Il piano per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza proposto dal presidente statunitense Joe Biden il 31 maggio deve ancora essere approvato. Hamas vuole garanzie, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è schiacciato tra le pressioni dei familiari degli ostaggi, che chiedono di accettare il piano, e quelle dei suoi alleati estremisti, che minacciano di far cadere il governo se metterà fine alla guerra. Intanto prosegue l’offensiva lanciata il 7 maggio dall’esercito israeliano su Rafah e secondo le Nazioni Unite quasi un milione di palestinesi sono fuggiti dalla città al confine con l’Egitto.

Le tensioni restano alte anche su altri fronti. Gli scontri tra l’esercito israeliano e i miliziani di Hezbollah alla frontiera libanese si sono intensificati negli ultimi giorni e hanno provocato incendi da una parte e dall’altra del confine. Nella Cisgiordania occupata l’ong Acled ha registrato 1.12o incidenti violenti dal 7 ottobre, che hanno coinvolto le forze israeliane e gruppi armati palestinesi. Secondo l’Autorità nazionale palestinese nello stesso periodo 523 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dai soldati o dai coloni israeliani.

Mentre il piano diplomatico, quello politico e quello militare seguono i loro binari, la guerra a Gaza e la situazione in Palestina trovano spazio ed espressione nel mondo dell’arte. E sono arrivate anche alla Biennale di Venezia. Nella sua sezione internazionale, l’evento ospita due artiste palestinesi: Samia Halaby, nata a Gerusalemme nel 1936 e residente negli Stati Uniti dal 1951, e Dana Awartani, nata nel 1987 a Jedda, in Arabia Saudita, da una famiglia palestinese. Ma i riferimenti alla Palestina abbondano, racconta la rivista di settore The Art Newspaper.

Una delle prime opere che si trovano all’ingresso dell’Arsenale è Rage is a machine in times of senselessness dell’artista messicana Frieda Toranzo Jaeger. Un dettaglio rappresenta otto cocomeri, usati come simbolo di resistenza palestinese perché hanno gli stessi colori della bandiera – rosso, nero, verde e bianco – la cui esposizione fu vietata dal governo israeliano dopo la guerra dei sei giorni nel 1967. Su una fetta c’è scritto: “Viva Palestina”, mentre su un cuore ricamato sul retro della tela ci sono le parole: “Cuori uniti contro il genocidio”.

La carrellata continua con Disobedience archives di Marco Scotini, una serie di 39 video che riguardano l’arte e l’azione politica. Tra questi si vedono le scene del documentario del 2022 Notes on displacement del regista palestinese Khaled Jarrar, che segue il viaggio di una famiglia siriana in fuga da Damasco verso la Germania. La matriarca, Nadira, è una palestinese diventata rifugiata a dodici anni. Poco distante nella performance di marionette dell’artista peruviana Daniela Ortiz compare una bandiera palestinese con scritto: “Boicotta il padiglione israeliano, Palestina libera!”.

La serie di video di Bouchra Khalil The mapping journey project illustra i percorsi seguiti dalle persone costrette ad attraversare le frontiere. In uno di questi un palestinese traccia su una mappa la strada contorta che deve percorrere per andare da Ramallah a Gerusalemme Est evitando i checkpoint israeliani. Infine nel padiglione spagnolo l’artista peruviana Sandra Gamarra paragona il trattamento della Palestina alla discriminazione nei confronti delle persone transgender.

Ci sono poi due mostre laterali dedicate alla Palestina, che hanno la stessa durata della Biennale (dal 20 aprile al 24 novembre). South West Bank è esposta alla Magazzino gallery e raccoglie le opere di una ventina di artisti della Cisgiordania o che hanno lavorato nella zona. È organizzata da Artists and allies of Hebron, un’iniziativa fondata dall’artista sudafricano Adam Broomberg e dall’attivista palestinese Isso Amro, insieme a Dar Jacir for art and research, uno spazio artistico creato da Emily, Annemarie e Yusuf Nasri Jacir nella loro casa di famiglia dell’ottocento a Betlemme.

Il primo lavoro in mostra è il videoblog Ardawa (bonifica, in arabo) dell’attivista, educatore, designer e permacultore Mohammed Saleh, che mostra l’esercito israeliano dare alle fiamme l’orto urbano realizzato insieme ai bambini di Betlemme. Tra le altre cose ci sono anche il film Incontro tra la pizzica e la dabka, di Emily Jacir e Andrea De Siena, sull’esplorazione delle tradizioni di danza e agricoltura comuni tra il sud della Cisgiordania e il sud dell’Italia, e le fotografie degli ulivi, simboli della resistenza palestinese regolarmente distrutti e rubati dagli israeliani, che fanno parte del progetto Anchor in the landscape dell’artista Adam Broomberg e dell’attivista Rafael González sulla protezione degli alberi.

La rassegna Foreigners in their homeland: occupation, apartheid, genocide (Stranieri nella loro terra: occupazione, apartheid, genocidio) riprende il tema della Biennale, Foreigners everywhere (Stranieri ovunque). È stata rifiutata dall’evento principale ed è organizzata dal Palestine museum Us a palazzo Mora. Mette in mostra le opere di 26 artisti palestinesi, provenienti dalla Palestina e dalla diaspora, due dei quali sono di Gaza e vivono nelle tende a Rafah. Al centro ci sono i temi dell’identità palestinese e del patrimonio e della memoria collettivi.

Su Middle East Monitor Naima Morelli descrive l’opera I’m still alive dell’artista di Gaza Maisara Baroud: una serie di illustrazioni in bianco e nero su una carta traslucida appese davanti a una grande finestra, ognuna delle quali rappresenta corpi contorti e ripiegati su loro stessi che cercano di fuggire dalla pagina e sullo sfondo macerie, palazzi bombardati e un cielo scuro con una luna solitaria. “Una forte metafora”, commenta Morelli: “Tra l’osservatore nella stanza e la realtà fuori c’è un filtro fatto di immagini di Gaza, che anche il più gioioso visitatore della Biennale venuto solo per gli aperitivi sui canali e le feste nelle fondazioni deve riconoscere”. Samia Halaby espone un’opera anche in questa mostra, s’intitola Massacre of the innocents in Gaza e raffigura attraverso pennellate ocra, grigie, nere, rosse e rosa la tragedia in corso nel territorio palestinese.

Infine fino al 14 giugno alla galleria Roberto Ferruzzi sono esposti i dipinti di Malak Mattar, nata e cresciuta a Gaza, che ha lasciato il 6 ottobre per andare a frequentare un master in arte a Londra. Il giorno dopo tutto è cambiato. Mattar, che ha ventiquattro anni, ha passato mesi a tormentarsi per il destino dei suoi cari e anche la sua arte ne ha risentito. Come ha raccontato ad Al Jazeera, quando è riuscita a rimettersi al lavoro e ha ripreso in mano i pennelli si è accorta che l’arcobaleno di colori che ha sempre caratterizzato i suoi disegni non aveva più senso per lei: “Il mondo ha consumato i miei colori”.

La sua opera più impressionante è No words, una tela alta due metri e larga quattro e mezzo, che l’artista ha realizzato in un mese, tra gennaio e febbraio. Al centro c’è un cavallo con un’espressione inquietante, che traina un carretto guidato da un ragazzo spaventato, su cui sono accatastati alcuni oggetti sormontati da un corpo avvolto in un sudario. Tutto intorno si vedono scene di morte e distruzione: corpi sotto le macerie, resti umani, auto demolite.

I riferimenti sono molti, da Handala – il personaggio che raffigura un bambino girato di spalle creato dall’artista palestinese Naji al Ali e diventato un simbolo della lotta per la liberazione della Palestina – all’importanza degli animali nella cultura locale. Come ha spiegato Mattar al sito The Markaz, a Gaza “c’è sempre stata una cultura dei cavalli”, usati come mezzo di trasporto. L’espressione del cavallo ha quindi un “duplice potere”: trasmette l’orrore per quello che c’è intorno – “un orrore animale senza parole” – e riflette la cancellazione della cultura di Gaza. Allo stesso tempo però il cavallo resta un “emblema di potere”, ha sottolineato l’artista in un’altra intervista a The National: “Questo è quello che penso di Gaza. Sì, è stato terribile negli ultimi mesi e sì, hanno distrutto tutti i nostri archivi e ogni pezzo di storia. Ma sarà sempre un luogo di resilienza, potere e sopravvivenza”. Malak Mattar sarà presente al festival di Internazionale a Ferrara il 4, 5 e 6 ottobre.

La Palestina non ha mai avuto un padiglione alla Biennale, perché l’Italia non riconosce lo stato palestinese. Ha solo partecipato due volte a eventi laterali, nel 2009 e nel 2022. Il padiglione israeliano invece è ancora chiuso, dopo la decisione dell’artista Ruth Patir e delle curatrici di non aprire fino a quando “sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi”. In un altro articolo The National si chiede se le mostre laterali siano uno “sforzo sincero della Biennale di ammettere le sue colpe e includere i palestinesi nell’evento ufficiale o semplicemente un veloce assemblaggio pensato per aggirare le polemiche”. Secondo l’ufficio di statistica e il ministero della cultura palestinesi, dall’inizio dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza sono stati uccisi 45 scrittori, artiste e attivisti per il patrimonio culturale.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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