason Chin volevano dare un nome a quel terrore provato dalle persone quando hanno l’impressione che qualcuno si stia approfittando di loro, in parte a causa delle loro stesse decisioni. L’idea che gli psicologi dedichino le loro ricerche a chi si sente fesso inizialmente può sembrare strana. Tuttavia quando si cercano le tracce della sugrophobia diventa chiaro che non solo esiste, ma che è anche un’epidemia: influenza sia le scelte individuali sia i discorsi che diffondono sfiducia e pregiudizi nella società.

Solo la quantità di sinonimi di fesso fa pensare a un’ossessione culturale: babbeo, gonzo, pollo, sciocco, tonto, sfigato e così via. Il dibattito pubblico su un’ampia gamma di politiche sociali e progressi tecnologici è caratterizzato da timori incoerenti su chi sarà il prossimo a essere raggirato. ChatGpt aiuterà gli studenti a imbrogliare insegnanti inconsapevoli? Dopo la pandemia di covid-19 il lavoro a distanza è diventato così popolare perché i dipendenti possono oziare più facilmente?

Da quindici anni studio la psicologia del sentirsi fessi. Quando parlo di questo mio interesse, spesso i miei interlocutori pensano che io m’interessi alle truffe. Ma come dimostrano gli esempi appena citati, la sugrophobia è più della semplice paura di essere coinvolti in un imbroglio. Gli schemi Ponzi o i casi Enron in cui rimanere invischiati non sono tanti, e la maggior parte delle persone non sarà mai coinvolta in un inganno del genere. Eppure la sensazione di essere raggirati – e il timore di provarla – è diffusa.

Quando il pranzo costa più del previsto, quando il collega si dà malato per la terza volta in un mese, quando permettiamo all’auto che corre sulla corsia d’emergenza d’infilarsi davanti alla nostra: per molti queste piccole interazioni si accompagnano a una sottile accusa nei confronti di se stessi. Ci chiediamo: “Aspetta, non mi starò facendo fregare?”. Il timore di essere ingannati può essere così sconfortante da andare oltre la razionale prudenza e diventare qualcosa di più automatico e intenso: una fobia.

Stare attenti alle truffe ha senso: non si deve rispondere alle email di spam, per quanto ci piacerebbe aiutare un principe a recuperare i milioni versati sul suo fondo fiduciario. Ma anche l’eccessiva diffidenza ha dei costi, sia per la persona sia per l’ordine sociale. Una lunga serie di studi di psicologia e di economia comportamentale può aiutarci a valutarli. Sul piano individuale, il timore di essere ingannati può spingerci a evitare i rischi e a rifiutare quel tipo di cooperazione che è essenziale per lanciare una nuova impresa. A livello sistemico, la posta in gioco è ancora più alta. La paura di essere fregati può essere una scusa per respingere la solidarietà e sospettare degli altri. Su larga scala, i cliché sui fessi contribuiscono a perpetuare gli stereotipi di gruppo – su chi è degno di fiducia e chi invece va controllato – e a rafforzare le tradizionali gerarchie di classe, etnia e genere in modi di cui neanche ci rendiamo conto.

Imbarazzante

Per capire questa paura può essere utile un piccolo esperimento mentale. Immaginiamo che io accetti di fare una donazione a un ente benefico. Poco dopo ricevo un avviso dalla banca secondo cui l’addebito sulla carta di credito proviene da una fonte sospetta. Con grande dispiacere, scopro di aver dato il numero della carta a un truffatore, non a un volontario di un’organizzazione caritatevole. Anche se la banca risolve il problema e blocca l’addebito, e l’unico costo è aver perso del tempo al telefono, so che mi sentirò peggio di quanto la semplice seccatura suggerirebbe. Ma provare un senso di disagio esagerato potrebbe anche essere ragionevole, perché favorisce l’adattamento. Per prima cosa, la sensazione negativa che provo può riflettere i costi sociali reali del mio errore: se il partner o gli amici dovessero scoprire che ho condiviso i dati della carta di credito con un truffatore, sarebbe imbarazzante. E poi questa autorecriminazione è utile: era un danno evitabile – con una rapida ricerca su Google o con qualche indagine successiva – quindi, se mi sento a disagio in un dato momento, forse potrò evitare di ritrovarmi in situazioni simili in futuro.

Stati Uniti, anni cinquanta (george marks, getty)

Esistono, però, prove convincenti del fatto che la paura di essere ingannati influenza il processo decisionale anche quando non è utile. Molti riscontri su questa repulsione istintiva vengono da alcuni studi di economia sperimentale che cercano di semplificare il più possibile gli scambi umani. Questo aiuta i ricercatori a escludere le spiegazioni meno solide per i fenomeni osservati. Di solito, gli studi prevedono dei giochi con incentivi reali: i partecipanti hanno l’effettiva possibilità di guadagnare o perdere denaro in base al risultato, i giocatori però non s’incontrano né conoscono le identità degli altri. Nessuna transazione ha ricadute sociali nella realtà. La situazione consente ai ricercatori di chiedersi: anche quando nessuno viene a sapere di un’interazione e non ci sono precedenti da stabilire né esempi da dare, le persone reagiscono comunque in modo eccessivo al rischio di essere ingannate?

Il trust game (gioco della fiducia) è un semplice protocollo sperimentale in cui i giocatori sono divisi in coppie per fare degli scambi di denaro. Un giocatore è l’“investitore” e comincia il gioco con una somma, per esempio dieci dollari , e da lì deve fare una scelta: quanti soldi dare all’altro giocatore, il “fiduciario”? Tutto quello che dà al fiduciario è automaticamente moltiplicato. Una volta che il fiduciario sa quanto ha ricevuto, può fare la mossa finale e decidere quanto denaro trasferire all’investitore. È facile capire perché si chiama “gioco della fiducia”. Se i giocatori collaborano e fanno trasferimenti generosi – cosa che spesso succede – entrambi ne traggono un vantaggio. Per l’investitore, però, la prima mossa è rischiosa: potrebbe dare via la maggior parte o tutto il denaro, solo per ricevere poco o nulla in cambio. L’eventualità di sentirsi il fesso della situazione è difficile da ignorare.

Negli anni alcuni hanno sostenuto che gli investitori riluttanti non sono preoccupati di essere ingenui, ma sono solo ragionevolmente avversi al rischio. Gli psicologi Daniel Effron e Dale Miller hanno cercato di affrontare direttamente questo problema modificando l’esperimento. Nella loro versione gli investitori potevano trasferire dieci dollari o niente. Se l’investitore sceglieva di dare del denaro all’altro giocatore, i soldi venivano moltiplicati e il fiduciario poteva restituire quindici dollari (metà della somma finale, quindi un rendimento equo) o otto dollari (un rendimento risicato). Ad alcuni investitori è stato detto che l’importo restituito dal partner sarebbe stato determinato in maniera casuale, da un computer. Ad altri è stato comunicato che il loro partner avrebbe deciso la cifra. In entrambi i casi, gli investitori sono stati indotti a credere che la probabilità di ricevere un rendimento ingiusto fosse intorno al 30 per cento.

In altre parole, alcuni rischiavano di perdere perché una scommessa informatica non era andata a loro favore; altri avevano la stessa probabilità di perdere a causa di un partner inaffidabile. La domanda era: quanti avrebbero scelto di trasferire i loro dieci dollari?

Cedere il proprio denaro era una buona scommessa per gli investitori, a prescindere da tutto, ma loro erano più disposti a scommettere su una macchina che a fidarsi di un essere umano, anche se la probabilità di perdere era la stessa. Guardate le cose da questa prospettiva: il giocatore che porta a casa solo otto dollari per colpa di una decisione casuale ha perso un paio di dollari. Ma il giocatore che ottiene di meno perché ha mal riposto la sua fiducia è tutt’altro tipo di “perdente”. I giocatori non si sono mai incontrati, non c’è una reputazione da perdere. Eppure, il rischio è percepito come diverso solo perché collaborare con una persona egoista fa di te il fesso. Quando i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di spiegare come avevano calcolato il rischio, l’elemento che è emerso con più forza è stata la colpevolizzazione di sé. Non si sarebbero perdonati per aver dato fiducia a chi non la meritava.

Questi risultati sono confermati da altre ricerche. Una persona che in un lavoro di coppia potrebbe essere disposta a coprire un partner incapace, per principio si tirerebbe indietro se dovesse avere a che fare con un compagno pigro. I partecipanti a una ricerca sono disposti a investire più denaro in una startup rischiosa se pensano che i fondatori possano essere consigliati male, rispetto a quando hanno paura che i fondatori siano dei truffatori. Eppure, il livello di rischio è esattamente lo stesso.

I soggetti interpellati sull’assegnazione dei sussidi sociali alle famiglie a basso reddito sono più favorevoli ai voucher e alle donazioni di beni che agli aiuti in denaro, perché è “troppo facile approfittare del privilegio” di ricevere dei soldi. Quando le persone percepiscono la minaccia di un abuso della loro fiducia, sembrano spostare l’attenzione dal rischio di una perdita materiale a ciò che la situazione significa per loro. Se lascio che si approfittino di me, io cosa divento?

In un gioco di fiducia o nel mondo reale, la possibilità di essere fregati mette tutti in allerta. Ci trattiene dal condividere, collaborare, partecipare. In scenari finanziari rischiosi, la posta in gioco è chiara ed è nei pensieri di tutti, indipendentemente da come viene descritta la situazione. La paura di fare la figura del fesso è automatica. A volte, però, inquadrare qualcuno come “fesso” è una scelta retorica, e la tendenza alla sugrophobia può essere usata come un’arma.

Durante la campagna per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 2016, Donald Trump ripeteva spesso una storiella tratta da una vecchia canzone. Parla di una donna che trova un serpente, tremante e affamato, su un sentiero. Il serpente la implora di aiutarlo, finché lei non lo accontenta. A quel punto il serpente le dà un morso fatale. Mentre lei si lamenta per la sorte ingiusta, il serpente sibila: “Sapevi perfettamente che ero un serpente prima di accogliermi”.

I versi facevano parte di un inno per i diritti civili degli anni sessanta, ma Trump li stava usando per uno scopo diverso: rimproverare agli statunitensi l’eccessivo lassismo sull’immigrazione. Il racconto li doveva portare a respingere l’idea che assistere i migranti fosse una questione di diritti umani, insistendo sul fatto che le persone convinte che l’accoglienza fosse un imperativo morale erano state ingannate. L’obiettivo era creare una distanza tra quelle persone e i loro istinti compassionevoli, per scatenare invece la repulsione viscerale che deriva dalla minaccia di essere fregati.

I cliché sui fessi rafforzano le solite gerarchie di classe, etnia e genere

Non sorprende che questa retorica venisse da uno come Trump. Ma dovremmo preoccuparci del fatto che la sua riformulazione delle implicazioni morali delle politiche migratorie abbia fatto così tanta presa, anche perché i presunti opportunisti – spesso migranti poverissimi, tra cui famiglie con bambini piccoli – non avevano potere politico o economico.

Quello che Trump sembrava aver capito è che la retorica del fesso fa leva su una profonda ansia da status. Se posso essere ingannato da un pari, o da qualcuno che pensavo fosse più debole di me, questo mi fa scendere di un gradino. Il timore della retrocessione sociale aiuta a spiegare la tendenza molto comune a difendersi con più attenzione da possibili abusi compiuti da estranei in difficoltà, invece che da chi ha il potere di fare del male davvero. I dipendenti che imbrogliano i datori di lavoro, o gli studenti che ingannano gli insegnanti: queste paure sono particolarmente forti perché minano la tradizionale struttura del potere.

L’ordine delle cose

Io lavoro all’università e se l’amministrazione approfittasse della mia buona volontà – per esempio, il rettore m’inserisse in troppe commissioni o mi pagasse troppo poco– sarei sicuramente frustrata, ma non umiliata. Lo sfruttamento da parte di chi ha potere è un fatto più o meno normale, non gradito ma prevedibile. Se scopro che i miei studenti sfruttano la mia benevolenza, per esempio imbrogliando nei test o mentendo per ottenere delle concessioni, allora è umiliante. Se ci tengo a non essere presa in giro, gli studenti che si approfittano di me mi fanno apparire debole e sciocca.

Questo è un esempio banale (e finto). Ma la particolare attenzione che le persone danno all’essere sfruttate da chi è più in basso di loro in una gerarchia sociale ha delle conseguenze concrete. Un modo per mantenere un gruppo di individui in una posizione subordinata è raccontare delle storie sulle loro intenzioni truffaldine, facendo leva sulla paura della malafede per giocare sull’ansia di chi detiene il potere e vuole mantenerlo. Il messaggio, più o meno sottile o palese, è: se permetti a “loro” di avere ciò che vogliono (status sociale, denaro, cittadinanza, uguaglianza) ti renderai ridicolo.

In effetti i cliché sui fessi sono una componente fondamentale nella costruzione sociale di un “loro”. Lo psicologo Jim Sidanius ha teorizzato che ogni società umana crea categorie di gruppo e si stratifica di conseguenza. Nel loro libro del 1999 Social dominance (Dominanza sociale), Sidanius e la collega Felicia Pratto scrivono che “i pregiudizi di gruppo, gli stereotipi, le ideologie di superiorità e inferiorità… contribuiscono a produrre e sono il riflesso di questa gerarchia sociale basata sul gruppo”. In parole povere, l’obiettivo della discriminazione è il potere.

Per capire come la retorica dell’inganno contribuisca all’alienazione tra gruppi, basta fare una rapida analisi delle espressioni gergali per “fregato”. Un grande numero di sinonimi ha radici nel razzismo, nell’antisemitismo, nella xenofobia o nella misoginia.

In inglese il verbo to gyp (traducibile con truffare) fa riferimento a uno stereotipo diffuso sui rom.

Secondo Sidanius e Pratto le storie che una cultura racconta su chi merita cosa sono “miti che legittimano” la dominanza sociale, che forniscono una “giustificazione morale e intellettuale” alle disuguaglianze. Di solito comprendono frasi come: queste persone non vogliono essere tue amiche; vogliono prendersi le tue cose. Oppure: non hanno bisogno del tuo aiuto; stanno solo cercando di rubarti il lavoro.

Lo studio degli stereotipi, in particolare quelli sulle donne e sui neri, suggerisce che uno dei principali “miti di legittimazione” di alcune gerarchie sociali (comprese quelle degli Stati Uniti) è che ci sia meno discriminazione di quanto i gruppi storicamente emarginati sostengano. Non sono discriminati, vogliono solo “concessioni speciali”.

Un costrutto malleabile

Gli psicologi si occupano da tempo di misurare i pregiudizi e, a partire dagli anni settanta, alcuni hanno sviluppato delle scale sugli stereotipi razziali, esaminando nello specifico l’ostilità verso il potere sociale e l’arricchimento dei neri. Gli elementi della scala di misurazione del razzismo moderno sono stati progettati per valutare al meglio il razzismo “nascosto”, non solo l’odio primordiale, ma qualcosa di più vicino al risentimento.

In parole povere, l’obiettivo della discriminazione è il potere

Le convinzioni che caratterizzano il “razzismo moderno” sono state riassunte in questo modo: la discriminazione non è più un problema per le persone nere che continuano a fare richieste eccessive per cambiare lo status quo – richieste che sono ingiuste perché i neri godono di tutti i diritti di cui hanno bisogno. Di conseguenza, l’attenzione che le persone nere ricevono dal governo e da altre istituzioni è immeritata e costituisce un “trattamento speciale”. Altri due princìpi sono: le convinzioni sopra citate sono fatti empirici e, quindi, gli individui che le difendono non sono razzisti.

In sintesi la ricerca suggerisce che una caratteristica centrale del razzismo è l’idea che, quando i neri protestano contro la discriminazione, in realtà stanno tramando per ottenere un potere “immeritato”. Da questo punto di vista, chi prende sul serio le denunce di discriminazione passa per fesso.

Narrazioni simili emergono negli studi psicologici sulla misoginia. I ricercatori hanno scoperto che la propensione alla discriminazione basata sul genere è collegata a una serie di idee sessiste, come per esempio: le donne ingigantiscono i problemi che hanno sul lavoro; con la scusa di chiedere “pari opportunità”, molte cercano in realtà protezioni speciali, come politiche di assunzione che le favoriscano rispetto agli uomini.

Questa avversione al “trattamento speciale” è una forma di pregiudizio che si basa su una reazione automatica: fiutare l’imbroglio, ripudiare gli imbroglioni. Se supponiamo che i componenti di un gruppo emarginato stiano davvero chiedendo più uguaglianza, allora la loro rivendicazione è più difficile da respingere. Su un piano etico e intuitivo, la risposta giusta alla disuguaglianza è la solidarietà e la cooperazione.

Ma se invece la percezione è che queste persone stiano chiedendo “favori speciali”, allora sembra moralmente facoltativo concedergli ciò che vogliono. E se si pensa che chiedano un trattamento speciale, e fingano di volere solo l’uguaglianza, questo appare proprio come un imbroglio, un motivo per rifiutare la loro richiesta senza pensarci due volte.

Può essere difficile cogliere la forza di questo discorso sui “favori speciali”, ma la scienza sociale che studia il sentirsi fessi aiuta a renderla più chiara. La sugrophobia ha un innesco molto sensibile e l’argomentazione del “trattamento speciale” lo fa scattare, rendendo l’avversione a sentirsi fessi un freno sottovalutato, ma molto potente, al progresso sociale.

Quando si parla della paura di farsi fregare, le truffe che vengono in mente sono quelle più eclatanti e ovvie: il caso Theranos, lo schema Ponzi o il tizio che ha “venduto” il ponte di Brooklyn. Ma gli inganni che costellano la nostra vita quotidiana sono più sfumati, più ambigui e, a volte, sono solo frutto dell’immaginazione di un politico. Spesso questo significa vedere minacce dove non ce ne sono o sospettare manovre ciniche di persone che in realtà hanno bisogno di aiuto. Quando viene evocata la minaccia di una fregatura, può essere utile a tutti domandarsi: chi ha davvero il potere in questo caso? Qual è lo status minacciato dalla storia che sto ascoltando?

Il “fesso” è un costrutto malleabile. La vita sociale è complicata e le persone tendono a credere alla narrazione più comoda o attraente su chi sia un fesso e cosa sia un imbroglio. Studiare – e anche solo nominare – la paura di farsi fregare ci permette di problematizzare l’uso di un costrutto che più è ignorato più diventa pericoloso. ◆ svb

Tess Wilkinson-Ryan insegna diritto e psicologia all’università della Pennsylvania, negli Stati Uniti. Ha scritto Fool proof (Harper Wave 2023).

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Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati