06 giugno 2020 16:01

Cesare Pavese si uccise in un albergo di Torino, a due passi dalla stazione di Porta Nuova, il 27 agosto 1950. Sono passati settant’anni, fra tre mesi scadranno i diritti sulla sua opera e la casa editrice di cui fu uno dei creatori, l’Einaudi, ha pensato bene di riproporre in più volumi l’integrale o quasi. Facendola introdurre a scrittori e scrittrici di oggi, che a dire il vero non reggono il confronto con lui e con la straordinaria generazione di cui fu uno dei nomi di punta e – proprio dalla redazione dell’Einaudi, insieme a Vittorini e al più giovane Calvino – uno dei primi sponsor. Era prevedibile che molti editori si sarebbero preparati all’evento, ma l’Einaudi aveva la possibilità e ha avuto l’astuzia di arrivare per prima.

Il suicidio di Pavese ebbe un’eco oggi impensabile, quasi paragonabile alla tragedia torinese di Superga, l’aereo che il 4 maggio 1949 si schiantò con a bordo l’intera squadra del Grande Torino. Colpì anche i non lettori, nonostante fossimo ancora un paese di analfabeti. E fece di Pavese un mito tra tanti giovani degli anni cinquanta e sessanta per l’inquietudine e la ricerca dai tratti anche adolescenziali, essenziali, che lo scrittore aveva espresso nella sua vicenda umana e culturale.

Una delle rare cose che non mi sento di perdonargli è la famosa risposta che dette a un giornalista straniero che gli chiedeva chi fosse il miglior narratore italiano del dopoguerra: Vittorio De Sica, disse, e con tutta l’ammirazione per l’autore di Sciuscià e Ladri di biciclette, dimenticando peraltro Roberto Rossellini (il più grande e il più nuovo) e Luchino Visconti e Alberto Lattuada, be’, l’elenco dei grandi scrittori di allora è ben più vasto e vario e profondo di quello dei registi… E ben più varie le proposte della letteratura di quelle del cinema neorealista e delle sue nuove, pur importanti, convenzioni.

Confronti estremi
Si era negli anni del risveglio del paese, della ricostruzione, della repubblica, della democrazia, della costituzione, i migliori anni della nostra storia nazionale messi a morte con l’odioso omicidio di Aldo Moro, opera di imbecilli e di numerosi “servizi”. Ma si era anche reduci da una guerra mondiale e da una civile, anche se quest’ultima fu combattuta da pochi, di fronte a una “zona grigia” di cui lo stesso Pavese fu un rappresentante (La casa in collina ne fu una sorta di confessione insieme a un altro dei suoi racconti più intensi, La bella estate), trovandosi suo malgrado, come tanti, coinvolto in confronti estremi.

Pavese fu un rappresentante esemplare, grande, affascinante e insieme disturbante, dei dilemmi di una generazione cresciuta nel fascismo, ma colpì anche buona parte della generazione successiva, stretta nella morsa della guerra fredda e del dover scegliere, di fatto, tra stalinismo e capitalismo, tra due imperialismi, due modelli, ieri e sempre, osceni. D’altra parte, quelli che si sentivano “salvati” (perdonati dei loro peccati degli anni trenta, detti anche “del consenso” al regime, perché avevano capito cosa fare, nel 1943), sapevano, i migliori, che Pavese li aveva pur rappresentati, capiti, spronati – e che aveva pur scritto mosso da interessi da antropologo ed etnologo nonché da scrutatore di se stesso – con due grandi libri come Dialoghi con Leucò, in “dialogo”, in qualche modo, anche con Carlo Levi ed Ernesto de Martino, e con il romanzo La luna e i falò, il suo capolavoro.

Pavese fu una figura centrale e più complessa di quella degli altri grandi scrittori italiani dei suoi anni

I suoi dilemmi esistenziali furono pubblici – attraverso la sua opera di narratore estremamente esigente –, ma anche privati, e tra questi fu centrale il rapporto con l’altro sesso: prima la storia con “la donna dalla voce rauca”, e poi l’altra, che fu la scintilla del suo suicidio, quella con l’attrice americana Constance Dowling, ispiratrice della poesia più famosa di Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (il volume Le poesie è accompagnato da una egregia prefazione di Tiziano Scarpa).

(La sorella di Constance, Doris, anche lei attrice, fu protagonista insieme a Silvana Mangano di Riso amaro, il film di Giuseppe De Santis, che anni dopo mi disse di essere convinto che le due donne fossero in qualche modo legate allo spionaggio statunitense in Italia…).

Ma per saperne di più sulla vita e le idee di Pavese è bene rifarsi ancora oggi alla biografia che scrisse un giornalista comunista suo amico, Davide Lajolo, un libro che fece scalpore e che venne accusato da altri amici dello scrittore di aver messo in piazza quel che non andava messo, e che tuttavia fu letto avidamente (anche da me, che in quegli anni ebbi anche modo di conoscere e frequentare “la donna dalla voce rauca”) per capire qualcosa di più del personaggio e anche dello scrittore Pavese.

S’intitola Il vizio assurdo e lo editò Il Saggiatore nel 1960 (finì poi negli Oscar Mondadori): un best seller di lunga durata. Il “vizio assurdo” era quello, nelle parole stesse di Pavese, della tentazione suicida. Forse è vero che Lajolo insisté sul privato di Pavese con compiacenza e con astuzia, ma si lesse il suo libro per capire qualcosa di più di uno scrittore grande ed estremamente intrigante, una figura centrale e per molti aspetti diversa e più complessa di quella degli altri grandi scrittori italiani dei suoi anni.

Ben venga dunque il ritorno a Pavese, e anche la sua riscoperta da parte di giovani scrittori italiani così poveri di contraddizioni e di complessità. Ma tra i libri riproposti da Einaudi vorrei segnalarne uno in particolare, per motivi anche cinematografici. Un grande regista, Michelangelo Antonioni (che era nato nel 1912, solo quattro anni dopo Pavese), si distaccò dal neorealismo d’impronta zavattiniana, ma non da quello rosselliniano, pagandone lo scotto con l’ostilità della critica di sinistra a un capolavoro come Il grido, che culminava nel suicidio di un operaio nel mezzo di uno sciopero, per crisi amorosa ed esistenziale. Un operaio non si ammazza per amore, si disse a sinistra (la stessa ostilità accolse diversi anni dopo un romanzo giovanile di Giovanni Arpino, Una nuvola d’ira, su un’altra crisi esistenziale di un operaio.)

Adattamento esemplare
Il grido è del 1957, due anni prima Antonioni aveva diretto l’adattamento assai fedele di un racconto di Pavese nei luoghi stessi da lui descritti, a Torino: Le amiche, tratto da Tra donne sole. Alla Einaudi di oggi hanno avuto la buona idea di scorporare il racconto da La bella estate, facendolo precedere da un’attenta introduzione di Nicola Lagioia.

Quello di Antonioni fu un adattamento esemplare, e il racconto come il film ebbero il grandissimo merito di affrontare il mondo borghese, rifiutando le tentazioni del populismo, ma ancora una volta Rossellini era arrivato per primo a raccontare dilemmi esistenziali e grandi personaggi femminili con Europa ‘51 e Viaggio in Italia, radicati nel quadro sociale del tempo, e certamente Rossellini aveva letto Pavese. Antonioni non esitò a dichiarare tutti i suoi debiti nei confronti di due scrittori fondamentali nella sua ispirazione, Francis Scott Fitzgerald e Pavese.

Oggi che gli alfabetizzati e i lettori sono tanti più di allora, dovrebbero accorgersi di quanto Pavese avrebbe ancora da insegnare anche con le sue contraddizioni e le sue angosce; e guardarsi allo specchio con il coraggio con cui seppe farlo con pochi altri, in anni molto più difficili di questi, ma infinitamente meno conformisti.

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