Se c’è una parola a cui il nome di Donald Trump è legato fin dal suo primo passaggio alla Casa Bianca, è sicuramente disruption, perturbazione. Questo termine antico ha assunto un nuovo significato con l’emergere delle startup tecnologiche, le aziende della nuova economia che hanno rivoluzionato il mercato moderno. Soltanto per fare un esempio, Uber ha trasformato radicalmente l’universo dei taxi, creando prima uno scontro d’interessi e poi forzando una trattativa.

Soprattutto, però, la parola disruption torna subito in mente quando pensiamo alla guerra dei dazi doganali scatenata il 2 aprile dal presidente degli Stati Uniti. Il bersaglio di Trump è nientemeno che il mondo intero, senza distinzione tra alleati e avversari, ricchi e poveri. L’unica eccezione, piuttosto notevole, è la Russia di Putin, misteriosamente risparmiata.

La logica della disruption è quella di dare un calcio a un formicaio per creare scompiglio e trasformare il vecchio mondo. Ed è quello che sta cercando di fare Trump in modo assolutamente provocatorio. Con il rischio, tra l’altro, che la manovra non funzioni e al contrario provochi un effetto inverso rispetto a quello desiderato: anziché “far tornare grande l’America”, Trump potrebbe infatti indebolirla e avvantaggiare i suoi rivali.

A febbraio, la rivista online Le Grand Continent ha pubblicato un articolo che appare ancora più interessante alla luce degli eventi delle ultime ore, e il cui autore, Stephen Miran, oggi è alla guida del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca.

Nell’articolo, Miran tesse le lodi dei dazi doganali e ricorda che “il presidente Trump considera i dazi come uno strumento di trattativa per concludere accordi favorevoli. È facile immaginare che dopo aver subìto una serie di dazi punitivi, partner commerciali come l’Europa e la Cina possano diventare più disponibili ad accettare un accordo monetario in cambio di una riduzione delle imposte doganali”.

Miran ipotizza qualcosa di simile all’accordo del Plaza del 1985, con cui Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e Giappone avevano trovato il modo di far calare il valore del dollaro, ormai troppo elevato.

Il consulente della Casa Bianca propone addirittura di firmare i nuovi accordi, frutto della pressione da parte di Washington, a Mar-a-Lago, la residenza privata di Trump in Florida.

Questo approccio è stato criticato da molti economisti prima ancora di essere adottato. A gennaio, su Le Monde, due famosi economisti statunitensi avevano affermato che “una politica di incremento dei dazi porterebbe probabilmente a una nuova guerra commerciale mondiale, le cui conseguenze, purtroppo, non sono difficili da immaginare: meno commercio e soprattutto meno cooperazione internazionale sui grandi temi della nostra epoca, che sono la guerra, la povertà e il cambiamento climatico”.

E questo è precisamente quello che rischia di accadere, soprattutto in ragione del fatto che oggi il mondo è parecchio diverso rispetto all’epoca da cui trae ispirazione Trump, ovvero la fine del diciannovesimo secolo durante la presidenza di William McKinley, il suo idolo.

Il rischio, in questo momento, è quello di spingere la Cina e i grandi paesi emergenti a ribellarsi e a creare un sistema alternativo scollegato dagli Stati Uniti, un processo che è già in corso in campo tecnologico. Il mondo non ne uscirà migliore, e “l’America non tornerà grande”.

La disruption non funziona sempre. Il problema è che in questo caso la scommessa avrà un impatto potenzialmente esistenziale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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