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La repubblica post-ideologica

Ventinove anni dopo l’89 che rivoluzionò gli assetti del mondo, ventiquattro dopo il ’94 che rivoluzionò gli assetti della (cosiddetta) prima repubblica, il laboratorio italiano che non dorme mai tira fuori un altro coniglio dal cappello, che archivia definitivamente la (cosiddetta) seconda repubblica a trazione berlusconiana, mette fuori campo quella che fu la più forte sinistra dell’occidente, allinea uno dei paesi fondatori dell’Unione europea più al blocco di Visegrád, alla Russia di Putin e agli Stati Uniti di Trump che all’asse franco-tedesco di Bruxelles. È l’inizio della terza repubblica, quella “dei cittadini”, ne deduce trionfante Luigi Di Maio: salvo che i cittadini sono lungi dal poterne dedurre chi e come li governerà. È la vittoria dei populismi contro la stabilità del sistema, ne deducono i giornali più legati all’establishment che fu: salvo che in realtà hanno vinto i due populismi “dal basso”, quello della Lega e quello dei cinquestelle, contro i due “populismi dall’alto”, di Berlusconi e di Renzi, che nel corso del tempo il sistema l’hanno sistematicamente demolito più che stabilizzato.

Sui fattori di lungo periodo che precipitano in questa ennesima rivoluzione all’italiana ci sarà tempo per discutere – e sarebbe finalmente l’ora di farlo, dopo una campagna elettorale caratterizzata da un’afasia degli intellettuali pari al chiacchiericcio del ceto politico. Ma intanto, per i commenti del giorno dopo, basta e avanza la foto del momento, netta e inconfutabile. Cinquestelle e Lega si spartiscono un paese diviso in due ma unito contro l’establishment, lo spettro di Berlusconi è finalmente archiviato, il centrosinistra e la sinistra sono in frantumi, forse anch’essi consegnati agli archivi della storia.

C’è un affannoso esercitarsi dei commentatori sulla maggioranza che non c’è, sul governo che verrà o non verrà, su come il presidente della repubblica risolverà il rebus dell’incarico, sulle anticipazioni di possibili alleanze che risulteranno dall’elezione della seconda e della terza carica dello stato. Questioni indubitabilmente urgenti e pressanti, e tuttavia seconde rispetto alla necessità di sostare senza infingimenti sulla rappresentazione di sé che il paese ha infilato nelle urne.

Quella foto bicolore dello stivale, con il nord e il sud consegnati a due populismi diversi ma convergenti, racconta – lo avevamo anticipato prima del voto – un fallimento storico delle classi dirigenti, della prima e della seconda repubblica, rispetto alla storica questione del dualismo italiano, quella maggiormente costitutiva della fragilità strutturale nazionale. All’uscita da una crisi economica più lunga e devastante di quella del ’29, c’è un nord in ripresa che si affida alla prospettiva sovranista, protezionista e xenofobica della Lega, preferendola di gran lunga al non più sostenibile regime del godimento berlusconiano. E c’è un sud eternamente figlio di un dio minore, condannato a uno standard inferiore di cittadinanza – nella salute, nei trasporti, nel lavoro, nel reddito – che giustamente non ci sta più e manda via in un sol colpo colpevoli e conniventi, di destra e di sinistra, di questo stato delle cose corrotto e corruttivo. Non si tratta dello stesso disagio, anzi: sotto ci sono ragioni diverse e perfino conflittuali. Ma il dato nuovo è che per la prima volta questi due disagi si sommano senza elidersi, e fanno un blocco sociale inedito, cementato in primo luogo dall’arroccamento contro i migranti. Le ironie della storia non finiscono mai: quasi un secolo dopo – l’ha notato Enrico Mentana nella sua maratona notturna -, il programma gramsciano dell’alleanza progressista e rivoluzionaria fra nord e sud si realizza nel suo contrario.

Non è affatto un caso che questo storico fallimento del progetto unitario del paese coincida con la marginalizzazione della sinistra e del centrosinistra. Facile imputarla agli effetti devastanti del renzismo e dei suoi errori capitali, dall’arroganza rottamatoria, all’impuntatura referendaria che Renzi tuttora rivendica, al parto di una legge elettorale che ha funzionato, come volevasi dimostrare, all’incontrario rispetto alle intenzioni, e infine all’ostinazione di un segretario che anche di fronte a questa eclatante sconfitta non molla se non in differita e prova a mantenere le redini del comando. Facile anche, facilissimo, inchiodare Liberi e uguali a quel disastroso 3 per cento, che non ha affatto impedito al “popolo nel bosco” della metafora bersaniana di infilare la strada del Movimento 5 stelle invece di tornare all’ovile. Ma anche qui, gli errori capitali del breve periodo non possono esentare da un’autocritica di lungo periodo sulla rotta perduta di una sinistra subalterna, in tutte le sue componenti, all’egemonia neoliberale dell’ultimo quarantennio. Fra una trovata e l’altra, un cambio di nome e l’altro, una scissione e l’altra, una larga intesa e l’altra, quello che doveva essere il “partito della nazione” perno del sistema è riuscito a diventarne un accessorio irrilevante, come non è accaduto in paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia, la Spagna, gli stessi Stati Uniti, dove dalla crisi pur profonda della sinistra qualcosa nasce e si sporge sul futuro.

Se questa sia davvero l’alba dell’era post-ideologica come annuncia Di Maio con la baldanza dei suoi 31 anni, o se sia il tramonto di una sinistra che con l’era post-ideologica ha civettato fin troppo, lo dirà il seguito della storia. Per ora, con Di Maio e Salvini brinda solo Steve Bannon, e questo qualcosa vorrà pure dire.

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