10 settembre 2015 09:51

Non è semplice districarsi tra i cambiamenti introdotti dalla riforma della scuola, alcuni dei quali sono stati molto criticati. I non addetti ai lavori possono faticare a capire perché si parla di deportazioni, cos’è un organico rafforzato, quali sono le preoccupazioni dei professori. Ecco una breve guida.

Assunzioni, stabilizzazioni, graduatorie a esaurimento, deportazioni

Con l’approvazione della Buona scuola, solo in pochi casi si può definire “assunzione” la firma di un contratto a tempo indeterminato per i docenti della scuola statale.

Tra i vincitori e gli idonei del concorso voluto dall’ex ministro Profumo – i quali a norma di legge avrebbero già dovuto essere assunti grazie al bando di concorso, che per l’appunto aveva una validità biennale – nella scuola statale ci sono alcuni laureati non ancora abilitati e senza esperienza lavorativa, ma anche docenti già dipendenti di istituti paritari. Tutti questi sono stati tecnicamente “assunti”, o lo saranno nei prossimi mesi.

La parola assunzione sembra quasi esigere una manifestazione di gratitudine

Tuttavia, una parte consistente dei vincitori di concorso era già iscritta nelle graduatorie a esaurimento provinciali (Gae): si tratta cioè di insegnanti già attivi da diversi anni nelle nostre scuole, con incarichi annuali per lo più interrotti a fine giugno e rinnovati a settembre.

Per questi, come per l’altra metà degli aventi diritto al contratto a tempo indeterminato – i cosiddetti precari storici – sarebbe giusto parlare invece di “stabilizzazioni”.

Con una recente sentenza, la corte di giustizia europea ha evidenziato l’illegittimità del sistema fin qui adottato dai governi che si sono succeduti negli scorsi anni in merito all’utilizzo del personale precario.

Come in un gioco di prestigio, l’uso sistematico del sostantivo “assunzioni” prova a occultare la sostanza dei processi reali, per nascondere molti errori passati nella gestione dei meccanismi di reclutamento, e per dare forza a un atto amministrativo di fatto obbligato.

Tuttavia, è proprio questa sostituzione terminologica a rendere equivoci i passaggi più controversi della riforma. Un’assunzione può essere facilmente associata all’offerta di un’opportunità, di un posto di lavoro. Sembra quasi esigere una manifestazione di gratitudine.

Ed è per questo che a occhi esterni diventa incomprensibile il rifiuto, da parte di alcuni docenti interessati, di certe destinazioni lavorative molto lontane dal proprio territorio, come se rispondessero no a caval donato, addirittura parlando di “deportazioni”. Sicuramente un’espressione troppo forte, anche perché il ministero sta tentando di ovviare al problema anteponendo l’assegnazione degli incarichi annuali e annunciando un piano di mobilità straordinaria.

Tuttavia il disagio è reale, e se usassimo il verbo stabilizzare si renderebbe meglio la necessità di sanare una ferita, di rimediare in qualche modo al danno procurato a insegnanti con anni di lunghissimo precariato alle spalle.

Le fasi zero, a, b, c, organico dell’autonomia, chiamata diretta da parte dei dirigenti

Il piano di immissioni in ruolo predisposto dal governo è stato articolato in quattro fasi, tra le quali non è semplicissimo districarsi per chi è poco avvezzo alla pluristratificata amministrazione della scuola italiana.

La stessa indicazione sequenziale appare misteriosa. La prima fase è stata definita da qualcuno fase zero, tanto per complicare le cose.

Si tratta in realtà di una copertura del normale ricambio su cattedre lasciate da professori che vanno in pensione. Sono coinvolti per metà i vincitori di concorso del 2012, ma anche addirittura quelli ancora da smaltire dei concorsi 1990 e 1999, e per l’altra metà i precari storici collocati in cima alle graduatorie a esaurimento.

Con una prima convocazione, sono stati così assegnati i primi “ruoli” seguendo il sistema tradizionale.

A stretto giro è partita la cosiddetta fase A, in cui si assegnavano le cattedre rimaste dalla fase zero, seguendo il medesimo criterio utilizzato in precedenza, ma escludendo – questa volta – i vincitori dei vecchi concorsi. Fatta salva questa differenza, le prime due fasi possono essere concettualmente accorpate come normale amministrazione, una semplice copertura dei pensionamenti.

Passata l’estate, è partita la fase B, molto più complessa, che costituisce l’avvio del piano straordinario di assunzioni/stabilizzazioni. Anche qui i posti a disposizione sono quelli rimasti dalle fasi precedenti con l’aggiunta di alcune cattedre complete – per intenderci, quelle che negli anni passati si assegnavano tradizionalmente ai precari, con durata dell’intero anno scolastico.

La differenza è che con questa fase cambia completamente il meccanismo di convocazione. Stavolta sono i lavoratori a presentare una domanda di assunzione, accettando di lasciarsi alle spalle le vecchie graduatorie, e di mettere la propria storia al servizio dell’algoritmo informatico che ha destinato ciascuno nella sede in cui le cattedre sono state individuate dal ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con possibile destinazione in qualunque provincia italiana.

Questa è stata finora interpretata come la fase più critica della riforma, perché oltrepassa la dimensione provinciale delle graduatorie a esaurimento e quella regionale del concorso, proponendo a lavoratori anche di 40/50 anni di cambiare vita, oppure di rinunciare per sempre a tutte le posizioni precedentemente maturate in graduatoria.

In ultimo, la fase C, che è la vera novità della riforma Renzi. Quelli che saranno assunti con questa procedura, non copriranno cattedre tradizionali, ma saranno reclutati per comporre il cosiddetto organico potenziato o “dell’autonomia”, restando cioè a disposizione di reti di scuole per un periodo indeterminato. Non si sa con quali funzioni e con quale efficacia.

Naturalmente sembrerebbe una buona opportunità per stabilizzare i precari, che però favorisce al tempo stesso l’introduzione di alcuni meccanismi molto criticati, come l’autonomia dei dirigenti nel chiamare i docenti. Con esiti ovviamente problematici, come l’impiego di insegnanti su discipline nelle quali non sono specializzati o addirittura in funzioni non legate alla didattica tradizionale.

Autonomia, privatizzazione, albi territoriali

Uno dei cavalli di battaglia della Buona scuola approvata nel 2015 è l’idea di un rafforzamento dell’autonomia scolastica. In effetti, leggendo il provvedimento, si inseriscono alcune novità strutturali nelle possibilità di gestione da parte dei dirigenti scolastici. Citiamone alcune: i capi d’istituto dovranno decidere il monte ore complessivo da assegnare a ciascuna disciplina, potendo così aumentarne o diminuirne l’impatto formativo.

Non è ancora chiaro se e quale livello di condivisione collegiale potrà esserci su questo, perché anche gli organi decisionali o consultivi attualmente previsti nella scuola italiana, saranno oggetto di revisione.

Ciò che appare comunque evidente è che si voglia assegnare ai dirigenti una maggiore responsabilità decisionale, che riguarda per esempio l’aumento del tempo-scuola, sollecitando aperture pomeridiane o anche estive, magari con il coinvolgimento di associazioni o altre realtà presenti sul territorio.

Qualcuno ha paventato su questo la possibilità di privatizzazione degli spazi scolastici dati in prestito a strutture esterne con finalità culturali o ricreative, ma anche di lucro.

Dovrebbe essere data anche maggiore responsabilità ai dirigenti per valutare chi lavora a scuola, il cosiddetto organico dell’autonomia che, oltre ai docenti inseriti negli albi territoriali al fine di potenziare l’offerta formativa (reclutati dai dirigenti scolastici con un sistema di chiamata ancora da mettere a fuoco), include il personale di diritto dell’istituzione scolastica, i collaboratori del dirigente, e altre figure impegnate in attività di progettazione e coordinamento.

Come potrà il dirigente esercitare un controllo sulla qualità del lavoro svolto dal suo organico? Con l’aiuto del cosiddetto comitato di valutazione, nel quale entrano a far parte anche rappresentanze di genitori e studenti, che tra i loro compiti avranno anche quello di decidere se assegnare premi di stipendio.

Comitati di valutazione, premi in busta paga

Proprio in questi giorni nelle scuole si stanno svolgendo i primi collegi docenti. E appunto uno dei compiti che gli ha affidato la Buona scuola è quello di individuare i criteri e scegliere i docenti da inserire nei comitati di valutazione – comitati che saranno composti da tre docenti, due rappresentanti dei genitori (ma di un rappresentante degli studenti e un rappresentante dei genitori nella secondaria superiore), un componente esterno individuato dall’ufficio scolastico regionale tra docenti, dirigenti scolastici e dirigenti tecnici.

Cosa dovranno valutare questi comitati? La qualità dell’insegnamento, il successo formativo e scolastico degli studenti; le performance dei docenti riguardanti “la innovazione didattica, la ricerca, la diffusione di buone pratiche didattiche”.

Molti docenti in questi giorni hanno deciso di boicottare i comitati di valutazione. La riunione dei docenti contro la Buona scuola che si è svolta a Bologna il 7 settembre ha difeso questa protesta e lanciato l’idea di un comitato di valutazione esterno.

Si dice che i docenti siano refrattari alla valutazione, ma questo non è vero. Molti docenti sono contrari a questo tipo di valutazione, la quale – con il pretesto di premiare i migliori – rischia di rendere aziendale la gestione del personale scolastico.

Non è difficile comprendere che elargire premi di stipendio può rischiare di condizionare pesantemente quell’istituto fondamentale della nostra scuola che è la libertà del docente.

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