Cultura Suoni
Iconoclasts
Anna von Hausswolff (Philip Svensson)

Forse Iconoclasts è un titolo poco adatto per il settimo album di Anna von Hausswolff. Dopo più di dieci anni di carriera, l’artista svedese si è costruita un seguito di culto grazie al suo suono inquietante e, appunto, iconoclasta. Ha trasformato la voce in un’arma, capace di urla, gemiti e lamenti; ha creato paesaggi sonori monumentali basati solo sull’organo da chiesa, sospesi tra drone music e canto gregoriano. Eppure con Iconoclasts tenta di incanalare questa potenza in forme più ordinate, dando vita a quello che definisce il suo album più “tradizionale”. Ciò non significa che rinunci alla sperimentazione: i fan del suo universo organistico ne ritroveranno lo splendore gotico. Ma questa svolta dà nuova linfa a un linguaggio che rischiava di diventare manieristico. L’album è attraversato dal sax febbrile di Otis Sandsjö: dolce e misurato in Aging young woman, devastante nella suite di quasi nove minuti Struggle with the beast. Lo strumento è una guida virgiliana in questo inferno dantesco della psiche, della fede e del peccato. Ciò che più colpisce di Iconoclasts è la sua sincerità: von Hauss­wolff abbandona le architetture sonore più imponenti e affronta temi di perdita, fede e amore. In Aging young woman, un duetto etereo con Ethel Cain, riflette sul tempo che passa e sul sogno di maternità che svanisce. In Facing Atlas, un’elegia mitologica, rincorre un amore perduto. E in The whole woman, cantata con Iggy Pop, il dialogo tra due anime erranti unisce disperazione e saggezza. In Iconoclasts vita e amore conquistano il centro della scena. Forse è qui che risiede l’iconoclastia dell’album.
Jude Jones, Clash

Everybody scream
Florence + the Machine (Autumn de Wilde)

Il sesto album della band britannica racconta in maniera epica e in profondità la rabbia, in tutte le sue manifestazioni: vendetta, indignazione, dispiacere e disprezzo. Anche se alcune canzoni sono appesantite dalla teatralità, i temi femministi sembrano adatti a questi tempi in cui i diritti delle donne stanno facendo passi indietro. Everybody scream raccoglie il dolore della cantante Florence Welch, che ha scritto le canzoni dopo un aborto spontaneo. In questo passaggio esistenziale è stata assalita da una rabbia nei confronti dell’universo. Continuando il discorso catartico cominciato nel precedente Dance fever, qui però il riferimento musicale è Ceremonials. Da quel secondo lavoro a oggi il gruppo è migliorato: le idee sono più a fuoco, le armonie più grandiose e gli arrangiamenti stratificati. La voce è sottoposta a un riverbero maggiore ed è meno precisa del solito, come se volesse trasmettere la passione di una performance dal vivo. Nel disco Welsh non fugge mai dalla sua mitologia: è una cowboy, una rockstar, un mostro e una dea; nel penultimo brano, You can have it all, piange la perdita del figlio e di fiducia nella vita. Se da una parte la musica di Everybody scream non sorprende, dall’altra prova il valore dell’artista, aggiungendo un tassello significativo alla conversazione sui ruoli di genere e sulla rabbia femminile.
Rachel Kelly, Exclaim

The bootleg series vol. 18: through the open window 1956–1963

Bob Dylan continua a sorprendere da oltre mezzo secolo. Ha smentito l’idea che le rockstar debbano ritirarsi, che i tour finiscano e che gli archivi si esauriscano. La sua Bootleg series non raccoglie solo rarità: racconta storie. Il diciottesimo volume, Through the open window, 1956-1963, segue un giovanissimo Dylan dal Minnesota alla scena folk di Greenwich village, fino al cuore del movimento per i diritti civili. È un viaggio che umanizza il mito e ne accresce la grandezza.
Dalle prime registrazioni amatoriali emerge un ragazzo incerto che imita Woody Guthrie, ma presto la sua voce trova convinzione e originalità. Brani come He was a friend of mine e Dink’s song mostrano la nascita del suo stile personale, mentre i primi inediti – I was young when I left home, Tomorrow is a long time – rivelano un autore che trasforma il folk in poesia personale. Poi arrivano i capolavori: Masters of war, Blowin’ in the wind, fino al trionfo alla Carnegie Hall nel 1963, dove un pubblico incantato ascolta un artista ormai maturo. Through the open window racconta il cammino di Dylan verso la grandezza.
Matt Melis, Paste

Libro primo

Un decennio dopo La mascarade, dedicato al repertorio francese, Rolf Lislevand riprende il suo percorso discografico solista per esplorare all’arciliuto e alla tiorba i pezzi pubblicati all’inizio del seicento da Giovanni Girolamo Kaps-berger. Il programma ruota intorno al Libro primo d’intavolatura di lauto del 1611 e dal Libro primo d’intavolatura di chitarrone del 1604, che custodiscono le sue trovate più audaci. Lislevand li mette in rapporto con il lavoro di altri musicisti dell’epoca. La sua autorità ci conquista dalla Toccata terza di Kapsberger e nella Tasteggiata di Giovanni Paolo Foscarini l’edonismo sonoro s’insinua nei minimi dettagli. La Corrente di Bernardo Gianoncelli ha una tenuta ritmica infallibile e nel pezzo di Diego Ortiz arriva anche una profusione di ornamenti. Il virtuoso norvegese incorpora delle magistrali parti improvvisate, dimostrandosi inarrivabile nel declamare con libertà: la sua Passacaglia al modo mio parafrasa Strozzi, Monteverdi, Bach e Jarrett. La sua agilità incomparabile e il piacere del suono rendono Libro primo un album affascinante dal chiaroscuro luminoso.
Frédéric Degroote, Diapason

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1639 - 7 novembre 2025
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