La storia comincia qui, in Puglia, la scena del crimine ricorda un paesaggio da far west: cielo azzurro, campi di grano e una piccola stazione abbandonata. Un vecchio cartello indica: San Marco in Lamis. È una mattina di aprile, e in questo angolo di campagna regna un’atmosfera particolare, simile a quella che precede un duello.

Vicino alla stazione abbandonata, il 9 agosto 2017 c’è stata una sparatoria. Sono stati trovati quattro corpi vicino ai binari invasi dall’erba alta. Due di loro sono ricordati da una stele e con dei fiori: i fratelli Aurelio e Luigi Luciani, agricoltori come ce ne sono tanti in questa zona. Gli altri due, anche loro uccisi dalle raffiche di mitra, non hanno avuto nessuna commemorazione. Ancora oggi si evita di pronunciare i loro nomi: Mario Luciano Romito, un boss, e Matteo De Palma, il cognato.

Ci si è chiesti se la strage di San Marco in Lamis, come l’hanno subito chiamata i mezzi d’informazione, fosse prevedibile. Qualche giorno prima il procuratore antimafia dell’epoca Giuseppe Volpe aveva inviato una lettera insolita alle più alte autorità dello stato. Il magistrato diceva di sentirsi abbandonato e metteva in guardia sulla “lunga scia di sangue” che minacciava di ricoprire il nord della Puglia se i clan avessero continuato a dettare legge in un clima d’impunità. Ma ormai era troppo tardi.

Quella mattina del 2017 l’imboscata era riuscita perfettamente. I sicari incappucciati avevano ucciso il boss e il cognato. Stavano andando via quando era arrivato il camioncino Fiat bianco dei due fratelli Luciani, che andavano al lavoro. Impossibile lasciare vivi dei testimoni, così i due contadini erano stati uccisi.

Quasi sei anni dopo per il quadruplo omicidio è stato condannato solo un basista. Il ricordo dei Luciani, vittime collaterali di un conflitto mafioso, è ancora vivo. Il nome di Luigi, uno dei fratelli, è rimasto sul citofono dell’appartamento di famiglia a San Marco in Lamis, a una ventina di minuti dalla stazione abbandonata.

La moglie, Arcangela Petrucci, che ha un figlio di sei anni, Antonio, ci riceve in salotto davanti a una foto del marito sorridente con un vestito elegante. Insegna filosofia ed è abituata a parlare chiaro sia davanti agli studenti sia davanti ai politici: “La mafia è entrata in casa mia il 9 agosto 2017. Il dolore è mio, ma la tragedia riguarda tutto il territorio. Per troppo tempo abbiamo fatto finta di niente. Bisogna parlare anche se a qualcuno non piacerà”.

Tredicimila processi, seimila indagini e quarantamila reati compiuti ogni anno

Petrucci racconta che è stata minacciata di morte, ma non può dire di più. Nell’estate del 2022 una decina di ettari di terreno ereditato dal marito sono stati incendiati durante la stagione della raccolta dei pomodori senza che nessuno osasse dire nulla. “Per quarant’anni questa terra è stata lasciata nelle mani di criminali”, continua Petrucci. “Qui lo stato è sostanzialmente assente e le persone sono abituate a vivere nella paura. Ma la morte di mio marito ha messo in luce una situazione invivibile. In una notte siamo passati dai delinquenti che si uccidono tra loro a una nuova mafia”.

Far sparire i cadaveri

Il controllo criminale del territorio, raccontato da Petrucci, è stato a lungo quasi sconosciuto. È una mafia senza nome, in una zona rurale dove anche i limiti geografici sono difficili da definire. Siamo intorno a Foggia, tra il massiccio del Gargano e il Tavoliere delle Puglie . Dall’estate 2017 la “scia di sangue” che tormentava il procuratore Volpe ha continuato a macchiare questa regione tra le più povere d’Italia.

L’organizzazione criminale è chiamata la quarta mafia, non per il suo livello di pericolosità rispetto alle altre tre – cosa nostra, camorra e ’ndrangheta – ma solo perché è arrivata dopo. È una mafia primitiva, spiega chi la combatte o la studia. “I comportamenti mafiosi nella provincia di Foggia ricordano quelli in Calabria negli anni ottanta o in Sicilia negli anni settanta, con reati di sangue compiuti in pieno giorno”, osserva Michele Miulli, comandante dei carabinieri della provincia di Foggia, che in passato ha lavorato in queste due regioni. “I mafiosi della provincia di Foggia apprezzano le armi pesanti, sfregiano, smembrano i corpi. Non sono semplici intimidazioni, ma azioni molto violente”.

La lupara è un’arma fondamentale nell’arsenale della quarta mafia, come quando i corleonesi terrorizzavano la Sicilia. La propensione a far sparire i cadaveri (la cosiddetta lupara bianca) ricorre spesso nelle inchieste. Corpi sciolti nell’acido o dati da mangiare ai maiali, a volte dopo aver bruciato i capelli, visto che gli animali non li apprezzano.

Risposta giudiziaria

Il mondo della quarta mafia non è quello dei consulenti fiscali e delle operazioni finanziarie internazionali. Non è ancora una di quelle “imprese mafiose” dalle ramificazioni complesse capaci di investire in tutti i continenti. Qui si uccide il nemico senza preoccuparsi se ha un neonato in braccio. Negli ultimi anni vari bambini sono stati vittime impreviste dei regolamenti di conti. Come la notte dell’11 luglio 2021 quando cinque colpi di pistola calibro 7,65 hanno ucciso un trafficante di droga che faceva parte di una famiglia criminale di San Severo e ferito gravemente all’addome il nipote di sei anni mentre festeggiavano in scooter la vittoria della nazionale agli europei di calcio.

I clan si spartiscono le stesse attività: uso illecito dei fondi dell’Unione europea, infiltrazione nel settore dei lavori pubblici o della sanità, estorsione di tangenti a commercianti e agricoltori. Ma alcune attività sono tipiche di quattro zone criminali ben definite. Cerignola, 57mila abitanti, è il feudo di gruppi specializzati negli attacchi con l’esplosivo contro i furgoni portavalori e i furti di auto, che poi sono smontate – cannibalizzate, come dicono qui – e i pezzi di ricambio rivenduti in tutta Italia. Nel Gargano prevale il traffico di droga. La marijuana è coltivata sul posto. A San Severo e a Foggia ci sono gli specialisti delle estorsioni e dei prestiti a usura, che si sono infiltrati nell’economia locale e sfruttano la microcriminalità come base per assoldare nuove reclute. Anche San Giovanni Rotondo, la città del pellegrinaggio dei seguaci di padre Pio, è controllata dei clan: secondo alcune indagini sarebbe stato il comune in cui per molto tempo è stata stoccata la cocaina.

“La quarta mafia non ha una ‘cupola’, è una sorta di struttura federativa formata da gruppi contrapposti”, spiega Paolo Iannucci, responsabile della direzione investigativa antimafia (Dia) di Foggia. “Questo è un territorio di conquista dove ogni clan cerca di guadagnare potere e nuove fonti di reddito”. Dalla fine del 2022 c’è una relativa tregua. “Si stanno riorganizzando perché molti boss sono stati arrestati e sottoposti a un regime carcerario duro”.

La risposta giudiziaria è organizzata nella procura di Foggia, un enorme edificio grigio. Alla fine di un dedalo di corridoi, protetto da uomini armati, un uomo magro con occhiali cerchiati d’oro ha il compito di coordinare le inchieste, nonostante abbia poco personale. Ludovico Vaccaro, procuratore di Foggia, comincia indicando alcune cifre: “Più di tredicimila processi in corso, più di seimila indagini, quarantamila reati compiuti ogni anno. Le prigioni sono piene e il tasso di recidiva è intorno al 70 per cento”.

La procura di Foggia, la cui competenza si estende a un circondario di 7.200 chilometri quadrati, è la più vasta in Italia. Il vicino Molise, una regione due volte più piccola e con un tasso di criminalità più basso, ha tre procure. “Questa distanza con la giustizia accentua l’impressione di solitudine dei cittadini e la forza d’intimidazione dei clan. Qui le persone non denunciano, non testimoniano”, spiega Vaccaro, impegnato in una corsa contro il tempo. “È una mafia che uccide, mette bombe, ma è ancora rudimentale. Questo mi fa sperare che si possa ancora batterla”.

L’agricoltore Lazzaro D’Auria davanti al suo deposito distrutto. San Severo, Foggia, 5 aprile 2023  (Tommaso Bonaventura per Le Monde)

Bisogna andare verso nord, costeggiare dei campi con gli impianti eolici per incontrare uno dei pochi abitanti che ha avuto il coraggio di parlare. Lazzaro D’Auria, 57 anni, statura bassa e occhiali da sole, non è un agricoltore come gli altri. Al volante del suo fuoristrada blindato va in giro per controllare la raccolta degli asparagi. Vicino alla leva del cambio ha una pistola Glock pronta all’uso. Ma in caso di aggressione D’Auria non sarebbe da solo a difendersi: è sempre seguito da un’auto di scorta con tre guardie del corpo.

La sua vita sotto minaccia è cominciata nel giugno 2017, dopo aver ricevuto la visita del boss della zona, che reclamava la sua “tassa di sovranità”, 150mila euro. Ma D’Auria si è rifiutato di pagare. Il boss lo ha picchiato e gli ha puntato una pistola alla tempia. L’agricoltore ha finto di accettare, ma il giorno dopo è andato a denunciare il suo aggressore. “Oggi per me la cosa più difficile è la burocrazia. Per le banche e le assicurazioni sono un morto che cammina. Inoltre sono penalizzato a causa del ‘rischio criminale’ che fa paura ai creditori”.

D’Auria è arrabbiato perché gli hanno di nuovo rubato un trattore da settantamila euro. Sa perfettamente come funzionano le cose: gli sarà restituito solo se accetta di ricomprarlo dai clan. Non lo farà, spiega. Anche a costo di subire altri danni, come testimonia un capannone bruciato nel 2020. “Quando ho presentato la mia denuncia ero orgoglioso. Pensavo di essere un simbolo e di convincere altri a fare la stessa cosa. Ma dopo cinque anni continuo a essere solo”.

Comune commissariato

Anche a Foggia le estorsioni sono diventate una routine. Secondo la magistratura, l’80 per cento delle attività commerciali paga il pizzo. “È meglio così, pagando sono tranquillo”, dice sottovoce un commerciante in un’intercettazione. Le vittime fanno un versamento a intervalli regolari o un unico pagamento più alto. Alcune aziende sono costrette ad assumere persone delle famiglie che tengono sotto controllo la città.

Foggia, al centro di una pianura fertile, è la sede della Società foggiana, l’organizzazione criminale locale, ramificata in diverse cellule familiari chiamate batterie. Il nome “società” s’ispira agli accordi conclusi tra i due principali clan della città per controllare un settore particolarmente attivo, le pompe funebri. Dall’inizio degli anni duemila i loro sfavillanti carri funebri attraversano Foggia. Sono i loro uomini che si occupano di vendere le bare, trasportare salme e seppellirle. Il tutto a una tariffa non negoziabile. Con una media di 120 morti al mese, per un prezzo che oscilla tra i duemila e i tremila euro, è un’attività redditizia.

Ma in questo angolo della Puglia l’infiltrazione mafiosa non si è limitata ai cimiteri. Si è diffusa nel cuore dell’amministrazione comunale, fino a farla implodere. Dall’estate 2021 a Foggia non c’è più un sindaco. La città è il quinto comune della provincia sciolto per infiltrazione mafiosa e il primo capoluogo di provincia. Nel 2012 anche Reggio Calabria aveva conosciuto una sorte simile.

Per cercare di risolvere la situazione è stato nominato un prefetto in pensione, che ora occupa temporaneamente l’ufficio del sindaco. “La nostra missione è garantire una continuità amministrativa, instaurare regole certe e rassicurare i cittadini sulla presenza dello stato”, spiega Vincenzo Cardellicchio, il prefetto nominato commissario straordinario. “Il settore degli appalti pubblici, obiettivo abituale della criminalità organizzata, è particolarmente delicato. Ma nella nostra situazione nessun settore, nessuna scelta, nessuna decisione è insignificante”. Cardellicchio cerca di garantire la gestione corrente delle attività comunali, come ha garantito l’organizzazione del gay pride e il passaggio di una tappa del Giro d’Italia di ciclismo. Ma l’obiettivo più importante è in autunno: l’organizzazione delle elezioni comunali, che segneranno la fine di questo intermezzo “tecnico” e i cui candidati, non ancora noti, saranno osservati speciali.

Il ruolo di Raffaele Cutolo

Inizialmente la storia della quarta mafia è stata scritta lontano dai palazzi e dagli intrighi politici. È nata sotto lo sguardo benevolente della camorra e della ’ndrangheta, e come padrino ha avuto Raffaele Cutolo, il boss napoletano che voleva creare delle alleanze transregionali. Alla fine degli anni settanta, quando molti affiliati della Nuova camorra organizzata fondata da Cutolo (una delle potenti fazioni destinata a sconfiggere i vecchi e divisi clan della Campania) erano in carcere in Puglia, il boss colonizzò la regione concludendo alleanze con le famiglie locali. Ma stanchi di essere considerati inferiori, i clan pugliesi non tardarono a reclamare la loro emancipazione con omicidi spettacolari. È sempre in questo contesto di indipendenza che nel 1981 è nata la Sacra corona unita, un’altra organizzazione mafiosa, divisa ma ancora oggi attiva, la cui zona d’influenza si concentra nel sud della Puglia.

Occhio per occhio, dente per dente, potrebbe essere questo il motto dei gruppi impegnati a decimare i loro avversari con agguati in discoteca o nelle strade di campagna. Sull’altopiano del Gargano le usanze sono ancora più feroci. I componenti dei clan di montagna seguono alla lettera il codice garganico: uccidere il nemico con una raffica di arma automatica in pieno volto. Sfigurando la vittima l’aggressore la “cancella”, in modo che non possa essere compianta.

Le organizzazioni criminali della provincia di Foggia convivono in un equilibrio instabile. Si rafforzano o s’indeboliscono al ritmo delle incarcerazioni, dei tradimenti, delle alleanze e dei colpi di mano. Al centro di questi interessi c’è un elenco molto prezioso, quello che indica le cifre e i nomi di chi paga il pizzo, e la gestione della “cassa comune”, istituita per aiutare le famiglie dei detenuti, sempre più numerose. Una situazione di “conflittualità endemica”, come riassume il magistrato Antonio Laronga nel suo libro Quarta mafia (Paper First 2021), un’analisi accurata dell’organizzazione criminale.

Poca collaborazione

Nei clan costruiti sui legami di sangue i pentiti sono rari. Tuttavia Rosa Di Fiore ha permesso di svelare qualche segreto. Per lei era una questione di vita o di morte. Sposata a 18 anni con il boss Pietro Tarantino, con il quale ha avuto tre figli, ha poi avuto un altro figlio con Matteo Ciaravella, nemico giurato di Tarantino, famoso per l’abitudine di bere il sangue delle sue vittime.

Una situazione impossibile da sostenere per una madre con dei figli: “programmati per uccidersi”, come ha detto la donna ai magistrati. Oggi Di Fiore vive in un’altra regione e sotto falsa identità.

Convincere dei criminali a collaborare è uno degli obiettivi dei magistrati di Foggia, decisi ad approfittare della confusione provocata dai molti arresti. Tanto più che anche a Roma le cose stanno cambiando: la quarta mafia è diventata “un’emergenza nazionale”, secondo le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Finalmente dopo il quadruplo omicidio dell’estate 2017 le lamentele del procuratore Volpe sono state ascoltate. In pochi anni sono stati creati un gruppo operativo speciale dei carabinieri e una sezione della Dia a Foggia, oltre a un distaccamento della polizia giudiziaria a San Severo. Sempre in provincia di Foggia è stata istituita la sede dei Cacciatori di Puglia, una squadra eliportata, come quella istituita in Calabria, specializzati nelle operazioni di ricerca dei latitanti.

Il teatro di questa lotta è un paesaggio di gole e boschi con quattromila grotte e cave abbandonate. Ideale per chi vuole rimanere nell’ombra o uccidere senza lasciare tracce. La caserma dei cacciatori è nell’aeroporto militare di Foggia. “Le grotte sono usate dai clan per depositare droga, armi o per nascondere i cadaveri”, spiega Antonio Trocino, ex paracadutista e responsabile di questa squadra composta da una trentina di persone, riconoscibili per i loro berretti rossi. Nel 2022 hanno arrestato 63 persone tra cui due latitanti, e controllato più di 1.500 case, rifugi e bunker sospetti.

Per la missione del giorno prendono corde, cinghie e dei caschi con torce frontali. Un’attrezzatura da speleologi completata da una pistola Beretta. Sotto l’occhio dei droni perlustrano una collina piena di fiori gialli di finocchio selvatico. Poi uno dopo l’altro scompaiono sottoterra in un’ex cava di tufo. Verificano ogni angolo – occupato solo da qualche pipistrello – per perfezionare il loro progetto di cartografia della zona, annotando cavità, sentieri e cunicoli. “È il nostro modo per contrastare la forza dei nostri avversari, ottimi conoscitori di queste campagne”, spiega Trocino. “Stiamo sviluppando anche le missioni sotto copertura e l’uso di telecamere miniaturizzate sparse nella zona, per esempio nascoste all’interno di rocce finte”.

Quando si tratta di catturare un latitante il livello di vigilanza è molto alto. “Qui non ci sono arresti tranquilli”, spiega uno dei carabinieri. “Ci aspettano con le armi in pugno. Di recente c’è stato un uomo che si è messo dietro la porta con una bottiglia molotov”. A volte l’arresto si conclude dopo un inseguimento sui tetti. Come qualche settimana fa quando un uomo è fuggito saltando da una finestra ed è stato ritrovato accucciato sul promontorio di una scogliera, incappucciato e immobile come una statua a ridosso del vuoto.

Diverse inchieste recenti mettono in evidenza dei collegamenti tra i mafiosi pugliesi e le organizzazioni criminali dei Balcani, abituate a consegnare la droga sulle coste del Gargano e nei grandi porti del Nordeuropa, importanti centri di smistamento della cocaina. I clan della provincia di Foggia hanno imparato presto e non hanno mai tagliato i ponti con le altre mafie italiane con cui hanno rapporti d’affari. “È impossibile avere un’idea precisa dei loro redditi, ma abbiamo sequestrato materiale per decine di milioni di euro. Sono quantitativi paragonabili a quelli della ’ndrangheta con cui hanno dei legami, come con la camorra o con la mafia albanese”, afferma Roberto Rossi, procuratore antimafia di Bari.

Ma questo territorio, che i clan contribuiscono a impoverire con i loro attentati e il loro controllo delle risorse finanziarie, forse non gli basta più. Pescara, tranquilla città della costa adriatica, è diventata la nuova riserva di caccia del clan Moretti-Lanza-Pellegrino, che ha trasferito lì i suoi metodi e i suoi tassi di usura superiori al 600 per cento. Ma anche il Norditalia non è al sicuro: l’ombra della quarta mafia è stata individuata in Emilia-Romagna, nella filiera viticola e nel settore immobiliare.

Fuga spettacolare

Per quanto possa essere primitiva, questa mafia ha risorse inimmaginabili. La prima dimostrazione è arrivata dal carcere di massima sicurezza di Nuoro, in Sardegna, attraverso le immagini di videosorveglianza del 24 febbraio 2023. Si vede un detenuto che si cala dal muro di cinta usando delle lenzuola annodate. Arrivato in strada si guarda intorno e scompare dallo schermo. È Marco Raduano, detto Faccia d’angelo, 39 anni, uno dei capi del Gargano. Il giorno dopo i fuochi d’artificio hanno illuminato il cielo del piccolo centro balneare di Vieste, il suo feudo.

Secondo gli investigatori incaricati di indagare su questo caso imbarazzante, sarebbe stato portato via da alcuni complici in auto. Finora neanche la mafia siciliana o quella calabrese erano riuscite a organizzare un’evasione da un carcere di massima sicurezza. Come in passato i boss siciliani, calabresi o napoletani, anche Faccia d’angelo è entrato nella lista dei latitanti più pericolosi d’Italia. Lo cercano ovunque. In particolare nelle grotte e nelle gole del Gargano. ◆ adr

Ultime notizie
Agguato al boss foggiano

◆ Il 20 maggio 2023 Salvatore Prencipe è stato ucciso a Foggia con un colpo di fucile in faccia e l’altro al torace, mentre si trovava nella sua auto. Era un componente storico della Società foggiana ed era stato al vertice del clan Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese. Nel 2015 era uscito di prigione dopo aver scontato una condanna per associazione mafiosa. Da allora si era allontanato dalla criminalità organizzata, ma secondo i magistrati forse stava rientrando nel giro e questo ha dato fastidio a qualcuno. Rai News


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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati