Chi segue il conflitto israelo-palestinese da molto tempo – la mia prima visita a Gaza risale al 1981 – sviluppa inevitabilmente un sesto senso che impedisce di abbandonarsi a speranze eccessive. E questo vale anche dopo l’accordo concluso l’8 ottobre tra Israele e Hamas grazie a un’iniziativa di Donald Trump.
Il mio sesto senso mi autorizza a essere ottimista a breve termine, per la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri, per l’arrivo degli aiuti umanitari ai civili di Gaza e per un cessate il fuoco. Ma m’impedisce di esserlo a lungo termine, cioè di pensare che la prima fase del piano sarà seguita davvero dall’avvio di una soluzione politica.
Considerando la portata della tragedia in corso da due anni, l’accordo è già tanto. È giusto rallegrarsi per la fine del calvario degli ostaggi israeliani, per la liberazione di quasi duemila prigionieri palestinesi e per la fine dei bombardamenti e della distruzione di quel che resta di Gaza. È un momento di gioia celebrato nelle strade sia dagli israeliani sia dai palestinesi, per una volta in sintonia.
Questa prima fase è assolutamente determinante, perché permetterà di chiudere il capitolo aperto dall’attacco del 7 ottobre. Poi si aprirà il negoziato sulla seconda fase che si occuperà del governo di Gaza, della sicurezza e della ricostruzione. In una parola, del “dopo”. E sarà molto più complicata.
La difficoltà è legata alle forze politiche dominanti. Sul fronte palestinese, Hamas ha firmato l’accordo, ma evidentemente non intende sparire militarmente e politicamente, come invece prevede il piano. Il movimento islamista ha una prospettiva radicale a cui non rinuncerà. L’altra corrente palestinese, rappresentata da Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, è pronta al compromesso, ma è tenuta ai margini dagli statunitensi e da Israele.
Lista cambiata
Quanto a Israele, la coalizione al governo si oppone energicamente a qualsiasi soluzione preveda la nascita di uno stato palestinese. È una situazione molto diversa dagli accordi di Oslo del 1993, in cui l’unico vero tentativo di ottenere la pace nell’arco di un secolo era stato favorito da interlocutori che cercavano davvero un compromesso.
Le pressioni esterne potrebbero avere un ruolo importante, ma c’è una decisione che lascia perplessi. Inizialmente l’emissario statunitense Steve Witkoff aveva approvato una lista dei prigionieri palestinesi da liberare in cui c’era anche Marwan Barghouti, in carcere da più di vent’anni e soprannominato spesso il “Mandela palestinese”. Israele, però, ha imposto la sua esclusione, e gli statunitensi hanno accettato il veto.
Perché è importante? Se fosse libero, Barghouti incarnerebbe una leadership palestinese capace di negoziare un accordo politico con un largo consenso popolare, come indicano tutti i sondaggi. Benjamin Netanyahu, invece, preferisce trattare con Hamas (screditato dalla violenza) e Abbas (screditato dall’impotenza). È il modo migliore per bloccare qualsiasi velleità di una soluzione a due stati.
Altrettanto inquietante, all’interno del piano Trump, è l’assenza di qualsiasi riferimento alla Cisgiordania e alle colonie, compreso il piano E1, che taglia il territorio in due e che è stato approvato il mese scorso dal governo israeliano. Anche in questo caso, l’obiettivo di Israele è bloccare la nascita di uno stato palestinese.
Se poi aggiungiamo che Trump, dopo aver incassato i benefici del suo successo, potrebbe disinteressarsi del seguito, tutto fa pensare che gli sviluppi saranno estremamente complicati. E m’impedisce di essere davvero ottimista.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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