Alla metà degli anni ottanta, molto prima che internet e i voli low-cost rimpicciolissero il pianeta, la scrittura di viaggio andava di gran moda. Leggendari giramondo come Bruce Chatwin vendevano vagonate di libri mentre i lettori divoravano storie da tutto il pianeta, appuntate in origine su vecchi taccuini.

Erano tempi luminosi ed entusiasmanti per questo genere letterario, con gli aerei a reazione che aprivano nuovi orizzonti e viaggiatori colti che partivano con gli occhi ben aperti in cerca di avventure, incontri e storie, spesso in posti lontani, che a quell’epoca pochi potevano anche solo sognare di visitare. Partivano alla ricerca di storie da raccontare, tornavano con racconti avvincenti, che fossero le peregrinazioni di Chatwin nell’outback (il centro semidesertico dell’Australia), i vagabondaggi di Jan Morris in giro per l’Europa o le inchieste di Norman Lewis in India e nel sudest asiatico.

In quel periodo inebriante, mentre le vendite dei libri di viaggi s’impennavano, la rivista letteraria Granta astutamente pubblicò un numero dedicato alla scrittura di viaggio che raccoglieva i contributi della maggior parte delle firme già citate e di altri come Gabriel García Márquez, Paul Theroux, Colin Thubron, Saul Bellow e Martha Gellhorn. Il numero, Granta 10, curato da Bill Buford, coglieva lo spirito dell’epoca, esaltando l’apprezzamento per questa forma giornalistica: resoconti da luoghi polverosi, ben scritti da narratori armati di penna e del punto di vista distaccato di un outsider che si fa avanti.

Nella sua introduzione, Buford cercava di capire perché i lettori fossero così affascinati da queste escursioni letterarie. Suggeriva che, in un periodo di difficoltà economiche come i primi anni ottanta, “i racconti esotici potessero avere lo stesso valore dei libri e dei film usciti durante la grande depressione, perché offrivano una specie di emancipazione da poltrona”.

Agli scrittori pubblicati nel numero – che Buford aveva dovuto rintracciare con pazienza, anche perché nella maggior parte dei casi non si trovavano a casa (e all’epoca non c’era internet per contattare le persone) – era stata richiesta “la gioia pura del racconto, un’eloquenza narrativa che li collocasse, con meravigliosa ambiguità, in un punto indefinito tra finzione e realtà”.

Questa nota, come a voler precisare la veridicità delle storie raccontate, aumentava il loro fascino invece di diminuirlo. Buford era convinto che la scrittura di viaggio fosse “l’accattona dei generi letterari: attinge all’autobiografia, al reportage e, cosa ancora più importante, al romanzo. È tuttavia soprattutto un racconto narrato in prima persona, autenticato dalle esperienze vissute”.

Giubbini spiegazzati e Moleskine

Facciamo un salto in avanti di trentasette anni. È chiaro che il genere un tempo così universalmente ammirato – che ispirava i lettori e riceveva ovunque recensioni positive – non è più altrettanto in voga. Le sezioni delle librerie dedicate ai viaggi sono ormai ridotte a “scaffali larghi un metro pieni di guide turistiche e racconti di viaggio di persone famose”, osserva il ricercatore e appassionato di questo genere di scrittura Tim Hannigan. I libri di viaggio ormai faticano a farsi strada nelle pagine delle recensioni dei giornali, e sono trascurati dalle rassegne di consigli per i regali di Natale.

Cos’è successo? Perché qualcosa dev’essere successo. Nel 2011 Ben Macintyre, giornalista del quotidiano londinese The Times, si diceva convinto che la semplicità e l’accessibilità dei voli economici avessero reso obsolete le avventure dei libri di viaggio vecchia maniera. “Il mondo è, semplicemente, troppo piccolo, troppo veloce, troppo battuto per ammettere vagabondaggi così rilassati e civilizzati”, scriveva Macintyre. “Il jumbo jet ha permesso a qualsiasi viaggiatore di raggiungere velocemente e con poca spesa i quattro angoli del pianeta. Internet ha portato il mondo nelle nostre case. Non ci sono spazi nella mappa da riempire, non ci sono posti che Google Earth non abbia già visto. Le aree vuote e le città proibite sono piene di turisti e aperte a tutti”.

Sul posto che la scrittura di viaggio occupa nel panorama letterario sembra essere calato un senso di disperazione, in un’era in cui miliardi di persone hanno cominciato a pubblicare sui social network le foto dei loro viaggi poco costosi ma molto felici e in cui, come osserva Ben Macintyre, internet arriva praticamente ovunque.

Star di Instagram con i loro iPhone e migliaia di follower hanno sostituito dei corrispondenti con giubbini spiegazzati che stringevano i loro lisi taccuini Moleskine. Le webcam trasmettono in diretta immagini di cime montuose, spiagge e pianure africane. A chi serve uno scrittore di viaggio che ti racconti come sono le cose?

Naturalmente altri fattori hanno contribuito a questo declino. Nel suo libro The travel writing tribe (Hurst Publishers 2021), Hannigan evoca la sensazione che occidentali privilegiati, spesso “molto maschi, molto bianchi”, che avevano frequentato scuole costose e si presentavano in paesi stranieri per fare domande, avessero fatto un’“appropriazione culturale”. Il ricercatore statunitense Charles Sugnet arriva ad accusare i vari Chatwin e Theroux di essere “una versione elitaria di un catalogo di Banana Republic… con le valigie piene di frammenti di discorso colonialista”.

Sembra ormai aver preso piede l’impressione che praticamente nessuno abbia più il diritto di viaggiare e parlare con leggerezza di quello che ha visto. Si è chiuso un cerchio quando lo scrittore di viaggi William Atkins ha curato un recente numero di Granta, il 157, dedicato proprio a questo genere di resoconti.

Nella sua introduzione Atkins ammette che durante un viaggio nello Xinjiang, in Cina (dove si trovano i campi di “rieducazione” per il popolo perseguitato degli uiguri), “ha avvertito, non per la prima volta, il disgusto di sé, dello scrittore di viaggio europeo in visita in un luogo problematico, una figura che – messo da parte il pretesto del giornalismo – non è un corrispondente di guerra né un osservatore internazionale, ma fondamentalmente un turista con un libro in testa”.

Questo è solo un aspetto di quello che in alcuni ambienti sembra essere un totale rifiuto – o almeno una profonda sfiducia – verso la scrittura di viaggi. L’atto stesso del viaggiare solleva questioni delicate sulla sostenibilità del genere. Qualsiasi volo a lunga distanza, osserva Atkins, “può plausibilmente essere descritto come un atto di violenza” per gli effetti in termini di emissioni di gas serra.

Mentre il numero curato da Buford aveva in copertina una donna elegante e un pilota che scendono da un aereo con le valigie, in quello di Atkins gli scrittori che hanno contribuito sono stati “scoraggiati dal prendere gli aerei”. Il titolo di copertina è piuttosto esplicito: “Should we have stayed at home?” (Non era meglio se restavamo a casa?). La risposta che aleggia nell’aria è “sì”, e potrebbe significare la fine di un genere letterario.

Forse ci sono altri motivi alla base. Nel 1984 Buford evocava la “gioia pura del racconto”. Dall’affascinante descrizione di García Márquez intitolata “Guardare la pioggia in Galizia” all’eccitazione di Jonathan Raban alla vigilia del suo viaggio in barca intorno al Regno Unito, alla vivace narrazione di Chatwin di un colpo di stato in Benin, alle avventure di James Fenton in Vietnam e Cambogia, ai toccanti ricordi di Martha Gellhorn di un viaggio a Haiti, tutto il numero è attraversato dalla luce di quella “gioia”. Per scrittura di viaggio, s’intendeva lo schiudersi del mondo attraverso gli occhi di uno scribacchino di passaggio. Sì, c’era qualche elemento romanzesco e autobiografico, ma il risultato era un “racconto in prima persona” che descriveva un viaggio.

Oggi questa scrittura sembra essere andata oltre, per ragioni legate a timori sull’appropriazione culturale, sui danni all’ambiente e per il semplice fatto che a separarci da ciò che è “esotico” è solo un volo a basso costo (pandemia permettendo).

È ancora importante

Alla luce di queste riflessioni, che ne sarà della scrittura di viaggio? Paul Theroux nel libro The last train to Zona Verde (Penguin 2013), resoconto di un viaggio via terra da Città del Capo all’Angola intrapreso quando aveva ormai una settantina d’anni, ha provato a spiegare perché questi racconti hanno ancora un fascino: “Le letture e l’irrequietezza – l’insoddisfazione provata stando a casa, l’ostilità verso lo spazio chiuso e l’idea che il mondo vero fosse altrove – mi hanno reso un viaggiatore. Se internet fosse tutto quello che dicono che sia, ce ne staremmo tutti a casa e saremmo tutti magnificamente acuti. Tuttavia, con tante informazioni contraddittorie disponibili, oggi ci sono più motivi che mai per viaggiare: guardare più da vicino, scavare più in profondità, distinguere ciò che è autentico da ciò che è falso; verificare, annusare, toccare, assaggiare, sentire e a volte – cosa importantissima – sopportare le conseguenze di questa curiosità”.

La posizione di Theroux offre qualche speranza. Anche Macintyre è convinto che “l’illusione dell’onniscienza” offerta da internet renda più gratificante che mai visitare gli angoli remoti del pianeta. Dal canto suo, Atkins sostiene che “il viaggio consapevole e coscienzioso (come la scrittura che lo riguarda) va di pari passo con un’etica dell’ospitalità” e che gli scrittori di viaggio siano chiamati sempre di più a “prendere sul serio l’esperienza di sentirsi stranieri… Solo così, mentre continuiamo ad andare fuori e incontrare il mondo per com’è fatto, possiamo cominciare a immaginare un futuro equo”.

Viaggiate con consapevolezza, se volete. E chi avverte una forte propensione per questo genere di scrittura, con una penna, un taccuino e il desiderio di descrivere un viaggio, forse può ricavare indicazioni su come andare avanti guardando al passato e ai giorni meno complicati in cui la letteratura di viaggio aveva così tanto successo.

Meno introspezione, forse. Solo una bella storia raccontata con gioia. ◆ gim

Tom Chesshyre è un giornalista britannico, autore di dieci libri di viaggio. L’ultimo è Park life: around the world in 50 parks (Summersdale 2021).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1471 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati