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I governi non li porta la cicogna

Mario Draghi al Quirinale, Roma, 3 febbraio 2021. (A3/Contrasto)

Siamo un popolo infantilizzato da un quarto di secolo di cattiva politica e di pessima televisione, ma non al punto da credere che i governi ce li porti la cicogna. E dunque la favola bella del salvatore della patria chiamato dal Quirinale con una telefonata d’emergenza a commissariare la maionese impazzita di un parlamento capriccioso siamo ancora in grado di respingerla al mittente: ci sono cose che non si improvvisano. La “soluzione Draghi”, lo sappiamo tutti, era nei precordi e nei retropensieri di tutto – tutto – l’arco dei poteri politici, economici e istituzionali italiani: da anni, si aspettava solo che Mario Draghi finisse il suo mandato alla Banca centrale europea per consegnargli il paese chiavi in mano. Ma quel mandato è finito nell’ottobre 2019, quando l’esperimento del secondo governo Conte era cominciato da soli due mesi e non lo si poteva strangolare nella culla; dopodiché è arrivato il nuovo coronavirus a bloccare tutto.

Per di più, sul virus quel governo nato male e cresciuto stentatamente si è guadagnato alcuni meriti sul campo: il negoziato politico ed economico con l’Unione europea sul recovery fund; alcune misure nient’affatto scontate di sostegno al reddito e al lavoro; una gestione sanitaria della pandemia non peggiore, e forse migliore, di quella degli altri governi occidentali (si veda la comparazione tra i paesi europei fatta da Davide Maria De Luca sul quotidiano Domani il 6 febbraio). Poco, indubitabilmente, rispetto alla visione strategica e alla capacità di programmazione che il carattere epocale della crisi pandemica avrebbe richiesto, soprattutto a un Pd del tutto inadeguato al compito. Ma abbastanza per allarmare il fronte dei fautori del “ritorno alla normalità” prepandemica.

Infatti è bastato che la prima fase del contagio si placasse perché crescessero i pruriti su come sottrarre la gestione dei fondi europei alla squadra che li aveva ottenuti, per garantirne una destinazione adeguata agli appetiti e agli equilibri del capitalismo italiano a trazione settentrionale. L’accerchiamento è stato concentrico: prima di Matteo Renzi, la scalata di Bonomi a Confindustria e l’operazione Gedi sulla stampa, trincea degli attacchi quotidiani all‘“assistenzialismo” dei cinquestelle e allo “statalismo di ritorno” del Pd. Renzi ha solo completato l’opera, assistito da ciò che resta della corte di Arcore e da un Giorgetti smanioso di recuperare alla Lega sovranista e xenofoba la rappresentanza originaria del padronato padano.

Nei momenti topici, la classe politica italiana non riesce a governare

Obiettivo politico, interrompere l’esperimento Pd-M5s, spostare l’asse degli equilibri al centro (più un centrodestra che un centrosinistra) liberandolo dalla presenza ingombrante di Giuseppe Conte, spedire i cinquestelle ai margini e riportare la Lega al governo; e non ultimo, ribadire il vincolo transatlantico dell’Italia in tempi di espansionismo cinese. Obiettivo economico-sociale, mettere la ricostruzione postpandemica italiana nelle solide mani della governance europea, chiudendo in anticipo la discussione pubblica, nonché l’eventuale conflitto sociale, sulle modalità della ricostruzione, sul riequilibrio fra stato e mercato, sulla distribuzione delle risorse, sulla contraddizione fra logica del profitto e logica della cura.

Due cose, allora. La prima. Nei momenti topici, la classe politica italiana non riesce a governare e si affida sempre alla stessa filiera “tecnica”, Ciampi-Monti-Draghi. Propriamente parlando non si tratta affatto della morte della politica su cui si sono esercitate le migliori penne a commento della “chiamata” di Draghi dal Quirinale. Si tratta piuttosto di politicissime manovre tese a promuovere e certificare la resa dell’autonomia del politico al primato dell’economico, e a portare l’intera rappresentanza – la famigerata unità nazionale – al servizio consensuale di questo primato, spoliticizzando contemporaneamente le istanze della società. L’operazione però non è mai stata a costo zero, anzi ha sempre avuto dei costi assai salati. Dopo Ciampi venne il lungo regno del populismo berlusconiano. Dopo Monti, l’exploit del doppio populismo dell’M5s e della Lega. Non sappiamo che cosa ci attende dopo Draghi. Però sappiamo, guardando indietro, che la soluzione tecnocratica non è mai un anticorpo del populismo: ne è il lievito, o meglio la controfaccia. E sappiamo altresì che l’alternanza fra tecnocrazia e populismo non fa bene alla democrazia. Strano che lo si debba leggere sul Guardian, mentre la quasi totalità della stampa italiana si esercita nella speculare alternanza fra l’inchino di classe al fascino discreto della borghesia competente e il sarcasmo classista sugli “scappati di casa” del governo precedente.

Seconda cosa. Draghi non è Monti, né per formazione né per situazione: la situazione di oggi, come investire un grosso credito, è diversa da quella del 2011, come abbattere un enorme debito (anche se il credito di oggi è pur sempre debito di domani). E l’Unione europea di oggi è diversa da quella del 2011: la pandemia ha reso insostenibile la miscela etico-economico-politica di ordo e neo liberalismo su cui la Ue è stata edificata, e l’ha già costretta a una correzione di rotta emergenziale che dovrà trovare prossimamente una stabilizzazione e un indirizzo strategico più definito. Si può essere certi che Mario Draghi vi contribuirà, dalla sua nuova postazione, da protagonista. Ma si può solo sperare che la logica dell’ennesima modernizzazione diseguale del capitalismo italiano ed europeo non prevalga sull’urgenza di intervenire sulle disuguaglianze – territoriali, di reddito, di accesso ai diritti fondamentali – che in Italia e in Europa sono ormai arrivate a inficiare quel fondamento egualitario della democrazia che è la cittadinanza.

Soprattutto, è la società italiana a essere diversa da quella che era nel 2011. Allora, uscita dal carnevale berlusconiano, si piegò alla quaresima montiana. Oggi usciamo – ammesso che ne usciamo – da una pandemia che ha reso palesi e insopportabili quelle disuguaglianze e tutte le insufficienze del sistema istituzionale e amministrativo di gestione della sanità, della tutela sociale e delle risorse pubbliche; e se siamo sopravvissuti lo si deve anche all’attivazione di reti spontanee di solidarietà, cura e autogestione, e al lavoro invisibile ed essenziale dei molti, e soprattutto delle molte, che non rientrano mai nei piani di investimento sulla “parte produttiva” del paese.

Abbiamo subìto un cumulo di perdite – affetti, abitudini, convinzioni – che ci lasciano ferite non facilmente rimarginabili. Dicono che Draghi si stia figurando il suo programma di governo come una cura antidepressiva da somministrare a una comunità provata fisicamente, economicamente e psicologicamente dal virus. È una buona idea, ma da maneggiare con molta cautela. La depressione è una condizione delicata, e guai a sbagliare terapia aggredendo magari il sintomo ma non le cause. Le quali stanno nella crudele normalità del sistema che il virus ha hackerato. Non mancherà il conflitto per opporsi al suo ripristino.

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