L’Asia centrale è di nuovo in subbuglio: dopo le proteste di gennaio in Kazakistan, sfociate in scontri in cui sono morte più di duecento persone, e la rivolta di maggio nella regione del Gorno-Badakhshan, in Tagikistan, con almeno sedici morti, la popolazione è insorta anche in Uzbekistan. E, come vuole una tradizione ormai consolidata, a provocare le rivolte sono state le autorità.

Il presidente uzbeco Shavkat Mirziyoyev ha deciso di prolungare il suo mandato da cinque a sette anni. Per farlo è stato necessario modificare la costituzione con una serie di emendamenti sottoposti a un finto dibattito. Ma il motivo che ha fatto scoppiare le proteste è stato un altro. Tra gli emendamenti c’era anche l’abolizione della sovranità della regione autonoma del Karakalpakstan e del suo diritto all’indipendenza.

La regione autonoma nacque nel 1924 e per sei anni fece parte della Repubblica socialista sovietica del Kazakistan, cosa di per sé abbastanza comprensibile: i karakalpaki sono un popolo a sé ma molto simile linguisticamente e culturalmente ai kazachi. Nel 1930 il leader sovietico Iosif Stalin la rese autonoma e, dopo altri sei anni, i karakalpaki e i loro territori entrarono a far parte della Repubblica socialista sovietica dell’Uzbekistan. Il Karakalpakstan ricopre il 40 per cento del territorio dell’Uzbekistan. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica un accordo ne sancì la semiautonomia e il diritto di separarsi dall’Uzbekistan in qualsiasi momento. E anche se le relazioni tra uzbechi e karakalpaki non sono mai state idilliache, nessuno nella regione autonoma si stava preparando a invocare il diritto alla secessione.

Ai karakalpaki, quindi, i nuovi emendamenti, approvati senza minimamente chiamarli in causa, sono apparsi inaspettati e offensivi. Così il 1 luglio migliaia di cittadini sono scesi per le strade di Nukus, la capitale della repubblica autonoma. L’ultima grande rivolta popolare in Uzbekistan risale al 2005, e fu repressa con i carri armati. Anche a Nukus le manifestazioni sono sfociate in scontri con le forze speciali, causando 18 morti e 243 feriti. La polizia ha arrestato 516 persone.

Il 2 luglio Mirziyoyev ha annunciato che avrebbe ritirato gli emendamenti sulla sovranità del Karakalpakstan. Intanto le forze di sicurezza definivano l’accaduto “un tentativo di spaccare la società, d’impadronirsi degli organi di governo, di destabilizzare la situazione sociopolitica, nonché una provocazione esterna”, senza specificare quale fosse il paese provocatore.

Stato d’emergenza

Ma la vicenda non finisce con il ritiro degli emendamenti contestati. Subito dopo la dichiarazione di Mirziyoyev, in Uzbekistan è stato annunciato lo stato d’emergenza per un mese, con l’imposizione del coprifuoco, di restrizioni per entrare e uscire dal paese e del divieto di organizzare raduni di massa. Presumibilmente saranno mantenute le limitazioni a internet imposte durante gli scontri. Ma la folla, nella notte del 3 luglio, non si è dispersa e pare abbia tentato di raggiungere il parlamento locale.

La mattina dopo su internet sono comparsi video che mostravano veicoli e soldati delle forze speciali su una strada di Nukus letteralmente inondata di liquido rosso. Non è chiaro se fosse sangue ma, considerando i messaggi che nella notte hanno riempito le chat dei manifestanti, è probabile che la repressione sia avvenuta nel modo più brutale. Un mese di stato d’emergenza servirà, tra l’altro, per organizzare processi rapidi e reprimere la rivolta.

Non c’è dubbio che la protesta alla fine sarà soffocata. In ogni dittatura l’espressione pubblica del malcontento, qualunque sia la causa, è automaticamente considerata una minaccia. E gli esperti che nel 2016, dopo la morte del dittatore, Islam Karimov, avevano accolto positivamente il governo “illuminato” di Shavkat Mirziyoyev, dovranno ricredersi. Mirziyoyev aveva effettivamente aperto diversi spiragli nella vita politica del Karakalpakstan. Ma aprire spiragli non significa lasciar respirare le persone, e Mirziyoyev, essendo una creatura del sistema Karimov, ha rapidamente adottato il modello del suo predecessore.

Illusioni democratiche

Il presidente uzbeco difende fermamente gli interessi del suo paese e non permette alla Turchia o alla Russia di aumentare la loro influenza in Uzbekistan, ma è pur sempre un dittatore: la dimensione repressiva ha la meglio sul dialogo e sui tentativi di persuasione. E le illusioni sulla “democratizzazione” dell’Uzbekistan, come di qualsiasi altro paese della regione, nascono solo perché qualcuno vuole vederle, niente di più.

Tuttavia, l’esempio dei disordini a Nukus, insieme ad altre proteste nell’area, è la prova che questi regimi sono sempre più precari. Da un lato, le persone sono sempre meno disposte a sopportare umilmente qualsiasi ingiustizia nell’interesse del potere supremo. Dall’altro, tutti i dittatori stanno invecchiando rapidamente e, per questo, diventano più brutali, ma allo stesso tempo più deboli. Tentano di rinnovare le dittature, come nel caso del Turkmenistan, ma le persone coinvolte in questi processi sono il simbolo della progressiva degenerazione dei regimi repressivi.

In questo senso, guardando alla storia, la fine, o almeno la trasformazione delle dittature orientali, sembra ormai inevitabile. Quante altre rivolte, come quelle di Nukus, Almaty o del Gorno-Badakhshan, serviranno perché questo avvenga è una questione aperta. E forse sarà versato più sangue di quanto si aspettano i più pessimisti. ◆ ab

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati