22 febbraio 2016 12:52

Il film di Gianfranco Rosi Fuocoammare è stato premiato con l’Orso d’oro al festival internazionale del cinema di Berlino. È un orso d’oro meritato a un film decisamente contemporaneo, che si spera faccia riflettere gli spettatori incitandoli a una maggiore sensibilità nei confronti di un problema che ci riguarda tutti da molto, molto vicino.

La protagonista del film di Gianfranco Rosi Fuocoammare è Lampedusa, la Lampedusa nel cui mare sono morte migliaia di persone che arrivavano da più paesi, guidate dal sogno di una vita migliore. O meglio, sono due diverse Lampedusa che s’incontrano soltanto attraverso la figura di un medico locale che ci dice cosa significa accogliere e curare i migranti, o constatarne la morte: cinque minuti o poco più di una testimonianza accorata, cinque minuti che andrebbero mostrati in tutte le scuole e a tutti gli italici deputati, e funzionari, e professionisti e insomma a tutti i nostri ipocriti connazionali. Non ci fosse che questo, Fuocoammare sarebbe già un film memorabile, ed è forse questo medico che avrebbe dovuto essere il protagonista del film o il suo occulto maestro.

Fuocoammare

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C’è la Lampedusa di una quotidianità scandita dal lavoro della pesca (anche quella subacquea), dalla vita di famiglia, da una trasmissione radiofonica divertente ed evasiva quanto mille altre e dalle esperienze di un bambino di età puberale, secondo i modi di crescere di una volta, nel confronto con la natura e l’ambiente e nella verifica delle proprie capacità. È una storia di apprendistato ricostruita con amore, una storia che però esclude cellulari e computer, e ci lascia il dubbio sulla credibilità di quest’assenza.

C’è la Lampedusa dei migranti, delle navi che individuano e assistono gli scafi in cui sono stati ammassati, dei militari e marinai per lo più senza volto (coperti da igieniche maschere).

Ci sono anche i morti, non potevano non esserci, in sacchi chiusi mostrati nella loro tremenda normalità, e c’è il racconto tragico ed epico che fanno i migranti del loro viaggio (nell’altro brano più struggente del film, con il canto rap nel centro di accoglienza). Ci sono i loro, di volti, i cui occhi hanno visto più volte la morte pronta a ghermirli.

Le immagini sono sempre terse e bellissime, il montaggio sapiente, il coinvolgimento dello spettatore ogni volta, nei due film a cui assistiamo, suggerito senza violenza, con pudore e rispetto. Ma si resta tuttavia con l’impressione di due diversi film che non trovano un accordo, neanche formale, poiché nell’uno prevale il documento (i migranti) e nell’altro il film, la ricostruzione, il copione, secondo un modello che possiamo ben giudicare neorealista.

Due film diversi nella forma ma anche nella sostanza? Perché questa scelta di due registri, uniti solo dall’accuratezza della veste? Per dire che la normalità italiana (qui non pessima, ma antica) ignora la diversità migrante? Molto più convincente del precedente Sacro Gra – dove il magistero zavattiniano dell’aneddoto significativo e quando possibile edificante era più scoperto – Fuocoammare mostra, mi sembra, un’incertezza di fondo in un regista di grande e vero talento, che potrebbe dare grandi cose se fosse più persuaso e profondo non tanto in ciò che concerne il cinema e il suo linguaggio quanto nel presente e nel modo di leggerlo.

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