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Le buone maestre

Una scuola elementare a Bosisio Parini, in Lombardia, 1975. (Meloni/Rcs/Contrasto)

Anna Marcucci Fantini, Maria Corda Costa, Dina Bertoni Jovine, Lydia Tornatore, Carmela Mungo, Maria Luisa Bigiaretti, Dina Parigi, Idana Pescioli, Giovanna Legatti Tamagnini, Nora Giacobini, Bianca Maria Pettini, Sara Cerrini Melauri, Bianca Fassino, Maria Bertini Casilli, Gina La Marca, Adriana Gerundino Ross, Luisa Tosi e tantissime altre. Nomi che ai più non dicono niente e che invece hanno accompagnato quotidianamente la vita di bambini e bambine, ragazze e ragazzi per generazioni.

Maestre e professoresse, che a partire dall’immediato dopoguerra hanno cambiato in senso democratico, nella pratica di ogni giorno, la scuola italiana. Di loro non si parla mai. I buoni maestri (e rivoluzionari) sono sempre maschi, i don Milani, i Mario Lodi, i Gianni Rodari, i Freinet, i Capitini, gli Ivan Illich, i Dewey, e indietro fino a Rousseau, la schiera dei pedagogisti, dei riformatori della scuola è sempre tutta al maschile. L’eccezione che conferma la regola, Maria Montessori, è davvero un unicum nella pedagogia italiana del novecento. Ma chi conosce i nomi di Maria Boschetti Alberti o Giuseppina Pizzigoni?

Malgrado quello dell’insegnare sia un mestiere che nel secolo scorso è diventato sempre più femminile, non è cambiata affatto la struttura piramidale del mondo dell’istruzione, che fa leva su una base di donne che educano bambini ma che a loro volta studiano teorie elaborate (e spesso insegnate) da uomini.

Il giudizio sociale
L’ultima indagine dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sul tema risale al 2017. È interessante andare a rileggere le note a margine dei risultati: “In dieci anni, dal 2005 al 2014, la presenza femminile nelle aule scolastiche, nei paesi industrialmente sviluppati, è cresciuta dal 62 al 68 per cento. Una presenza che decresce andando dalla scuola dell’infanzia verso le superiori. Tra i 22 paesi d’Europa che aderiscono al trattato di Schengen, la presenza delle donne dietro la cattedra è pressoché totale nella scuola dell’infanzia (97 per cento) e dominante alla primaria (85 per cento). Per calare lievemente alle medie (68 per cento) e alle superiori, dove la presenza femminile nel 2014 si è attestata attorno al 58 per cento. Il fenomeno in Italia è ancora più accentuato”.

Perché tutte queste donne non assumono un ruolo egemone anche nel mondo della teoria pedagogica o degli studi sulla didattica? Secondo Laura Parigi, ricercatrice dell’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire): “Penso che dipenda dal valore sociale attribuito al mestiere, che è stato un mestiere tipicamente femminile anche perché compatibile con il lavoro di cura della famiglia. Per tanto tempo l’insegnamento è stato considerato un lavoro che le donne potevano svolgere per integrare le entrate del capofamiglia (stipendio basso, orario corto). Difficile, con queste premesse, riconoscersi un ruolo da intellettuale. Anche la formazione probabilmente ha inciso: ora forse non è più così, ma un tempo l’istituto magistrale era considerato una scuola ‘minore’ rispetto ai licei”.

In epoche recenti il maestro è stato inseguito, adorato, ricercato, la maestra no. L’idea di fondo è che la maestra possa essere mediocre, o anche discreta, il maestro è eccezionale. Ma d’altro canto, è una posizione che sembra emergere anche in altri campi: la tv è piena di chef maschi sublimi (ma le donne, che cucinano da centinaia di anni, sono così pessime?). La cultura resta monopolio maschile; le donne, in qualsiasi campo, possono essere medie, non eccezionali. Il maestro è ricercato anche perché nella realtà ce ne sono numericamente pochi ora, quindi sono desiderati.

Tante maestre e professoresse hanno cambiato l’istruzione nella pratica, mentre i colleghi trasformavano le esperienze in teorie

Santa Parrello, che insegna psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione all’università di Napoli aggiunge: “È paradossale che le donne siano tanto impegnate nel campo dell’istruzione come insegnanti e non diano poi vita a teorie pedagogiche originali e sistematiche come gli uomini. A parte qualche eccezione che conferma la regola, come Maria Montessori in Italia o Vera Schmidt e Sabina Spielrein in Russia. Tutte e tre si sono dedicate al progetto e alla realizzazione di scuole sperimentali non autoritarie, pur partendo da presupposti teorici molto diversi, sfidando i regimi di Mussolini e Stalin. La Casa dei bambini e l’Asilo bianco sono stati prima tollerati e poi chiusi, e anche le loro vite personali sono state investite dalla violenza delle dittature dell’epoca. Le loro riflessioni teoriche sono raffinate: Montessori ha avuto poi un gran seguito, mentre le due pedagogiste-psicoanaliste sono rimaste a lungo all’ombra di Freud e Jung, e solo di recente riscoperte, ma sempre come ‘allieve’ dei grandi, e anche come ‘pazienti’ o ‘amanti’”.

Poche pedagogiste, molte maestre e professoresse che hanno cambiato l’istruzione nella pratica, mentre i colleghi raccoglievano le esperienze e le trasformavano in teorie. Quest’anno si celebra l’anniversario della nascita del Movimento di cooperazione educativa (1951) un gruppo di insegnanti che ha puntato tutto sul rinnovamento della scuola sulla didattica: insegnanti come Nora Giacobini, Anna Fantini e Luisa Bigiaretti hanno avuto grande spazio dentro il movimento e meriterebbero giornate di riflessione e approfondimenti, eppure preferiamo ricordare Giuseppe Tamagnini o Mario Lodi quando dobbiamo citare qualche nome che richiami quel gruppo di sperimentatori.

Nora Giacobini l’ho incontrata studiando il bollettino storico del Movimento di cooperazione educativa. Laureata nel 1952, insegna all’istituto magistrale di Montopoli, vicino a Pisa, quando scrive una lettera a questo neonato gruppo di insegnanti per mettere in luce come quanto vanno dicendo non sia importante soltanto per le scuole elementari ma anche per le superiori (anche oggi è forte il pregiudizio che la didattica sia un tema rilevante solo per i cicli inferiori dell’istruzione).

Giacobini è convinta che non si possano più insegnare teorie pedagogiche astratte se poi si entra in classe e si sta sulla predella come si è sempre fatto:

Può darsi che l’insegnante di pedagogia non avverta la questione ma se l’avverte è assolutamente impossibile che possa continuare a fare scuola nel senso tradizionale. Lo impedisce la sua stessa coscienza, c’è la necessità di là dell’esempio, di dimostrare che egli veramente crede a ciò che viene annunciando come criticamente vero. Ovvio che quando arrivai a vedere con chiarezza il contrasto fra il dire e il fare, l’incoerenza di chi propugna come buono un metodo senza darsi da fare per metterlo in pratica, caddi anche io in uno stato di profondo disagio.

Convinta dell’importanza della riforma delle scuole medie del 1963, Giacobini, a differenza di tante e tanti colleghi, farà un passo indietro andando a insegnare al grado inferiore per una scelta militante. Da allora resterà alle medie, scrivendo Lo stregone nella scatola (La linea 1976) un bellissimo diario della sua esperienza in una media della periferia romana. Sarà a Roma che incontrerà il giovane maestro Franco Lorenzoni, diventando per lui un punto di riferimento ineludibile.

E che dire di Anna Fantini che a Fano, nell’immediato dopoguerra, mette in pratica con i suoi bambini le teorie di Célestin Freinet, adattandole all’ambiente in cui si trova, dando materiale di riflessione a Tamagnini (fondatore del Mce), o a Raffaele Laporta (pedagogista), che dentro la scuola elementare non ci insegnano (più).

Così come un ricordo speciale meritano Maria Luisa Bigiaretti, la maestra del Trullo, a Roma, che insegna a Gianni Rodari come scrivere un testo collettivo con i bambini, o Giulia Notari e le maestre di Reggio Emilia che oggi ricordiamo in relazione a Loris Malaguzzi.

Secondo Parrello possiamo azzardare anche un’ipotesi psicologica. “Gli uomini sono forse più interessati a pensare l’istruzione e le donne ad assumersene la responsabilità? O forse gli uomini e le donne pensano assieme e poi gli uomini sistematizzano i pensieri e costruiscono teorie assumendosene la paternità? Jean Piaget lavorava insieme ad una donna, Bärbel Inhelder, ritenuta raffinata ricercatrice, che viene sempre citata come sua ‘collaboratrice’, nonostante le sue numerose pubblicazioni autonome. Ovviamente non so quanto lei abbia contribuito di fatto alla teoria di Piaget, ma il dubbio mi è sempre venuto”.

Anche il movimento dei Maestri di strada con cui collabora Parrello nasce intorno alla figura di una donna, Carla Melazzini. Del suo lavoro non ci sarebbe traccia – a parte quella lasciata nella memoria dei ragazzi e delle ragazze che l’hanno conosciuta – se un uomo, il marito Cesare Moreno, non avesse raccolto i suoi scritti e li avesse pubblicati dopo la sua morte prematura nel bellissimo Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio 2011).

Il diario di Melazzini è ricco di pratiche, le riflessioni teoriche sorreggono l’esperienza, come quando scrive, per invitare a usare la metafora nel processo educativo: “Anni fa lessi in una classe le prime righe della Metamorfosi di Kafka; poi chiesi ai ragazzi chi dei membri della famiglia, secondo loro, avrebbe accettato di prendersi cura del povero Gregor Samsa trasformato in un immondo scarafaggio. I maschi all’unanimità risposero ‘la mamma’. Perché? Ovvio: perché ‘pure ‘o scarrafone è bello a mamma soja’. Solo una ragazza propose la sorella. Il giorno dopo ero in biblioteca, si affaccia Gianni, il più piccolo e brutto della classe, chiedendo timidamente: ‘Professorè, lo tenete qui il libro dello scarrafone?’”.

Nella scuola, come scriveva Giacobini nel 1952, è molto più difficile mettere in crisi e trasformare la pratica che imporre una nuova teoria. Ripartire dalle maestre e dalla loro lezione potrebbe essere un buon modo per farlo.

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