25 maggio 2023 10:39

La grande forza di Tina Turner, morta in Svizzera il 24 maggio a 83 anni, è stata quella di essersi reimpossessata, a metà della sua vita, della propria storia. Se oggi siamo abituati alle celebrità che raccontano senza vergogna dolori e abusi passati è perché Tina Turner, nella sua autobiografia del 1986, Io, Tina. La storia della mia vita, aveva aperto quella strada. Dopo aver ritrovato un successo che sembrava esserle irrimediabilmente sfuggito dalle mani, la cantante ha trasformato la propria vicenda personale di dolore, disciplina e redenzione attraverso la conversione al buddismo in un bestseller del New York Times, in un biopic con Angela Bassett e, molto più tardi, in un musical di Broadway.

Tina Turner, dal 1986 fino alla morte, è diventata un monumento vivente a se stessa e alla sua storia: un sorriso smagliante nonostante le avversità, una bellezza indistruttibile nonostante l’età e lussuose dimore tra la Svizzera e la Costa Azzurra, simboli tangibili del successo ritrovato. Però quella che è stata la sua più grande intuizione e la più grande forza ha rischiato di mettere in secondo piano la cantante, l’interprete, la musicista e l’innovatrice che è stata Tina Turner. Perché un artista è molto di più della sua biografia.

Più che un’artista Tina Turner è un genere musicale. Un genere che poteva praticare solo lei: chiunque altro ci provasse finiva irrimediabilmente per sembrare una goffa caricatura. È stata la performer che nella storia è stata più imitata dalle drag queen proprio per questa sua unicità: l’unico modo per poter aspirare a essere lei era quello di esagerarne ogni manierismo fino a farlo esplodere in una farsa. Solo la vera Tina Turner era in grado di camminare in equilibrio su quel filo, perché a sostenere la sua esplosiva immagine in scena c’era una musicista con un’idea molto precisa di cosa fosse una canzone e di come andasse affrontata.

Sheena, regina della giungla
Tina Turner, che era nata in una comunità rurale del Tennessee nel 1939, ha cominciato a cantare molto presto. In chiesa, ovviamente; ma essendo del sud intorno a lei c’era anche molta musica country e bluegrass. Gospel e country erano le due radici dal cui innesto è nato il rock ’n’ roll, e Tina era lì dal primo giorno. La piccola Ann Mae Bullock (questo era il suo vero nome) era stata abbandonata dai genitori e cresciuta da una nonna che morì presto. La musica quindi era l’unica cosa che potesse darle un posto al mondo e l’applauso che riceveva quando cantava era il surrogato di un amore che non aveva mai ricevuto. Quello dell’abbandono, e della crescita in una “broken home”, una famiglia spezzata, è un tema che ricorre nell’infanzia di molte superstar afroamericane: è stata la storia di Billie Holiday, di James Brown e anche di Prince.

Nei primi anni sessanta Tina Turner era l’anti-Diana Ross: non voleva essere pop, voleva essere rock

Tina Turner è nata artisticamente nel 1960 quando il marito Ike ha dovuto ammettere che la giovane moglie era una front woman nata e l’ha resa la solista del suo gruppo che ancora si chiamava Ike Turner and the kings of rhythm. Non era contento di darle un ruolo da protagonista e anche più avanti, quando il gruppo era diventato The Ike & Tina Turner Revue, Tina era sempre tenuta a muoversi in sincrono con altre due coriste e ballerine, le Ikettes.

Ike poteva essere il cervello, l’ingegnere di quel ruvido rock’n’soul, ma Tina, anche se costretta tra due coriste, era lo show. Il nome Tina Turner era nato sul palcoscenico da un’idea di Ike. Secondo lui Tina faceva rima con Sheena la regina della giungla, la protagonista di un popolare fumetto, un po’ donna Tarzan e un po’ pin up anni cinquanta. E lei in scena giocava con quell’idea di esotismo sexy: sapeva di essere troppo nera per giocarsi, in quegli anni, la carta della diva sofisticata, quindi accentuava volutamente certi tratti del suo aspetto e delle sue movenze. Le gonne strappate anche prima che andassero le minigonne, quelle gambe chilometriche e muscolose e quel modo di ballare, di andare quasi in squat completo per poi rialzarsi di scatto e dondolarsi sui tacchi altissimi, erano tutti tratti che la rendevano unica. E inequivocabilmente nera.

Nei primi anni sessanta Tina Turner era l’anti-Diana Ross: non voleva essere pop, voleva essere rock; non poteva aspirare a essere la principessina modello della nascente borghesia nera, poteva essere solo un’outsider del rhythm and blues. Soprattutto non voleva essere Dorothy del Mago di Oz ma Sheena la regina della giungla, una fantasia proibita, mai la mogliettina ma sempre e solo, come cantava Nina Simone, “the other woman”.

Tina Turner, anche dopo essersi liberata del marito e aver ricominciato da zero la sua carriera negli anni ottanta, è rimasta fedele a quel personaggio. Anzi se l’è ripreso accentuandone certe caratteristiche: la chioma leonina (che è sempre stata una parrucca), le calze a rete smagliate, quell’aria di essere appena uscita da una notte in carcere (anche quando era sul tappeto rosso dei Grammy awards) e quel sapiente caracollare sui tacchi a spillo. Tina ha anche mantenuto, fino agli ultimi concerti, la struttura delle Ikettes: lei sempre circondata da due coriste ballerine che scomparivano nelle ballad, quando il riflettore era tutto per lei.

Il personaggio sulla scena però è sempre stato sostenuto da una musicista che aveva il dono assoluto di fare sue le canzoni. Un primo saggio di come la sua personalità d’interprete fosse dirompente è arrivato nel 1966, quando con il produttore Phil Spector, Ike e Tina Turner incisero River deep – Mountain high. Spector era già famoso per il suo wall of sound, un suono particolarmente massiccio, perfetto per le radio ma che metteva in difficoltà le cantanti pop con cui lavorava, da Darlene Love alla moglie Ronnie.

Trovandosi davanti Tina Turner, Spector ha reso ancora più enorme il suo muro del suono, quasi volendo entrare in competizione con lei. River deep – Mountain high è la sua produzione più rumorosa, difficile e ambiziosa, e Tina Turner non solo ha domato la canzone ma l’ha fatta sua per sempre. Spector era notoriamente misogino e sadico: le fece cantare il pezzo in studio più di cinquecento volte e lei ricorda che, a metà sessione, era talmente sudata che ha dovuto cantare con solo il reggiseno addosso. Il pezzo fu un successo in Europa ma un fiasco negli Stati Uniti, tanto che Phil Spector si allontanò per anni dalla musica. Tina Turner era stata talmente competitiva, talmente concentrata e motivata da mettere temporaneamente fuori gioco un produttore-padrone come lui.

Soprattutto Tina Turner, la cantante Tina Turner, aveva una capacità di adattamento prodigiosa: capiva la musica come poche altre interpreti, proprio perché fin da bambina si destreggiava tra blues, soul, gospel e country e ne conosceva ogni sfumatura di senso e di ritmo. Quando nel 1970, il suono di Ike e Tina si è spostato più verso il rock (i due album di quell’anno sono i prodigiosi Come together e Workin’ together), Tina era pronta perché il rock lo aveva visto nascere. È stato allora che Mick Jagger ha cominciato a muoversi sul palco in quel modo: aveva visto Tina. Ed è stato allora che David Bowie si è accorto di lei e ha cominciato a documentarsi (e a ossessionarsi) sulle origini nere del rock: senza Tina Turner difficilmente avremmo avuto Young Americans o Let’s dance.

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E proprio David Bowie è stato strumentale nella riscoperta e nel rilancio di Tina Turner negli anni ottanta. Quando Tina sembrava finita Bowie l’ha aiutata a reinventarsi e a rimettersi in piedi. Non come pigmalione però, Tina ne aveva avuto abbastanza di burattinai e di padroni, ma come amico e come fan. La Tina Turner di Private dancer, l’album del suo grande ritorno del 1984, è un miracolo di adattamento ai tempi che cambiavano. La sua storia di riscatto era la favola edificante di cui quel decennio aveva bisogno e lei era già pronta per Mtv da vent’anni: aveva lo stile, la visione, il personaggio. Si trattava solo di spararle addosso un riflettore e far andare un po’ di ghiaccio secco: lei era già pronta.

Il miracolo musicale di Private dancer era quello di non presentare Tina Turner come un’artista nostalgica, come una sopravvissuta degli anni sessanta, ma come un’artista nuova, una pop star degli anni ottanta come le più giovani Madonna e Cyndi Lauper. A 45 anni Tina Turner per gli standard del pop di quegli anni era vecchia, ma giocava in scioltezza la stessa partita delle star più giovani. In Private dancer cantava pezzi di Bowie e di Mark Knopfler, ma tornava anche sui Beatles (la sua Help è da capogiro) e faceva scoprire a una nuova generazione classici del soul come I can’t stand the rain di Ann Peebles.

Con il moderno arrangiamento synth pop del classico di Al Green Let’s stay together (opera del britannico Martyn Ware degli Heaven 17) Tina Turner ha dimostrato come si potesse essere classici e moderni allo stesso tempo. Let’s stay together suona freschissima ancora oggi e se non ha quella patina di pop anni ottanta che invecchia così male è perché la canta Tina Turner, che con la sua sola presenza risucchia anche l’aria dalla stanza.

Siete pronti per me?
Il critico afroamericano Nelson George nel suo ormai classico studio The death of rhythm and blues fa proprio l’esempio di Tina Turner per parlare di come, negli anni ottanta, il crossover tra musica nera e pop bianco abbia annientato l’industria musicale afroamericana, drenandola di denaro, risorse e talenti. Album blockbuster come Private dancer di Tina Turner, Thriller di Michael Jackson e Purple rain di Prince sono da considerarsi, secondo George, tra i principali colpevoli del definitivo crollo di ciò che rimaneva dell’infrastruttura dell’industria musicale gestita da neri. L’analisi di George è ineccepibile dal punto di vista economico, sociale e industriale. Nel caso di Tina Turner però non tiene conto di un dettaglio: per lei avere quel tipo di successo negli anni ottanta significava riprendersi tutto e forse anche vendicarsi di un sistema che, come donna e come artista, l’aveva sfruttata e umiliata per molti anni.

La carriera di Tina Turner è proseguita fino agli anni duemila sempre all’insegna della duttilità stilistica, dell’intelligenza musicale e della solida consapevolezza commerciale di chi ha imparato che con i soldi non si scherza. Anche quando ricantava Unfinished sympathy dei Massive Attack nel 1996 era impeccabile, con guizzi nel fraseggio assolutamente suoi, e Golden eye (scritta per lei da Bono e The Edge per l’omonimo film di James Bond) rimane uno dei temi di 007 più classici di sempre, insieme a quelli di Shirley Bassey, Nancy Sinatra e Carly Simon. Quando si avventurava in duetti pop di puro posizionamento commerciale, come Cose della vita con Eros Ramazzotti, Tina riusciva a metterci dentro qualcosa: quel sorriso ironico che è un po’ la rassegnazione divertita di che ne ha passate tante e un po’ la semplice gioia di esistere e di cantare.

All’inizio di ogni suo concerto, anche di quello che vidi al Palaeur di Roma nel lontano 1990, Tina diceva sempre al pubblico: “Are you ready for me?”, Siete pronti per me? Ora non ci resta che chiederci se siamo pronti a vivere in un mondo senza Tina Turner.

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