02 febbraio 2006 00:00

Non era difficile capire che la persona al telefono era un giovane soldato. Mi è bastato ascoltare la sua voce seria e ricordarmi che giorno era: venerdì mattina. Da sette mesi ogni venerdì pubblico qualche testimonianza sull’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. Questa volta l’articolo mi aveva messo a dura prova per la sua crudezza.

Ho pubblicato quasi per intero la dichiarazione giurata di Zeinat Samoani, una donna palestinese che mi ha raccontato come i soldati hanno ucciso suo marito Atiye, 46 anni, e suo figlio Ahmed, 4 anni, davanti al resto della famiglia (due mogli e 15 figli). L’articolo non ha suscitato le reazioni che speravo, e questo mi ha profondamente deluso.

La prima telefonata è arrivata quando ancora pensavo che ne sarebbero seguite altre.

L’uomo ha detto di chiamarsi Uri. “La mia famiglia è abbonata ad Ha’aretz da molti anni”, ha esordito cordialmente, “e volevo farle sapere che mi addolora leggere quello che lei scrive del nostro esercito”. Speravo che Uri volesse condividere con me le sue esperienze, ma mi sbagliavo. “Lei danneggia i nostri soldati”, ha proseguito, “che combattono per il nostro paese e non meritano di essere descritti come creature assetate di sangue”. Mi sono permessa di correggerlo: “Io scrivo delle politiche del governo israeliano e dell’uso che questo fa dei giovani soldati”.

Siamo riusciti a mantenere toni civili. Lui ha protestato perché pubblicavo i miei articoli il venerdì (prima del sacro Shabbat) e mi ha detto di essere un ebreo ortodosso, “vicino ai religiosi e ai coloni che lei odia” (ho precisato che non odio i religiosi e che, anzi, ne conosco molti che si oppongono all’occupazione). Poi mi ha detto di non credere a quello che i palestinesi mi hanno raccontato: “I soldati israeliani sono molto giovani. Vengono mandati al fronte quando hanno appena finito le superiori. La guerra li rende selvaggi. Sanno di avere davanti dei terroristi e non possono mostrare compassione”.

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