04 aprile 2020 09:45

La giornalista di Le Monde Florence Aubenas ha passato i primi undici giorni dell’isolamento, entrato in vigore in Francia il 17 marzo 2020, nell’istituto Quatre-Saisons (Quattro stagioni), una delle circa settemila strutture per anziani non autosufficienti (Ehpad) della Francia. In questo istituto di Bagnolet, vicino a Parigi, dove vivono 65 anziani, la vita quotidiana è stata stravolta dalle misure di contenimento contro il nuovo coronavirus. Le visite sono state vietate e il personale cerca di affrontare la situazione.

“Avreste il diritto di sgridarmi”
Martedì 17 marzo, primo giorno di isolamento

La coppia è immobile sul marciapiede, di fronte alla facciata dell’edificio. Devono avere sui cinquant’anni, ed è la donna che comincia a gridare per prima mettendo le mani intorno alla bocca: “Mamma, fatti vedere, siamo qui!”. Alle finestre non si muove nulla. Allora interviene anche il marito mimando una serenata con una bella voce stonata da baritono: “Vi amo, sono sotto il vostro balcone!”. Una persiana si muove. “Mamma” appare dietro a un vetro; le sue labbra si muovono ma parla a voce troppo bassa per farsi sentire. “Hai visto? Ha messo la vestaglia blu”, osserva la donna. Poi non dicono più nulla, guardandosi solo negli occhi, loro in basso e lei in alto, che agita delicatamente la mano come la regina d’Inghilterra. Quando la coppia se ne va, l’anziana signora sposta la sedia a rotelle per vederli il più a lungo possibile.

È quasi una settimana che al Quatre-Saisons le visite dei parenti sono vietate. Di fronte alla pandemia questa casa di riposo – un edificio di tre piani costruito negli anni duemila – è ormai isolata dal mondo esterno come le altre settemila Ehpad francesi. Le attività provenienti dall’esterno – sofrologia, musica, parrucchiere o pedicure – erano già state sospese, ma ormai le misure di contenimento generale sono state dichiarate anche all’esterno: in tutto il paese più di 60 milioni di francesi sono bloccati in casa.

Sono le 11 di mattina e al Quatre-Saisons è stata presa la decisione di allontanare il personale amministrativo. È stato chiuso anche il servizio di reception. “Tanto non riceviamo più nessuno”. L’addetta all’amministrazione si mette il cappotto, lo stesso fa la responsabile delle risorse umane. Dovrebbero essere già andate via ma fanno fatica a lasciare il centro. Si ha l’impressione di abbandonare la nave. Bisogna quasi spingerle fuori.

L’ingresso, deserto, rimbomba come una cattedrale. Riunione nella sala da pranzo per coloro che rimarranno accanto ai 65 anziani residenti: gli infermieri, il personale della cucina, il servizio di pulizia, la direzione, in totale una quarantina di persone. Nella fase 3 della pandemia, cioè in quella più grave, nelle Ehpad è obbligatoria la mascherina di protezione. La ragione è duplice: il coronavirus attacca le vie respiratorie e le persone anziane sono le prime vittime.

La distribuzione dei pasti nelle camere dei residenti dopo l’avvio delle misure di confinamento per il nuovo coronavirus, marzo 2020. (Florence Aubenas, Le Monde)

“Non voglio nascondervi la verità. Non posso darvi le mascherine perché non ce l’ho. Bisognerà fare senza”, comincia Laurent Garcia, responsabile sanitario e braccio destro del direttore Edouard Prono. Di mascherine gliene rimangono 200 e se dovesse applicare gli ordini basterebbero solo per tre giorni. Lui stesso non la indossa e neppure il direttore. Chi accetterebbe che solo i responsabili possono averla? “Avreste il diritto di sgridarmi e al vostro posto andrei nel mio ufficio a fare casino”, continua Garcia. Si ride, tutto sembra irreale. “Non è così grave”, dice una donna. Lui però è irritato: “Sì che è grave”.

Tutti qui si ricordano dei guanti, delle mascherine e della soluzione idroalcolica generosamente distribuiti all’ingresso solo 15 giorni prima, come durante i periodi acuti di influenza o di gastroenterite. Era l’inizio del contagio in Francia. Uno o due infermiere si erano avventurate in autobus con la mascherina, ma erano state guardate come marziane e avevano finito per toglierle prima della fine della corsa. “Ci dicevano che il rischio era basso, non ci rendevamo conto”, spiega Garcia che all’epoca aveva rinnovato l’ordine di 500 mascherine per essere tranquillo. A inizio marzo arriva la telefonata del fornitore: lo stato ha bloccato tutte le riserve disponibili, la precedenza va agli ospedali della regione Grand Est, la più colpita. Per le Ehpad la risposta è sempre la stessa: “Stiamo trattando l’ordine”. Un’infermiera del Quatre-Saisons taglia corto: “Abbiamo capito che cosa pensano. Qui ci sono dei vecchi, hanno già vissuto”.

Attraverso la grande porta vetrata i residenti guardano passare delle famiglie sui pattini, un signore che porta con serietà un dolce. In fondo alla strada i piccoli spacciatori del quartiere fanno lo slalom sui quad. Più lontano una partita di calcio comincia allo stadio delle Rigondes. I primi momenti delle misure di contenimento trasmettono ancora la candida spensieratezza di una lunga domenica assolata.

Nei corridoi dell’Ehpad l’animatrice Rosa tende la mano automaticamente a tutti quelli che incontra. Il direttore sobbalza: “Non mi tocchi Rosa, pensi agli ordini che abbiamo ricevuto, niente contatti”. “Ma dice sul serio direttore?” Rosa fa fatica ad accettare che sia vero. Solo il giorno prima delle misure di contenimento faceva la coda in un affollato ristorante algerino dalle parti di Ménilmontant e si perdeva con piacere nella folla del mercato di Romainville. “Siamo in guerra”, ha ripetuto il giorno prima in televisione il presidente Emmanuel Macron. Nella sala di riposo un addetto alle pulizie annuisce: “È vero, al supermercato Leclerc di Rosny-sous-Bois, nella periferia a est di Parigi, c’era la calca per fare la spesa”.

“Il Deserto dei tartari
Mercoledì 18 marzo, secondo giorno di isolamento

Non un rumore esce dalla stanza di Edouard Prono. Dalla mattina si trova sotto il bombardamento silenzioso della sua posta elettronica. Un collega gli comunica che nel suo istituto 16 residenti su 20 sono stati colpiti dal virus. Vicino a Montpellier sono 47 su 83 e tre sono morti a causa della malattia. A loro volta le pompe funebri hanno inviato una comunicazione dettagliata sui tipi di bara autorizzata durante la pandemia. Solo due modelli sono disponibili: “Ermetico, che permette la sepoltura classica, ma che ben presto non sarà più disponibile a causa della domanda”. Oppure “il modello classico, destinato alla cremazione”. Il consiglio alle Ehpad: “Ordinate fin da adesso i vostri sacchi per i cadaveri”. “Ci ha pensato?”, prova a chiedere Prono alla dottoressa Claire Bénichou, medico-coordinatore dell’istituto.

In un forum professionale alcuni esperti si scambiano messaggi nei quali assicurano di non aver “mai visto una cosa del genere”. Prono traduce immediatamente: “Non riusciremo ad accompagnare tutti quanti”. Lui è un ragazzo timido e bene educato di 34 anni, giovane come sono oggi molti direttori di Ehpad. “È un problema generazionale. Del resto come fare quando si è appena usciti dall’università e bisogna affrontare una cosa del genere?”.

La porta del suo ufficio si socchiude: Garcia, il suo assistente, annuncia che la farmacia non consegnerà i 15 litri di soluzione idroalcolica. L’ordine non era stato fatto subito e adesso non è più disponibile. E i guanti? Anche quelli finiti o quasi. Le informazioni cambiano di ora in ora, ordini e contrordini si succedono. Il ministero della sanità ha appena inviato la terza versione della sua guida metodologica: molto rigide all’inizio, le linee guida ufficiali diventano più flessibili via via che a livello nazionale le riserve si esauriscono. Alla fine nelle Ehpad le mascherine non sono più obbligatorie nella fase 3 della pandemia, tranne in caso di infezione accertata. “Insomma niente mascherine, niente sacchi per i cadaveri. Ha visto la mail?”, dice con voce alterata Garcia.

Seduto alla sua scrivania, molto pallido e rigido, le mani sulla tastiera del suo computer, Prono si mette a piangere. “Mi scusi, non mi capita mai”. Sul suo telefono continuano ad arrivare le notifiche di nuovi messaggi, ma lui non le sente più. “Siamo nel Deserto dei tartari, ad aspettare a mani nude che arrivi la catastrofe”.

Al terzo piano la signora X, 90 anni, comincia a tossire, uno dei sintomi classici del virus. L’accesso alla sua camera viene subito limitato. “Non possiamo negare l’evidenza: dobbiamo prepararci ad avere dei casi. Se la cosa vi procura troppo stress, mi occuperò personalmente della signora X”, annuncia Garcia all’équipe. In un angolo la televisione continua con la sua litania di morti del giorno, in Francia e nel resto del mondo. Zineb si sente le gambe tremare, deve sedersi: “Possibile che debba già morire, io che non ho mai viaggiato, mai goduto la vita, non sono neanche andata a scuola”. La donna ha 45 anni e si occupa delle pulizie. Ma subito si rialza e il suo carrello avanza verso le camere in un tintinnio di stoviglie. Da sopra la spalla si rivolge a Stéphanie, la collega: “Vieni con me, bellezza?”. Ultime ruote del carro di un settore medico a sua volta in crisi, le Ehpad hanno sempre dovuto fare i conti con i pochi mezzi a disposizione – di personale, di stipendi, di fondi. “Ormai siamo abituati a passare dopo gli altri, a sopportare”.

Nella sala da pranzo i residenti cominciano a mangiare la paella. “E il mio bicchiere di vino rosso? Sono stufo di questo posto, sono stufo di questo cazzo di virus”, si arrabbia Daniel, bretelle nere tese sulla pancia. Un serpente tatuato ondeggia sull’avambraccio sinistro, nella sua camera Brigitte Bardot alza le gambe sotto una bandiera tricolore con la scritta “Vive la France”. Comincia a fare baccano. “Daniel è spesso volgare ma bisogna riconoscere che sa essere simpatico”, commentano educatamente due signore molto tranquille del tavolo accanto. Charlotte comincia a mangiare lo yogurt: “Un virus? Sul serio? Non l’ho visto passare”. Qui può mangiare quanto vuole e suo marito, uno “fuori di testa che la picchiava”, finalmente non c’è più. Adesso si sente tranquilla. Dopo una breve pausa Charlotte riprende con il suo accento popolare: “Anche troppo”. La sua vicina alza le spalle. “Con la guerra sono stata privata della gioventù. Adesso non mi faccio di certo rubare la vecchiaia da un virus”. Sotto la tettoia dell’ingresso, Garcia accende una sigaretta. “Credo che questa sera prenderò qualcosa per dormire. Forse un whisky”.

“Né complottista né massone”
Giovedì 19 marzo, terzo giorno di isolamento

“Buongiorno, non sono né un complottista né un massone”, annuncia un piccolo signore filmato in primo piano nel suo salotto. Nel suo video promette di dimostrare “facendo A più B” che il coronavirus è stato volontariamente creato da alcuni ricercatori francesi. Il video dura 22 minuti e l’infermiere di servizio dell’istituto rivede di nuovo la dimostrazione sul suo telefono. Il mondo scientifico la ha unanimemente denunciata come una “fake news”, ma l’infermiere non crede più ai discorsi ufficiali. “Un giorno sapremo la verità, fra venti o trent’anni”. Forse un antidoto è già stato messo a punto “ma non ce lo danno”. Perché? Sorriso ironico e cenno del capo. “Ci pensi bene”. Guarda l’orologio. Tra poco è l’ora della distribuzione delle medicine.

Nei corridoi le voci e i dubbi hanno cominciato progressivamente a insinuarsi. Un camionista in pensione sfoglia una rivista degli ex combattenti d’Algeria. “In ogni modo non ci dicono la verità. Questo è il problema della Francia”. Il suo sguardo si sposta sulla strada. In due giorni si è svuotata. Una macchina passa al rallentatore, un uomo in giacca e cravatta solo al volante ma con la mascherina e i guanti come per proteggersi da se stesso. Sui marciapiedi non c’è nessuno, tranne qualche spacciatore che si fa discreto sotto i portici ma vestito come un chirurgo in sala operatoria. Uno si è messo anche una bottiglietta di soluzione idroalcolica alla cintura. Un altro impugna una stampella, “per solidarietà con i malati di coronavirus”, dice misteriosamente. Il terzo tiene un cucciolo al guinzaglio in caso di controllo della polizia. Glielo ha noleggiato un amico. L’animale è stato battezzato “Autodichiarazione”.

“Di fatto solo noi non abbiamo il materiale”, dice Garcia. Deve andare da sua cugina a cercare tre tubi di aloe vera per fabbricare della soluzione idroalcolica nel seminterrato del Quatre-Saisons. Francis, il magazziniere, se ne occuperà dopo il guasto all’ascensore e prima di dare una mano in cucina. Ormai anche l’aiuto cuoco non viene più.

“Da voi quanti morti ci sono?”
Venerdì 20 marzo, quarto giorno di isolamento

In una parte dell’edificio Zineb e Stéphanie allestiscono una zona ad accesso limitato in caso di diffusione della malattia, si tratta di grandi camere luminose. Pulendo i cassetti, una tessera dimenticata finisce nelle loro mani, si tratta di un anziano morto l’anno scorso. Un sospiro. “Era prima, quando si moriva ancora di altre cose”.

Più la pandemia continua, più sembra misteriosa. “Andiamo avanti a tentoni”, osservano i medici. La lista dei primi sintomi continua ad allungarsi: diarrea, stato confusionale, cadute insolite, riniti sono ormai indicati come possibili sintomi prima dell’arrivo dei problemi respiratori e della febbre, caratteristici di un’infezione provocata dal coronavirus. “Ma in una casa di riposo quasi tutti i residenti presentano almeno uno di questi sintomi”, si allarma Karim, un infermiere.

Facendo un giro per le camere, il Codiv-19 sembra ormai ovunque. Alcuni dati cominciano a circolare, ancora più allarmanti visto che sono impossibili da verificare: nella regione di Parigi e provincia 170 Ehpad su 700 sarebbero interessate. “Da voi quanti morti ci sono?”, chiede un giornalista al telefono.

Ormai per limitare i contatti un solo infermiere si occuperà di undici anziani. Chi farà parte di questo gruppo? Tutti rabbrividiscono. “Marie-Jeanne ho pensato a lei”, dice timidamente Garcia. Marie-Jeanne scuote la testa, lentamente, e la ciocca bionda della sua parrucca le passa davanti al volto. “No, non lo farò”, dice la donna. Qualche mese fa le cimici avevano invaso 25 camere del centro, in particolare al suo piano. Marie-Jeanne si rivede ancora la domenica a messa, quando aveva aperto la sua bibbia e degli insetti erano scappati fra le pagine. Aveva dovuto subire i rimproveri della famiglia – anche di quelli rimasti a Kinshasa – e la paura che la scuola o i suoi vicini lo venissero a sapere. “No”, ripete Marie-Jeanne.

La mano di Ephline si alza: “Posso farlo io”. Ephline era dotata per i numeri e aveva studiato ragioneria per lavorare in uno studio giuridico. Quando cercava lavoro nel suo settore precisava sempre al telefono: “Sono nera”. Ma 25 anni fa “la gente la rifiutava. Avere dei neri in ufficio metteva a disagio. Spesso mi dicono di non dirlo, ma è così”. Alla fine ha deciso di seguire Mylène, sua sorella infermiera al Quatre-Saisons.

Del resto nell’altra équipe è proprio Mylène che si è offerta volontaria per occuparsi degli undici “isolati”. Le due sorelle si alterneranno quindi in coppia, questione risolta senza una parola, né fra di loro né con gli altri. “È normale, non potevamo essere che noi”, spiega Mylène. In questa piccola casa di riposo tutti sanno tutto degli altri, le vite sono trasparenti come l’acquario all’entrata. Le due sorelle hanno dei figli già grandi, sono le più anziane del gruppo, 47 e 49 anni. In questo momento nella sala di riposo una questione ritorna frequentemente nelle discussioni: i bambini. Per quanto i medici si mostrino rassicuranti sulla capacità dei giovani a resistere al coronavirus, a dominare è la diffidenza. “Ci stanno veramente dicendo tutto? Chi si occuperà dei piccoli se dovesse succedere qualcosa?”.

Alcune residenti della casa di riposo raggiungono la sala dove si svolgerà l’ultima sessione di animazione prima dell’isolamento, marzo 2020. (Florence Aubenas, Le Monde)

Alla riunione Taoufik, un operatore sociosanitario, parla a una delle due sorelle. Vuole dimostrare la sua gratitudine: “Ti giuro che se avessi una mascherina te la darei”. Garcia deve sedersi. Ci sono storie che sono come un pugno nello stomaco, e quella delle mascherine è una di queste. Non cerca di nasconderlo. Con la voce rotta dall’emozione, dice: “Scusate, scusate, e grazie di essere qui. Vi voglio bene. Ci sono altre domande?”. Una voce femminile chiede con voce esitante: “Ci sarà un aumento di stipendio, soprattutto per quelli che faranno questo lavoro? Ci vuole del coraggio”. Garcia non risponde. La testa nelle mani, si è addormentato sulla sedia.

Sono le 15.30. Nella sala da pranzo Rosa comincia l’animazione del pomeriggio per gli anziani. È l’ultima prima di un nuovo isolamento nell’isolamento. Come molte altre Ehpad, anche questo centro non ha avuto scelta: le riunioni dei residenti saranno sospese, compresi i pasti, che tutti d’ora in poi dovranno prendere nella loro camera. Per quanto tempo? Non si sa. La giovane infermiera mette la musica, un vecchio successo della Compagnia créole, mentre Rosa in camice rosso acceso, un minuscolo chignon sulla nuca, si mette a ballare prendendo il microfono: “Forza, cantate tutti con me”. All’improvviso da un pubblico di carrozzine e deambulatori si leva un coro di voci fragili, alcune appena udibili, che ripetono tutte insieme: “Fa bene al morale, fa bene al morale”.

“Arrivederci signora”
Sabato 21 marzo, quinto giorno di isolamento

All’ingresso della casa di riposo due dipendenti delle pompe funebri hanno messo le loro tenute: tuta, tre paia di guanti, cuffia, copriscarpe e occhiali. “Sei sicuro di non dimenticare nulla?”. Cominciano a vestirsi minuziosamente quando uno di loro si ferma all’improvviso, il dito puntato verso un uomo del personale dell’Ehpad: “Non indossa la mascherina?”.

“Non ne abbiamo”.

Sotto la sua cuffia il dipendente delle pompe funebri non crede ai propri occhi: “Ma siete un settore a rischio, con persone anziane”.

“Non ne abbiamo”, ripete l’altro.

Il dipendente insiste: “Io senza mascherina non lavoro e questo vale per tutti”.

Al Quatre-Saisons un’anziana è morta nella notte.

Un corridoio della casa di riposo dopo l’avvio delle misure di confinamento, marzo 2020. (Florence Aubenas, Le Monde)

Le sue condizioni avevano cominciato a preoccupare una settimana prima, ma il pronto soccorso aveva rifiutato di ricoverarla: non rientrava nei criteri definiti durante la crisi. Il medico aveva promesso di passare verso mezzanotte. Intorno alle quattro di mattina ancora nessuno. La casa di riposo aveva cominciato a disperare. Alla fine la residente è stata trasferita all’alba. Un tampone è stato chiesto dall’équipe del Quatre-Saisons. La risposta: “Qui non facciamo tamponi, applichiamo la politica dello struzzo”. Ma a chi dare la colpa? Tutti sanno che l’ospedale è sull’orlo del collasso, i reparti sono allo stremo, i letti sono aggiunti ovunque, anche nei corridoi, le visite vietate tranne talvolta 15 minuti presso i malati in fin di vita. Si spera che qualche clinica privata possa accogliere alcuni convalescenti per evitare l’implosione. Alla fine il test viene fatto: negativo. Secondo la volontà dei figli, la signora è riportata nell’Ehpad dove una disposizione speciale li autorizza a passare un po’ di tempo insieme.

Sono le 10 di mattina quando la bara esce dal Quatre-Saisons. Alla finestra del primo piano due donne guardano la scena.

“Hai visto come erano vestiti quelli delle pompe funebri? Sembravano degli astronauti”.

“Mi sembra di non riconoscere più nulla, come se fossimo in un paese straniero”.

La bara viene caricata sul carro funebre.

“Io ho 87 anni e non mi importa di morire di questo virus o di un’altra cosa. E tu?”.

“Io vorrei essere sepolta nel Giura, ma con questo guaio sarà possibile? Mah, nel dubbio preferisco aspettare un po’”.

Le macchine vanno via.

“Guarda, se ne va. Mi fa un effetto strano”.

“Arrivederci signora”.

“Dove l’hai presa?”
Domenica 22 marzo, sesto giorno di isolamento

Myriam è stata la prima ad averla. Arriva al lavoro con il volto coperto da una mascherina, un modello ffp2, più efficace di quello di solito utilizzato nelle Ehpad. Suo marito le ha comprato sotto casa nel loro quartiere di Bagnolet a 50 euro la scatola da 20 pezzi. L’infermiere di guardia la osserva con occhio esperto: “Un prezzo non eccessivo”. Prima del coronavirus costavano un euro in farmacia. Tutti i colleghi si avvicinano a Myriam per vedere più da vicino la meraviglia. Gli occhi di Myriam si muovo veloci sopra l’ffp2. Qui le mascherine sono diventate il simbolo della crisi sanitaria. “Oggi se lasci sul tavolo il cellulare e la mascherina, ti rubano la mascherina”, dice uno del personale.

Myriam lo ammette: “Ho avuto spesso problemi di salute”. Quattro figli ancora piccoli, la casa da tirare avanti, la vita insomma. Ma in questo momento si scopre un’energia inesauribile per andare al lavoro. C’è questa voglia di essere presenti, sempre, l’adrenalina che sale attraversando la città deserta, l’impressione che il suo lavoro di donna delle pulizie abbia preso un’altra dimensione. Con l’isolamento i ruoli a casa si sono rovesciati: suo marito rimane a casa, mentre lei va a lavorare. L’altro giorno si è ritrovato per la prima volta in vita sua a fare il bagnetto ai figli. Di nascosto spinge i figli a supplicarla: “Mamma, rimani con noi!”.

Il telefono suona. È suo marito, la prima di una serie interminabile di telefonate che si scambiano durante tutta la giornata: “Allora vuoi continuare?”, le chiede il marito. Lei si mette a ridere. “Smettila di angosciarti. Come farebbero gli altri se andassi via?”. “Almeno hai messo la mascherina?”, le chiede il marito.

Nelle camere è l’ora del caffelatte, del pane e burro e del succo d’arancia. No, niente succo d’arancia, la consegna non è stata fatta. Mancano anche gli affettati, che piacciono tanto a Daniel. Lui esce di corsa dalla camera in canottiera e bretelle. “Che ci rimane come piacere? Datemi direttamente una pistola, voglio morire per non vedervi più!”. Un’anziana cammina per il corridoio in camicia da notte ripetendo sempre sullo stesso tono: “Mamma, ho paura, adesso mi picchia”. Dietro la sua ffp2 Myriam la prende per il braccio parlando ad alta voce per farsi sentire. “Ma chi la picchierà? Me lo faccia vedere e ci penso io”. All’improvviso si ritrova di fronte a una collega, anche lei con la mascherina. Un momento di sbigottimento. Entrambe esclamano nello stesso momento: “Dove l’hai presa?”. La collega non vuole dire il prezzo. “Non posso dirlo è un regalo di mio figlio. La metto per lui”. Arriva il direttore Prono: “Vedo, signore, che abbiamo delle mascherine. Se conoscete un sistema per averle fatemi sapere”.

Nell’istituto Quatre-Saisons, Bagnolet, marzo 2020. (Florence Aubenas, Le Monde)

Rosa non è di servizio ma è venuta lo stesso dopo il mercato di Romainville. Le tasche piene di mandarini che distribuisce nelle camere: i prezzi sono raddoppiati dopo una settimana di isolamento. Solo tre venditori hanno messo il loro banco. “Continua ancora questa storia del virus?”, chiede un uomo steso sul suo letto.

Dopo il passaggio delle pompe funebri si è diffusa la voce di una morte al Quatre-Saisons. Le famiglie chiamano, una dopo l’altra. “Si è diffuso il virus da voi?”. Rosa risponde ad alta voce al telefono: “No, no, non ci sono casi da noi”.

Un figlio insiste: “Ci sono dei problemi? Mia madre sta bene? Perché grida?”.

“È l’abitudine a parlare ad alta voce ai residenti. Ormai parlo così anche a casa”.

Nel piccolo giardino dell’istituto – qualche cespuglio che sovrasta le vicine case popolari – delle ragazze fumano, altre discutono. Myriam aspetta il momento giusto per chiamare il marito. Gli dirà: “Preparati, arrivo”. E sarà la stessa scena come tutti gli altri giorni. Aprirà la porta e griderà ai figli: “Mettete le mani davanti agli occhi”. Poi all’ingresso si toglierà di corsa tutti i vestiti per non contaminare nessuno e correrà nuda a farsi la doccia. Il telefono suona. È lui.

“Hai sentito?” chiede il marito.

“Cosa?”

Un medico di Compiègne è morto, è il primo a cadere. Grace spegne la sua sigaretta. La voce fredda: “Ieri toccava alla Cina, oggi ai nostri colleghi. Ormai il virus è fra noi”.

“Se ce l’ha lei, ce l’ho anch’io”
Lunedì 23 marzo, settimo giorno di isolamento

Accovacciata vicino all’ascensore, Sihem ripara il deambulatore della signora Dupont. Un colpo di tosse scuote la vecchia signora e Sihem sente qualche gocciolina di saliva caderle sul volto. “Questa è la volta buona”, pensa la donna. “Se ce l’ha lei, ce l’ho anch’io”. Sihem si rialza. Bisogna riprendersi. Evitare di pensare al peggio. Continuare il giro mattutino dicendosi: “C’è una guerra e siamo l’esercito, dobbiamo essere coraggiosi”.

Nel corridoio incrocia Tiana. L’infermiera guarda il termometro. “Attenzione signora Dupont ha la febbre alta, 39,1”. Sihem si sente svenire. Dopo le misure di contenimento anche quando dorme la sua testa rimane qui, nella casa di riposo. E adesso si chiede: “Chi è malato? Chi non lo è? Come saperlo quando si entra in una camera?”. Le Ehpad hanno diritto a solo tre controlli per i residenti e nessuno è stato realizzato in questo istituto, dopo il parere della dottoressa Claire Bénichou e di uno specialista di malattie infettive.

All’ingresso Arnaud Dubédat, il medico della signora Dupont, ferma Sihem.

“Mi sa dire oggi chi si è occupato della signora Dupont?”.

“Io”.

“Quanti anni ha?”.

“37”.

“Ha dei figli?”.

“Una figlia di 12 anni”.

Al pensiero della sua piccola meraviglia qualcosa si gonfia nel petto di Sihem. La rivede, il giorno prima, quando le aveva proposto di portare giù la spazzatura. La bambina aveva voluto pettinarsi, vestirsi, tutta eccitata alla sola idea di mettere il naso fuori di casa. Era la sua prima uscita in una settimana. È angosciata all’idea che sua figlia possa essere costretta a vivere la stessa situazione.

Il medico la guarda. “Sarò sincero, la signora Dupont ha probabilmente i sintomi del Covid-19”.

Sono le due del pomeriggio quando due infermiere sono inviate a farsi controllare. Tosse, febbre, senso di spossatezza. Il tampone ha luogo nel laboratorio accanto, una poltrona messa in un angolo di un parcheggio dietro qualche telo di protezione. Un infermiere del Quatre-Saisons è già venuto prima. A causa delle troppe richieste nessun risultato viene dato prima di tre giorni. Sihem chiede di fare il tampone, ma anche in questo caso manca il materiale. Bisogna avere i sintomi per avere diritto al test. Anche se indispensabile per i residenti, il personale di pulizia è inizialmente escluso dai tamponi: ci sono volute le proteste di diversi medici, fra cui la stessa dottoressa Bénichou, per permettere loro di beneficiarne.

In fondo alla strada i piccoli spacciatori sono scomparsi. Fine delle scorte, la merce non arriva più.

“Vuole che chiami suo figlio?”
Martedì 24 marzo, ottavo giorno di isolamento

Ci vuole un certo tempo per capire la causa del silenzio che regna ai vari piani. Di fatto le televisioni sono spente, quasi tutte. C’è solo quella di Daniel ancora seduto di fronte a Primi baci, la sua serie preferita, le avventure amorose di un gruppo di liceali. “Perché no? Vedere dei ragazzi in questo mortorio fa piacere”. Nonostante le misure di isolamento gli altri residenti hanno spento tutto. “Si parla solo di morti, non ce la faccio più”, dice un’infermiera in pensione.

Nella sua camera la signora X guarda il vassoio del pranzo senza capire. È la prima a essere stata isolata. “Che cosa devo fare?”, si chiede. Prende la forchetta, la riposa, disorientata, a causa della solitudine i punti di riferimento sembrano cancellarsi uno dopo l’altro. Per il cuoco Hervé dall’inizio dell’isolamento i residenti mangiano la metà rispetto a prima. “Se continua così bisognerà forse permettere ad alcuni parenti di venirli a trovare”, suggerisce la psicologa Lorette, che passa da una camera all’altra.

“Vuole che chiami suo figlio?”.

“Non so se troverò qualcosa da dirgli, è tutto così confuso. Ditegli semplicemente che mi trattano bene”.

Nell’istituto Quatre-Saisons, marzo 2020. (Florence Aubenas, Le Monde)

Un’operatrice comincia le operazioni di pulizia. Che giorno è oggi? Non riesce a ricordare. Anche per il resto del personale il calendario comincia a confondersi, un tempo che non è più scandito dalla scuola o dalle altre attività. I negozi autorizzati aprono e chiudono quando vogliono. “Ogni minuto è diventato una lotta”, dice l’infermiera. “Faccio fatica a pensare al futuro”.

Alla riunione del mattino l’infermiera Tiana è la prima a parlare: “Non ve lo nascondo, prima di arrivare ho pianto”. Sara è appena arrivata, accompagnata in macchina dal figlio. “Non vuole che mi metta accanto a lui. Mi fa salire dietro, come un cane. Mi vergogno”. Questa donna di 56 anni si occupa delle pulizie. Per la prima volta da quando si è sposata, suo marito ha chiamato la suocera: “Sua figlia preferisce il lavoro a me”. Lui fa la guardia privata e diventa matto a rimanere a casa. Tutte le sere ripete: “Porterai il virus a casa e dormiamo nello stesso letto”. Lui, il confinato, si sveglia la notte scosso dalla tosse. Si tratta di tosse nervosa, assicura il medico. Un’infermiera dorme sul divano. A casa di un’altra infermiera i cuscini dividono il letto matrimoniale: “Mi trattano come un’appestata”. La madre la chiama tutte le sere per supplicarla di mettersi in malattia. Non è sicura di poter continuare a venire. “Vi chiedo molto e avete il diritto di detestarmi”, spiega Garcia. “Nessuno ce l’avrà con voi se rimanete a casa. Ma vi supplico, per gli anziani e per i colleghi, non avvertitemi all’ultimo momento”. All’ingresso tutta l’équipe si mette in posa dietro uno striscione: “Grazie alle nostre famiglie che ci lasciano venire”.

“Credi che sia vero? Applaudivano anche me?”
Mercoledì 25 marzo, nono giorno di isolamento

Per nessun motivo al mondo Martine mancherebbe l’appuntamento delle 20, quando i francesi si mettono alla finestra per applaudire tutti insieme il personale medico. Ne ha fatto una festa con le figlie, ognuna si trucca di nuovo per apparire più carina di fronte ai vicini. Questa volta un tipo dall’altra parte della strada le rivolge la parola, si tratta del vicino che abita nella villetta di fronte con la Volvo. “Mi scusi, non è per caso infermiera o qualcosa del genere?”. Martina arrossisce. “Sono un’operatrice sociosanitaria”. Abbassa la voce quando dice che lavora nell’Ehpad Quatre-Saisons, a Bagnolet. Quando il tipo ha applaudito più forte guardandola negli occhi e gridando “Brava!”, Martina ha pensato che volesse prenderla in giro. Niente affatto. “È anche lei che ringraziamo tutte le sere”, ha precisato il vicino. Lei non ci aveva mai pensato. Non avrebbe mai osato. Di solito chi lavora nelle Ehpad si porta dietro un’immagine che non ha niente a che vedere con gli ospedali dove si fa la “vera” medicina. “Tu pulisci il culo dei vecchi”, ha scherzato un giorno un’amica. A forza di sentire cose del genere Martina si è abituata e dice di non farci più caso. Alle 20.05, chiudendo la finestra, chiede alla figlia più grande: “Credi che sia vero? Applaudivano anche me?”.

“Il virus lo abbiamo avuto tutti almeno per cinque minuti”
Giovedì 26 marzo, decimo giorno di isolamento

La soluzione idroalcolica è finalmente consegnata, 15 litri a 130 euro invece di 75, abbastanza per tenere una settimana. In compenso sul mercato non si trova più un termometro. Ma la grande notizia viene dal direttore. “Alle 14 vado a recuperare uno scatolone di 350 mascherine. D’ora in poi ne avremo tutte le settimane”. Ha dato l’informazione a modo suo, a voce bassa, con aria distaccata, come se fosse normale. La dottoressa Bénichou e Laurent Garcia hanno aspettato di vedere il cartone sul tavolo prima di crederci.

Alle 16.30 comincia la prima riunione in cui tutta l’équipe indossa una mascherina. Ce ne saranno due al giorno per il personale delle pulizie e tre per gli infermieri. Peccato che gli abbracci siano vietati.

I preparativi per la distribuzione dei pasti nelle camere dopo l’isolamento dei residenti, marzo 2020. (Florence Aubenas, Le Monde)

Ma all’improvviso l’atmosfera diventa molto pesante. I risultati dei tamponi sono arrivati: due colleghi su tre sono risultati positivi, i primi della casa di riposo. Gli occhi si muovono velocemente sopra le mascherine, ognuno cerca l’altro con lo sguardo. Si discute a voce bassa.

“Lo dirai a tuo marito?”.

“Non lo so”.

“Pensi che siamo obbligati?”.

“Ormai è così. Che cosa succederà?”.

L’animatrice Rosa si alza: “Non avevo paura, ma adesso devo ammetterlo: sì, ho paura”. Dice inoltre di non sentirsi bene. “Mi vedete? Peso 90 chili ma in realtà non ho una buona salute”. E a pensarci bene, accumula tutti i sintomi del virus. Adesso si palpa il ventre, la testa, la gola. “Basta Rosa, non è la prima volta che ci annuncia la sua morte”, scherza Garcia, detto anche l’animatore – è il suo soprannome dopo che ha lasciato il camice da infermiere per entrare 12 anni fa nell’amministrazione sanitaria. Anche lui, come tutti, ha avuto il suo momento difficile, un po’ prima in mattinata. Con voce debole ha chiesto all’infermiera: “Può prendermi la temperatura per favore?”. 36,4°. Il sorriso ritorna. “Il virus lo abbiamo avuto tutti almeno per cinque minuti”. Un’operatrice sociosanitaria lo interrompe. “Signor Garcia ci promette che quando qualcuno sarà infettato ce lo dirà?”.

“Peccato, la mia famiglia non potrà venire”
Venerdì 27 marzo, undicesimo giorno di isolamento

Nella sua camera un’anziana ha messo le sue foto sulle ginocchia e uno dopo l’altro accarezza i volti. I ricordi le tornano in mente, i matrimoni, i drammi, la guerra. Vivevano gli uni con gli altri, tutti insieme. “Non lasci la camera, è in isolamento”, le ha raccomandato l’infermiera incaricata del suo piano. La donna è triste: “Peccato, la mia famiglia non potrà venire”. L’infermiera non dice nulla. Entrambe sanno bene che non ha mai visite. L’anziana si alza dalla sua poltrona. Entra nell’ascensore. All’ingresso non c’è nessuno. Solo qualche passo la separa dalla porta vetrata che si apre sulla strada. E se uscisse? Un’occhiata sul marciapiede, deserto. È vero, adesso se ne ricorda, tutta la Francia è in isolamento. Lo ha visto al telegiornale. Un pensiero le viene in mente. E se tutto il paese fosse diventato una gigantesca Ehpad, ognuno a casa sua, divieto di uscire, nulla da fare se non mangiare? La donna comincia a ridere come non rideva da tanto tempo.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Le Monde.

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