A febbraio sono circolate online alcune foto satellitari di una nuova zona cuscinetto militarizzata lungo il confine egiziano con la Striscia di Gaza. Il governo del Cairo è rimasto in silenzio sulla questione per qualche giorno, poi ha dichiarato che l’area era in fase di allestimento per permettere ai camion di aiuti di entrare nel territorio palestinese assediato attraverso il valico di Rafah. Alcuni funzionari egiziani, rimasti anonimi, hanno inoltre dichiarato a vari mezzi di informazione che il governo prevedeva di contenere in quell’area fino a 150mila persone nel caso in cui i palestinesi avessero oltrepassato in massa la frontiera per fuggire dagli attacchi israeliani.

Dall’ottobre 2023 al maggio 2024 Israele ha sistematicamente spinto i palestinesi di tutta la Striscia a sud, verso Rafah, contro la frontiera fortificata con l’Egitto, dove ora sono rifugiate 1,3 milioni di persone, di cui 600mila bambini, che vivono per lo più in tende. Allo stesso tempo, Israele ha minacciato di invadere quella che era stata indicata come “zona sicura”. Nel nord di Gaza è stata distrutta la maggior parte degli edifici. Più di 35mila persone sono state uccise e si stima che diecimila siano ancora sotto le macerie. Dopo aver inizialmente bloccato cibo, acqua, carburante e attrezzature mediche, Israele ha pesantemente limitato l’accesso agli aiuti umanitari e ha più volte preso di mira luoghi e reti per la distribuzione, uccidendo le persone in quelli che i palestinesi chiamano “massacri della farina”. Così facendo, nel nord della Striscia Israele ha provocato una carestia che ora si sta diffondendo anche in altre zone.

L’ultima arteria

Dall’inizio della guerra Israele sollecita l’Egitto a permettergli di spingere le persone nel Sinai, la penisola sul lato egiziano del confine. Il Cairo ha regolarmente rifiutato di farlo, da un lato per proteggere i propri interessi – sostiene di non volere che i combattenti palestinesi attacchino Israele dal suo territorio – dall’altro per ribadire la storica posizione araba di opposizione all’espulsione dei palestinesi. Chi fugge da Gaza sa che potrebbe non riuscire a tornare mai più: molti abitanti della Striscia vengono da famiglie che nel 1948 furono costrette ad andare verso sud; per settantacinque anni hanno vissuto a pochi chilometri dalle loro case in città e villaggi che oggi si trovano in Israele.

Il 6 maggio, dopo giorni di bombardamenti su varie zone di Rafah, Israele ha ordinato alle persone nel distretto orientale di spostarsi verso nordovest, ad Al Mawasi e Khan Yunis. Poi ha lanciato un’invasione di terra, ha bombardato la via di evacuazione e ha preso il controllo del valico di confine. In pochi giorni più di centomila persone hanno abbandonato l’area, verso destinazioni che i funzionari delle Nazioni Unite ritengono prive di servizi essenziali e non sicure. Israele ha prima dichiarato che l’operazione sarebbe stata “limitata”, poi ha annunciato che l’avrebbe ampliata.

Il 12 maggio i rifornimenti per Gaza si sono fermati. Sono state bloccate anche le pochissime persone che uscivano dalla Striscia, tra cui quelle portate a curarsi negli ospedali egiziani. Nel frattempo, bande di estremisti di destra israeliani hanno attaccato la sede dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, a Gerusalemme Est, costringendola a chiudere. Rafah, ultima arteria vitale per la sopravvivenza di due milioni di palestinesi affamati e bombardati a Gaza, oggi rischia di essere distrutta.

A Rafah i soldati israeliani hanno issato la loro bandiera al posto di quelle egiziane e palestinesi. Per gli egiziani è stata un’umiliazione. Da mesi, sui social network e nei notiziari, guardano con dolore e rabbia il flusso di immagini, testimonianze e racconti di devastazione in arrivo da Gaza. Secondo tanti egiziani, il loro governo ha abbandonato i palestinesi al genocidio e alla pulizia etnica per motivi strettamente legati alle privazioni e all’impoverimento che loro stessi vivono in patria.

Nei mezzi d’informazione occidentali e nelle opinioni pubbliche, l’immagine dell’Egitto dopo la distruzione delle speranze legate alla rivoluzione del 2011 è stata per lo più quella di un’altra dittatura immobile, sostenuta dagli Stati Uniti. Il suo sistema repressivo a volte è perdonato in nome di una presunta “stabilità” o, più esplicitamente, della protezione degli “interessi nella regione”. La sua storia è diventata nebulosa, fatta di prigionieri politici, povertà e malfunzionamento dello stato. Raramente si nota il nesso tra la repressione del Cairo nei confronti dei suoi cittadini e l’occupazione israeliana della Palestina. L’alleanza tra Egitto e Israele, sostenuta da Washington, non è mai stata accettata dal popolo egiziano, che condivide con i vicini palestinesi una storia di lotta antimperialista. È sempre più evidente che la libertà delle persone che vivono da un lato del confine di Rafah è connessa a quella di chi sta dall’altro lato.

Di origine coloniale

Costruita intorno a un’oasi tra Gaza e il Sinai, Rafah è un’antica città che di recente è stata divisa in due: un lato egiziano e uno palestinese. Il confine che li separa, come gran parte dei confini nella regione, è di origine coloniale: fu tracciato nel 1906 dai britannici per dividere l’Egitto occupato dalla Palestina ottomana. Da allora, la regione ha raramente conosciuto lunghi periodi di stabilità. Dopo la Nakba, “la catastrofe”, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case in seguito alla nascita di Israele nel 1948, i rifugiati del sud della Palestina fuggirono a Gaza, che l’Egitto ha amministrato fino al 1967, quando Israele la occupò insieme al Sinai, alla Cisgiordania, a Gerusalemme Est e alle alture del Golan. La maggior parte delle 300mila persone sfollate quell’anno a causa della guerra andarono in Giordania e Libano; circa 13mila arrivarono in Egitto (prima del 1948 circa 75mila palestinesi vivevano già in città egiziane come Il Cairo e Alessandria).

Ai rifugiati palestinesi in Egitto non furono concessi i diritti di cittadinanza, una politica che il governo giustificò con il pretesto di opporsi alla loro espulsione permanente. Negli anni settanta, sotto il presidente Anwar al Sadat, ai palestinesi furono negati l’accesso alle scuole pubbliche e la possibilità di lavorare nel settore pubblico. Gli accordi di camp David del 1978 e il successivo trattato di pace con Israele fecero dell’Egitto il secondo più grande beneficiario di aiuti militari statunitensi al mondo, dopo Israele. Il trattato restituì il Sinai all’Egitto, imponendo severe restrizioni alla presenza militare nell’area.

Nei primi anni ottanta fu costruito a Rafah un muro tra Egitto e Israele, che seguiva approssimativamente la frontiera coloniale, separando intere famiglie: una parte della popolazione beduina del Sinai è di origine palestinese. Da allora il valico di Rafah è stato sottoposto a un rigido controllo, con periodi di chiusura totale a partire dal 2007, quando Hamas ha vinto le elezioni e preso il controllo del territorio. In risposta Israele ha messo Gaza sotto embargo, come forma di punizione collettiva. I rapporti economici sempre più espliciti del Cairo con Israele, e la sua collaborazione al blocco della Striscia, sono stati a lungo bersaglio della collera pubblica in Egitto, che è esplosa soprattutto in occasione delle aggressioni israeliane.

Rifugiate in una postazione palestinese vicino a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 30 gennaio 2024 (Mahmud Hams, Afp/Getty)

Nel 2013, quando il presidente Abdel Fattah al Sisi è arrivato al potere con un colpo di stato militare contro il governo eletto dei Fratelli musulmani, nel Sinai era già cominciata un’insurrezione islamista contro le forze di sicurezza. L’Egitto accusò Hamas di fornire combattenti e armi a gruppi come la Provincia del Sinai, affiliato al gruppo Stato islamico (Is), attraverso il sistema di tunnel che passava sotto il confine. Hamas smentì le accuse e represse l’attività dell’Is all’interno della Striscia. Abitanti e giornalisti hanno affermato che i tunnel erano usati principalmente per portare merci e persone a Gaza, soprattutto durante il blocco, quando Israele permetteva l’ingresso solo di minime quantità di aiuti ufficiali nel territorio. Ma niente di tutto questo aveva importanza per Il Cairo. Nel 2014 l’esercito egiziano cominciò a radere al suolo l’intero versante egiziano della città di Rafah con il pretesto della lotta al terrorismo, distruggendo più di tremila edifici, espellendo migliaia di persone e devastando suoli agricoli pregiati. Allagò i tunnel con liquami, poi con acqua salata.

Tutto questo rientrava in una più ampia campagna di demolizioni e sfollamenti dai militari nel Sinai del nord, condotta con il silenzio quasi totale sulle notizie dall’area, dato che lo stato aveva preso il controllo della maggior parte dei mezzi d’informazione. Alcune persone hanno ricevuto risarcimenti e sistemazioni alternative in altre zone. Altre stanno ancora protestando per avere il diritto di tornare alle loro case.

Prezzi alle stelle

Fino al 2023 il confine è rimasto soggetto a forti restrizioni, ma con qualche possibilità di attraversarlo. Per anni alcune società di coordinamento dei viaggi, che lavoravano con agenti da un lato e dall’altro del confine, hanno organizzato l’ingresso e l’uscita da Gaza, e viaggi più agevoli attraverso il valico di Rafah e i molti posti di blocco nel Sinai del nord. I loro servizi riducevano di diversi giorni la durata dei viaggi. Dopo l’inizio della guerra una di queste agenzie, la Ya Hala, ha rapidamente monopolizzato il giro d’affari. I suoi prezzi sono volati alle stelle: da poche centinaia di dollari a testa, a un certo punto hanno raggiunto anche dieci o undicimila dollari, per poi stabilizzarsi di recente intorno ai cinquemila. La Ya Hala appartiene a Ibrahim al Argany, imprenditore e leader tribale del Sinai che ha fornito un aiuto determinante al regime di Al Sisi nella repressione dell’insurrezione nel Sinai del nord. I suoi affari precedenti avevano compreso l’estrazione di pietre nella penisola e la ricostruzione a Gaza. Oggi controlla la logistica e il trasporto delle merci nel territorio.

Molti palestinesi hanno usato GoFundMe per raccogliere i fondi necessari a pagare le cosiddette tariffe di coordinamento chieste dalla Ya Hala, che devono essere saldate in contanti – solo banconote da cento dollari – da un parente diretto negli uffici dell’azienda al Cairo. Molti palestinesi della diaspora sono volati in Egitto per andarci. Spesso mentre aspettano il loro turno in lunghe file chiedono a un amico di restare nelle vicinanze con il denaro senza farsi notare, poi all’ingresso si scambiano le borse, per ridurre al minimo il rischio di furti.

Si stima che da ottobre siano arrivati in Egitto centomila palestinesi. A differenza della Giordania e del Libano, l’Egitto non ha campi profughi formali, anche se ospita circa nove milioni di rifugiati da diversi paesi, tra cui Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia e Yemen. I palestinesi che fuggono dalla guerra entrano con visti turistici, e devono vivere in appartamenti in affitto o in prestito mentre i loro amici e parenti coordinano il supporto abitativo ed economico. Non possono ricevere aiuti o assistenza ufficiale, iscrivere i loro figli a scuola o essere regolarmente assunti.

Tutto è reso più difficile da un’economia egiziana in declino, segnata da inflazione, svalutazione monetaria, corruzione sfrenata e da un enorme debito estero. Molte persone non possono più permettersi di comprare la carne o le uova; lo zucchero si vende in piccole quantità; per i giovani possedere un’auto o un appartamento è un sogno. Nel frattempo il governo va avanti con i suoi megaprogetti gestiti dai militari, come la nuova capitale amministrativa, e i ponti e i cavalcavia che ormai hanno frammentato e ridisegnato le città, espellendo i poveri.

Anche dopo decenni di isolamento fisico, sociale e culturale dal mondo arabo, la causa palestinese resta una potente e sensibile forza di mobilitazione. Per questo i vari governi egiziani hanno cercato di contenerla, di reprimerla o di sfruttarla per i propri fini. A ottobre Al Sisi ha chiesto agli egiziani di manifestare a sostegno della sua opposizione al trasferimento dei palestinesi nel Sinai. Ha definito quella palestinese “la madre di tutte le cause”. Ma le cose sono rapidamente sfuggite al suo controllo quando migliaia di persone sono scese in strada, rifiutandosi d’intonare cori a favore del presidente e dirigendosi verso piazza Tahrir (Liberazione), il cuore simbolico della rivoluzione che nel 2011 aveva rovesciato il dittatore precedente, Hosni Mubarak. Le forze di sicurezza hanno attaccato i manifestanti, arrestandone almeno cento. Ovviamente Al Sisi non ha convocato un’altra manifestazione.

Due settimane dopo l’inizio del Ramadan centinaia di persone si sono riunite in occasione di un iftar (il pasto che segna la rottura del digiuno al tramonto) collettivo nel quartiere operaio di Al Matariya al Cairo, dove hanno acceso fumogeni e intonato “Con la nostra anima, con il nostro sangue, ti libereremo, Palestina”, uno storico slogan della solidarietà araba che dallo scorso autunno risuona negli stadi. Sono state organizzate proteste sulla scalinata della sede del sindacato dei giornalisti, uno spazio che da tempo rappresenta l’ultima spiaggia per gli attivisti; sono risuonati cori che denunciano la complicità del governo con Israele e gli Stati Uniti e chiedono che i convogli indipendenti di aiuti e il personale medico possano attraversare il Sinai per arrivare a Rafah. Altre proteste spontanee ci sono state all’American university del Cairo, davanti all’ufficio di Un Women, l’agenzia dell’Onu che si occupa di donne e uguaglianza di genere, al ministero degli esteri, e allo stesso valico di Rafah, dove alcuni volontari hanno fatto pressioni per far entrare gli aiuti.

Non sono i grandi cortei di Londra o New York, ma queste manifestazioni sono tanto più significative per i rischi che comportano in un paese che è diventato quasi sinonimo di repressione di stato. Mentre scrivo, gli attivisti continuano a chiedere la liberazione di decine di persone incarcerate per aver disubbidito alle parole d’ordine del governo a ottobre, e dei sei giovani arrestati il 2 maggio ad Alessandria per aver appeso uno striscione a favore della Palestina. In Egitto il sistema di detenzione preventiva e le pesanti condanne per attività politica sono costati a molti attivisti, giornalisti e ricercatori anni di vita, se non peggio.

Gli egiziani rendono più evidente la loro solidarietà con la Palestina con le scelte economiche: hanno boicottato tutti i prodotti che hanno qualcosa a che fare con Israele o gli Stati Uniti. A ottobre un punto vendita McDonald’s in Israele aveva mandato pasti gratuiti all’esercito. Subito dopo gli utili della catena nella regione sono crollati drasticamente al punto che ad aprile la multinazionale statunitense ha ripreso il controllo diretto dei ristoranti in Israele. I negozi di Starbucks al Cairo sono vuoti da mesi e le alternative locali ai prodotti della Coca-Cola sono diventate molto popolari.

Ultime notizie

◆ Il 29 maggio 2024 l’esercito israeliano ha preso il controllo di una zona cuscinetto strategica al confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, vicino a Rafah, lunga quattordici chilometri, il cui nome in codice è Philadelphi route. Secondo l’esercito israeliano Hamas faceva entrare armi nella Striscia attraverso questo passaggio.

◆Il valico al confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, fondamentale per la consegna degli aiuti umanitari, è chiuso da quando l’esercito israeliano ne ha preso il controllo il 7 maggio.

◆Nonostante l’indignazione internazionale suscitata dal bombardamento di un centro per sfollati vicino a Rafah il 26 maggio, in cui sono morte almeno quarantacinque persone, l’esercito israeliano continua la sua operazione di terra nella grande città del sud della Striscia. Afp


Al centro dell’attenzione

La crisi di Gaza è arrivata in un momento di particolare difficoltà per l’Egitto. A febbraio, in una disperata ricerca di valuta estera per bilanciare le sue riserve, il governo egiziano ha firmato un accordo da 35 miliardi di dollari con gli Emirati Arabi Uniti per costruire una nuova città sulla costa mediterranea, a Ras el Hikma. L’iniziativa è ampiamente considerata parte di uno schema in cui il regime stringe accordi lucrativi che pregiudicano i diritti e l’accesso alla terra dei suoi cittadini. Un video molto condiviso di una manifestazione per la Palestina a marzo mostra una donna che canta: “Hanno venduto il nostro paese in cambio di dollari”.

La rinnovata importanza della posizione dell’Egitto come mediatore tra Israele e Hamas ha contribuito a sbloccare più finanziamenti stranieri.

L’anno scorso erano stati congelati i pagamenti e le revisioni per un prestito del Fondo monetario internazionale (Fmi), che imponeva flessibilità dei tassi di cambio e altre tipiche condizioni neoliberiste; a marzo di quest’anno l’Fmi ha ripreso i pagamenti e ha aumentato da tre a otto miliardi di dollari l’importo del prestito, affermando che l’accordo per Ras el Hikma avrebbe alleviato in parte le pressioni sui finanziamenti.

Anche l’Unione europea sta versando all’Egitto la somma senza precedenti di otto miliardi di dollari, in cambio dell’impegno del Cairo a tenere i migranti lontani dalle sue coste. L’Egitto si trova su alcune traiettorie cruciali per i viaggi e il commercio, alcune delle quali oggi sono diventate rotte migratorie per le persone in fuga da Libia, Sudan, Africa orientale e altre zone del Nordafrica. Dal 2021 gli egiziani rappresentano una quota notevole dei migranti che rischiano la vita per attraversare il mare diretti in Europa.

Insieme a Gaza, è finito al centro dell’attenzione pubblica anche il territorio più marginale dell’Egitto: il Sinai. E Rafah, il suo passaggio verso la Palestina. Nonostante la bellicosità di Israele, è una sensazione diffusa che l’Egitto avrebbe potuto fare molto di più per i palestinesi negli ultimi sette mesi. Avrebbe potuto usare la sua influenza sugli Stati Uniti per fare pressioni su Israele e facilitare il passaggio degli aiuti al confine. Avrebbe potuto far uscire da Gaza più persone che avevano bisogno di cure mediche e avrebbe potuto trattarle meglio al loro arrivo.

Oggi gli egiziani provano soprattutto un senso di vergogna e fallimento per la risposta del loro paese alla situazione in Palestina, in particolare per i prezzi esorbitanti chiesti ai rifugiati dalla agenzia Ya Hala, che in molti considerano parte di un sistema più ampio di sfruttamento operato dal regime e dalle persone a lui connesse. La vergogna è un sentimento politico volatile. Può essere intima e paralizzarci, o rivolta verso l’esterno, dove può trasformarsi in rabbia. E cambiamento. ◆ fdl

Yasmin el Rifae è scrittrice ed editor. È tra le ideatrici del Festival palestinese della letteratura. Vive tra Il Cairo e Londra.

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Questo articolo è uscito sul numero 1566 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati