29 luglio 2016 20:00

“Mi raccomando, scrivi un bell’articolo di propaganda sulla Repubblica democratica popolare di Corea”, mi dice Kim, 28 anni, una delle mie due guide, quando ci salutiamo all’aeroporto di Pyongyang dopo una settimana trascorsa insieme. Avendo vissuto tutta la vita immerso in un’atmosfera satura di propaganda, dice sul serio. Per lui la parola “propaganda” non ha un’accezione negativa. Kim sa che i giornalisti stranieri in genere parlano male del suo amato paese e li ritiene responsabili della cattiva reputazione che la Corea del Nord ha nel mondo. Mi chiede di fargli “il lavaggio del cervello”, riferendosi ai lettori italiani. “Non è il mio lavoro fare propaganda, e forse nessuno dovrebbe fare il lavaggio del cervello a nessun altro, tanto meno se si tratta di un governo e dei suoi cittadini”, rispondo. Poi ci salutiamo.

Loro sanno, più o meno, come la penso sul regime nordcoreano, ne abbiamo parlato nei giorni passati insieme in cui, tolta la notte, non mi hanno lasciata sola un secondo. È la precondizione per poter visitare la parte nord della penisola coreana, lo sapevo e ho gradito la loro compagnia, anche se imposta. Le guide sono abituate agli occidentali, sanno che sono diversi, che non capiscono. Ed è così. Nessuno può davvero capire se non è cresciuto come Kim, Choe e il fotografo mandato dal dipartimento della propaganda perché si assicuri che le foto che scattavo fossero “idonee”. E cancelli, eventualmente, quelle proibite.

Quando otto giorni prima mi hanno accolto all’aeroporto, si aspettavano che arrivassi con una fotocamera professionale a tracolla e si sono sorpresi che avessi con me solo un innocuo smartphone. Un equivoco che mi avrebbe permesso, nonostante fossi una giornalista, quindi “potenzialmente pericolosa”, di scattare foto e girare video in quasi totale libertà.

Prima di cominciare, però, una questione importante da risolvere. Sapevo che i telefoni cellulari non vengono più sequestrati all’arrivo e restituiti alla partenza, come succedeva fino al 2013, e che forse era addirittura possibile procurarsi una carta sim locale. Le informazioni in merito raccolte prima di partire non erano chiare. Chiedo conferma, e in cinque minuti, per poche decine di euro, ho una sim della Koryo Link per chiamare all’estero (a 2,50 euro al minuto) e ricevere (dall’Italia, avrei scoperto poi, i numeri nordcoreani risultano inesistenti), ma senza 3G per internet.

“Costerebbe più di 200 euro”, mi spiega Choe facendomi capire che non è il caso. “E ci sono posti con il wifi?”, chiedo sapendo già la risposta. “Wi Fi?”. Choe e la signorina della Koryo Link, che poco prima aveva maneggiato con grande abilità il mio smartphone, si guardano interdette e guardano me con aria interrogativa. Non sanno di cosa sto parlando. Lo sa invece il giovane Kim, che interviene ridendo e scuotendo la testa: “No, no, niente wifi”.

Prendere le misure

È una mattina di fine giugno dell’anno Juche 105 e Pyongyang ci accoglie con un cielo blu sgombro di nuvole. Ci muoviamo su un minivan insieme agli altri due compagni di viaggio, l’autista e il fotografo, che si reinventa nel ruolo di paparazzo: documenterà la mia visita dal primo giorno all’ultimo. La strada che collega l’aeroporto alla città è piuttosto malmessa, e il pulmino salta su crepe e buche. Non sapendo fino a dove posso spingermi nella conversazione, provo a prendere le misure: “Anche a Roma le strade sono malandate, pensate che abbiamo appena votato per il nuovo sindaco e le buche sono state un tema della campagna elettorale”. Come succederà altre volte in seguito, quando chiacchierando accenno a questioni vagamente sensibili o semplicemente non molto gradite, le mie guide nicchiano e lasciano cadere l’argomento. Se esplicitamente sollecitati, invece, dicono la loro, sono preparati, raramente si fanno mettere in difficoltà.

La metropolitana di Pyongyang, costruita nei primi anni settanta, ha due linee e fermate che si chiamano Prosperità, Gloria, Torcia, Vittoria, Riunificazione, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Choe è una simpatica donna di 41 anni che parla spagnolo e quindi a volte viene assegnata ai visitatori italiani. Come Kim, si è laureata all’università di studi stranieri ma in più ha vissuto quattro anni a Cuba quand’era alle superiori, all’inizio degli anni novanta. Dopo una visita in Corea del Nord, Fidel Castro propose al presidente Kim Il-sung uno “scambio culturale” e un gruppo di studenti di Pyongyang fu mandato a Cuba.

Incontrare una nordcoreana che ha visto un altro paese non è molto comune, penso. “Ti è piaciuta? Il mare, l’Havana…com’era?”, chiedo curiosa. “In realtà non sono mai uscita dalla Isla de la Juventud, l’Havana l’ho vista dal pullman il giorno che siamo ripartiti, non me la ricordo”. Nemmeno i contatti con la gente del posto, mi spiega, erano permessi, a parte quelli con gli studenti e il personale della scuola (“è stato un cuoco a darci la notizia della morte del presidente Kim Il-sung, nel luglio del 1994, l’aveva sentito alla radio, noi non ci credevamo, pensavamo scherzasse”). Fa la guida da nove anni, ha un marito e una figlia di 14 anni e vive con i suoceri, in pensione. Si capisce che ha esperienza, che ha avuto a che fare con molti stranieri e che, oltre alle informazioni sugli altri paesi che ha studiato per lavoro, ne ha assorbite molte altre dai turisti che ha incontrato. Pur vivendo completamente isolata, quindi, ha un’idea del mondo un po’ più articolata rispetto al suo collega.


Kim, taglio di capelli come quello del maresciallo Kim Jong-un e di molti giovani uomini che si vedono in giro (molti, non tutti), fa la guida per la Kitc, l’agenzia turistica del governo, solo da tre mesi, prima faceva il cantante. Appartiene a una famiglia altolocata, madre medico e padre docente universitario, lavorano ancora entrambi (le donne, mi dicono, vanno in pensione a 55 anni, gli uomini a 60), abitano nella zona più centrale della città. A 28 anni vive ancora con i suoi perché non è sposato, quindi non ha diritto a una casa per sé. “Una volta ci si sposava prima, le donne a 24 anni e gli uomini a 28, oggi l’età media si è alzata, come nel resto del mondo, credo sia una moda. Noi non possiamo uscire da qui ma la moda si è diffusa lo stesso, strano, no?”, mi dice Choe.

L’incontro con le mie due guide, che oltre a essere guide sono balie, guardiani, interpreti, compagni di viaggio e commensali a pranzo e a cena, è fortunato. Ci siamo simpatici, chiacchieriamo, scherziamo, conosciamo le regole e non intendiamo trasgredirle. Dal secondo giorno Kim comincia a chiamarmi noona (sorella maggiore, l’appellativo usato dagli uomini con le donne più anziane di loro), ridendo ogni volta. Io, mi dice, posso chiamarlo dongsaeng (fratellino).

“Non avevi paura di venire qui? Nessuno ti ha detto ‘ma dove vai, è pericoloso’?”, mi chiede Choe sorridendo. “In genere gli stranieri il primo giorno hanno paura e stanno zitti, dal secondo giorno si rilassano e cominciano a parlare”. Registro tutto quello che mi dicono sapendo che il loro scopo è che io alla fine della settimana parta con un’impressione positiva del loro paese. “Vedere per credere”, mi ripete ogni tanto Kim. Giusto, ma io vedrò solo quello che voi siete autorizzati a mostrarmi. E tutto quello che crederò di intravedere in più, difficilmente potrò verificarlo.

Gli edifici sono dipinti con colori pastello, non allegri ma nemmeno così tetri

Il colpo d’occhio dalla collina Moran non è così male. Mi ci portano per l’inchino rituale davanti alle statue imponenti dei due leader defunti – il presidente eterno Kim Il-sung e il generale Kim Jong-il – dopo uno sguardo veloce all’arco di trionfo (“Conosci quello di Parigi? Questo è tre metri più alto”). Tagliata a metà dal fiume Taedong, che scorre da est a ovest formando una S, Pyongyang non è grigia e cupa come ci si potrebbe aspettare. Gli edifici, in gran parte palazzoni o grattacieli con abitazioni e uffici – ma anche musei, teatri, palasport, molti monumenti e un quartiere futuristico inaugurato da poco – sono dipinti con colori pastello, non allegri ma nemmeno così tetri.

Le aree verdi, tenute pulite con una cura maniacale da donne (“perché sono più abili nel lavoro di fino”) che si possono vedere a qualsiasi ora del giorno accucciate nelle aiuole a strappare l’erba ingiallita, ingentiliscono l’aspetto di una città evidentemente non ricca ma tutto sommato dignitosa. Il problema, ho poi saputo da un ingegnere che lavora lì per un’organizzazione internazionale, è che nell’edilizia alcuni standard di sicurezza non vengono rispettati e “mentre il calcestruzzo, per dire, dovrebbe riposare quindici giorni, qui si continuano i lavori senza aspettare”.

Negozi, pochissimi e quasi invisibili. Oltre che ai department store n.1 e n.2, gli abitanti di Pyongyang fanno la spesa in piccole drogherie anonime, nessuna insegna, niente vetrine. L’unica concessione a un’immagine di città vagamente familiare per uno straniero sono i chioschetti che vendono bibite e snack per la strada. La Corea del Nord ha quasi 25 milioni di abitanti più o meno distribuiti così: 2,5 milioni nella capitale, altri 2,5 milioni circa divisi nei nove capoluoghi di provincia, tutti glialtri sono contadini che vivono e lavorano nelle cooperative agricole di cui è costellato il paese. Chi vive a Pyongyang è decisamente più fortunato degli altri.

Un giro al bowling

Alle sette di mattina di sabato per le strade della capitale il ritmo è quello di un qualsiasi giorno feriale. Studenti in divisa che vanno a scuola, impiegati che camminano in fretta verso l’ufficio, molta gente in bicicletta e in tram, un po’ di auto (non sono molte, ma le strade non sono deserte). Molti hanno un libro rosso in mano, alcuni, fermi al semaforo, lo sbirciano.

Durante la settimana si va a scuola o al lavoro in anticipo per fare le pulizie, oggi invece si va per studiare la storia dei leader e la juche (l’ideologia ufficiale nordcoreana, incentrata sull’idea di autosufficienza su cui si basa il sistema politico del paese). Tre ore di studio collettivo con i compagni di scuola e i colleghi, e poi un po’ di studio individuale. Un rito che comincia dall’asilo con le canzoncine dedicate alle gesta dei Kim e che continua a scandire la vita adulta fino alla pensione. Poi, mi dicono, ci si può riposare. L’unico vero giorno di ozio, dunque, è la domenica. La sensazione, però, è che le attività legate al Partito, alla “costruzione socialista” e allo “sviluppo del paese” (concetti ricorrenti nelle conversazioni e a cui sembra finalizzata la vita di ogni nordcoreano) non finiscano mai e che l’idea di tempo libero non organizzato non esista.

L’acquafan di Pyongyang, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

In ogni caso, nel pomeriggio la sala da bowling è piuttosto affollata, c’è una squadra di professionisti che si allenano, riconoscibili dalla pettorina con il numero, ma c’è anche gente comune, quasi tutti giovani, che sono lì per divertirsi. Insieme ai tre parchi giochi – di cui almeno due progettati e costruiti da ditte italiane, del terzo non sappiamo – e all’acquafan “voluto dal maresciallo Kim Jong-un e inaugurato nel 2013” – come mi spiega la signorina che mi offre una visita guidata di questo enorme e affollato complesso di piscine coperte e scoperte, piccole, medie, olimpioniche, con e senza le onde, acquascivoli, campi da tennis, da basket e da pallavolo – il bowling è uno dei luoghi di svago per l’élite della capitale (per élite s’intende la ristretta idea di classe media che sta prendendo forma a Pyongyang e può permettersi di pagare per divertirsi).

In una settimana, nel mio hotel incrocio un paio di gruppi di turisti cinesi e due coppie nordeuropee

Ad accogliere i visitatori nella hall di marmo chiaro all’ingresso dell’acquafan, una statua di cera iperrealistica del generale Kim Jong-il che sorride in piedi su una spiaggia accanto a un ombrellone e a una sedia di plastica; sullo sfondo, cielo e mare dipinti di blu. Ci dobbiamo inchinare e purtroppo non si possono fare foto (uno dei rari casi in cui me lo vietano). “Il maresciallo Kim Jong-un ha visitato il parco otto volte”, mi dice la guida come prima cosa. È un refrain che ritorna ogni volta che visitiamo un posto nuovo, che sia l’acquafan, il museo della scienza e della tecnica, il tempio buddista del 1300, la cooperativa agricola, il museo della guerra, la clinica ginecologica: la prima informazione fornita dalle guide locali è quante volte quale leader ha visitato quel luogo e, se in alcune di quelle occasioni ha detto qualcosa di memorabile (“Questo tempio è molto antico, bisogna preservarlo per le future generazioni”), ci sarà di sicuro una targa a ricordarlo.

Una domenica al parco a Pyongyang, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Domenica, al parco, l’atmosfera è molto rilassata. Gruppi di signore anziane che si ritrovano per mangiare e cantare insieme, coppie o famiglie con bambini che fanno il picnic sotto gli alberi, ragazzini che dipingono, due neosposi con fotografo al seguito che posano per il servizio di nozze. Il parco è curatissimo, con salici, un laghetto e un viale che si arrampica su una collina verso una terrazza panoramica. Potremmo essere in una qualunque città di un qualunque paese medio-ricco.

Gli stranieri che incontro in giro sono pochi. In una settimana, nel mio hotel – una torre di 47 piani soprannominata affettuosamente Alkatraz dagli occidentali perché si trova su un’isola in mezzo al fiume, dove non è possibile girare a piedi – incrocio un paio di gruppi di turisti cinesi e due coppie nordeuropee. Altrove, nei musei e nei ristoranti turistici quasi sempre vuoti dove andiamo a mangiare dentro e fuori Pyongyang, ne vedo un paio.

Ce n’è uno seduto nel primo banco della chiesa protestante che mi portano a visitare senza che l’avessi chiesto. Essendo italiana, avranno pensato che mi avrebbe fatto piacere andare a messa, penso. Arriviamo che la funzione delle dieci è già in corso. C’è il coro che canta, tra i banchi una quarantina di persone, quasi tutte donne, alcune pregano a occhi chiusi, o forse dormono. Finita la musica, il prete (o un uomo vestito da prete) attacca con la predica. Kim mi spiega che sta parlando della celebrazione della “lotta contro gli imperialisti americani”, culminata il giorno prima con una grande parata per commemorare l’inizio della guerra di Corea, il 25 giugno 1950.

Sul banco davanti a noi, la Bibbia e il libro dei canti con il testo a fronte in inglese. Più che una dimostrazione di tolleranza religiosa, la conferma che in questo paese non c’è luogo o situazione esenti dalla propaganda (anche il monaco buddista nel tempio sulla montagna, che ingenuamente pensavo vivesse in un’oasi, a un certo punto ha accennato alla “prosperità del paese sotto la guida del maresciallo Kim Jong-un”).

La serra dove sono esposti esemplari di kimjonghilia (la peonia dedicata a Kim Jong-il) e di kimilsunghia (l’orchidea dedicata a Kim Il-sung) a Pyongyang, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Passeggiando per la città (attività non scontata e concordata prima della mia partenza dall’Italia) è forte la sensazione di essere una presenza rara e in quanto tale oggetto della curiosità delle persone che incrocio, mentre fuori da Pyongyang la certezza di essere l’equivalente di una marziana è scritta sui volti attoniti di chi mi circonda. Mentre io e Choe chiacchieriamo, Kim ci segue o ci precede assicurandosi che sul nostro tragitto non ci siano “pericoli” (sguardi troppo insistenti, scene poco decorose che potrebbero guastare la mia visita, come la signora che cerca qualcosa in un cestino all’uscita del parco e che lui intercetta troppo tardi per deviare il percorso – la vede, guarda se l’ho notata, sì, l’ho notata, sta rovistando, sarà l’unica ombra in otto giorni – o come il ragazzino in campagna che ci segue per un po’ mantenendo una distanza di sicurezza e lo sguardo ipnotizzato sulla prima persona straniera che vede in vita sua e che Kim allontanerà dicendogli qualcosa pensando che io non me ne accorga).

“Ma dottore, se vedessero uno straniero che guida una macchina cosa penserebbero?”, si è sentito replicare dal suo liaison officer (“l’accompagnatore” che lo segue ovunque ) Luciano Rovesti, il responsabile della cooperazione italiana in Corea del Nord, alla richiesta di potersi muovere con la sua auto nelle campagne come gli è permesso fare nella capitale. Già, cosa penserebbero?

Rovesti, oltre a svolgere la funzione di responsabile dell’ufficio della cooperazione italiana a Pyongyang (l’unica rappresentanza italiana in loco, dato che non c’è una sede diplomatica di Roma a Pyongyang e l’ambasciata a Seoul è competente anche per il Nord), è un agronomo e segue il progetto di cooperazione del governo italiano nel paese (nota tecnica: le sanzioni dell’Unione europea vietano la cooperazione allo sviluppo con la Corea del Nord, quindi per Roma si tratta di aiuto umanitario, mentre Pyongyang, che nel 2006 ha cacciato tutte le organizzazioni e ong internazionali negando che ci fosse un’emergenza umanitaria, lo considera cooperazione allo sviluppo. Dopo il 2006 sei ong straniere sono rimaste accettando di lavorare senza usare il loro logo e senza alcuna visibilità, sotto la denominazione European Unit).

Rovesti lavora in una provincia rurale per aiutare una dozzina di cooperative agricole a migliorare la produzione di riso che, con i pochi strumenti a disposizione e la qualità del terreno non eccellente, è sotto la media regionale. “La produzione è scarsa, mediamente circa quattro tonnellate per ettaro, quando la media in questa regione dell’Asia è sei tonnellate”. Il riso è il genere alimentare primario distribuito dallo stato ai cittadini, insieme ad alcuni altri cereali e patate. Il problema è che dovrebbe garantirne quasi 600 grammi a testa al giorno, ma da anni ne distribuisce non più di 3-400 grammi.


La differenza tra Pyongyang e il resto del paese salta agli occhi non appena si esce dalla città. La strada che dall’Arco della riunificazione, alle porte della capitale, punta dritto verso sud e, in teoria, prosegue oltre il confine militarizzato, è quasi deserta e attraversa distese di risaie che compaiono quando la città non ce la siamo ancora lasciata alle spalle. Siamo diretti verso Kaesong, città di 300mila abitanti vicino alla frontiera, 170 km a sud della capitale. Da lì provengono i 50mila operai che lavoravano nel polo industriale cogestito da Pyongyang e Seoul fino allo scorso febbraio, quando dopo l’ultimo test nucleare nordcoreano Seoul ha deciso di andarsene.

Un altro mondo, un altro tempo

Nel tragitto incontriamo contadini a piedi o in bicicletta, gente che lavora nelle risaie e nei campi con la zappa e l’aratro di legno trainato dai buoi, donne che lavano i panni o si lavano i capelli nei ruscelli e nelle pozze d’acqua, un bambino che governa le anatre. I volti e le braccia bruciati dal sole, le schiene curve. A un certo punto imbocchiamo delle strade più strette che attraversano i campi. Sono ricoperte di paglia perché in mancanza della trebbiatrice per sgranare i cereali ci fanno passare sopra i carri con i buoi. È un altro mondo, un altro tempo anche rispetto a Pyongyang, potrebbe essere l’Italia rurale degli anni cinquanta.

A metà strada facciamo una sosta alla cooperativa agricola di Sariwon, capoluogo della provincia di Nord Hwanghae: palazzi colorati, monumenti al Partito dei lavoratori, cartelloni della propaganda, tappa di ogni tour in Corea del Nord. Al museo, dove sono esposti attrezzi da lavoro e gigantografie incorniciate dei leader in versione bucolica, ci fa da guida una ragazza, figlia, mi dicono, di un contadino modello. Siamo gli unici visitatori, quindi apre il museo per noi, ci mostra quel che c’è da vedere e ci spiega che lì si produce molto più riso che altrove.

Finita la visita, chiude e ci porta a casa sua, lì accanto, una delle decine di casette basse con tetto a pagoda, orticello e pergolato di vite americana davanti all’ingresso. La casa è piccola, molto modesta, alle pareti le foto del presidente Kim Il-sung insieme a suo padre, per terra della plastica adesiva appiccicata alla bell’e meglio e scollata lungo il perimetro. Delle ghirlande di plastica adornano gli stipiti delle porte. Ci vivono in tre, lei e i genitori.

Cooperativa agricola di Sariwon, nella provincia di Nord Hwanghae, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Durante la carestia della metà degli anni novanta chi ha sofferto di più sono stati i contadini. “A Pyongyang arrivavano generi alimentari importati, ma nelle campagne il cibo mancava”, si ricorda una delle mie guide. A parte un paio di grandi aziende agricole gestite direttamente dallo stato (di cui una di mele trentine, frutto di una delle missioni del senatore Antonio Razzi), la produzione è organizzata in cooperative. Lo stato, mi spiegano, compra il 40 per cento del raccolto, il resto lo tengono i coltivatori per la loro sussistenza. Tutto quello che producono in più possono venderlo al dettaglio.

Le cose, mi dirà poi una persona informata, non stanno proprio così. Lo stato non “compra” ma “trattiene” quasi sicuramente più del 40 per cento, il capo della cooperativa può gestire il raccolto in eccesso che però, con i metodi di coltivazione tradizionali – zappa e aratro trainato da buoi –, se c’è non è granché. Ogni cittadino (proprio tutti?) deve dare una mano nei campi 70 giorni all’anno (gli studenti meno), buona parte nel periodo del trapianto del riso, in estate. Giornate chinati con le gambe immerse nell’acqua e nel fango a sistemare in maniera perfettamente simmetrica le piantine. “C’è chi usa gli stivali di gomma, ma con quelli muoversi nella risaia è difficile, quindi in genere si sta scalzi”, mi spiega Choe.

La Corea del Nord è anche un paese dove una ragazza di città guarda con un po’ di spocchia le ‘campagnole’ vestite in ghingheri

Proseguendo verso sud ci fermiamo in un’area di sosta. Mentre ci sgranchiamo le gambe, arrivano due pullman dell’agenzia turistica governativa. “Ecco i cinesi”, faccio io. Ne avevamo incontrati due gruppi a pranzo commentando il baccano che facevano, ma a giudicare dai volti scuri per il sole e gli sguardi un po’ curiosi e un po’ persi, non sembrano i tipici turisti cinesi. E infatti. “Sono coreani, turismo interno”, mi spiega Choe. “Ah, sì?”, mi stupisco, è la prima volta che vedo dei turisti nordcoreani, non sapevo nemmeno che esistessero (poi avrei capito che i luoghi chiave della propaganda sono meta di gite organizzate da tutto il paese e fanno parte dell’educazione permanente alle meraviglie patrie). “Vengono da Pyongyang?”, chiedo. In quel momento scendono tre donne, pantaloni neri e camicia da tutti i giorni ma su 14 centimetri di tacchi e zeppe che evidentemente non sono abituate a portare. “No, vengono dalla provincia”, sentenzia Choe. Ecco, la Corea del Nord è anche un paese dove una ragazza di città guarda con un po’ di spocchia le “campagnole” vestite in ghingheri.

L’altra gita al confine

Per arrivare alla zona demilitarizzata, una striscia di terra larga quattro chilometri a cavallo del confine, superiamo tre posti di blocco e carichiamo un soldato che ci accompagna nel tragitto. Avrà trent’anni, ha la faccia simpatica e sotto il cappello s’intuisce il taglio del leader. Glielo faccio notare e lui, serio, conferma: “Voglio respirare e pensare come il maresciallo Kim Jong-un”. E come respira? Sorride: “No, no, è un modo di dire”.

Chiedo se alla frontiera viene mandato chiunque o solo soldati scelti. “Solo i più fedeli al partito e al leader”, mi risponde orgoglioso. Scendiamo dal minivan e gli chiedo se posso fargli una foto, lui torna serio, si mette in posa. “Dai, sorridi!”, gli faccio, lui non si trattiene e scoppia a ridere. Una scena simile sarebbe impensabile al Sud, dove il militare che sale sul pullman dei visitatori non si toglie mai i Ray Ban neri d’ordinanza (”servono a incutere timore”, spiegano le guide), parte di una costruzione ad arte per rendere la gita al confine un’esperienza da brivido.

Il soldato incontrato nella zona demilitarizzata, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Visitiamo l’edificio basso nel villaggio di Panmunjom, dove nel 1953 il Nord e il Sud hanno firmato l’armistizio (a cui non è mai seguito un trattato di pace, per questo le due Coree tecnicamente sono ancora in guerra). Ci sono foto d’epoca che raccontano la versione di Pyongyang della guerra di Corea e una cinquantina di turisti cinesi che si fanno i selfie con le guardie. Poi ci spostiamo nella zona di sicurezza, quella con le casette azzurre dove negli anni si sono tenuti i colloqui tra Seoul e Pyongyang e dove, facendo il giro del tavolo, si può provare l’ebrezza di superare il confine che taglia a metà il tavolo e trovarsi dall’altra parte.

In realtà quell’ebrezza la si prova quando si fa l’esperienza al contrario, arrivando da sud. L’avvicinamento da Seoul alla zona demilitarizzata è graduale, si procede per tappe, diversi punti di osservazione con potenti cannocchiali per scrutare “il paese più chiuso e misterioso del mondo”, e via via che ci si avvicina alla meta la tensione sale e il tono delle guide si fa più grave: “Camminate in fila indiana, non muovete le mani, non fate smorfie, non parlate, scattate foto solo quando ve lo dico io”, altrimenti, fanno intendere, i nordcoreani potrebbero aprire il fuoco. L’acme si raggiunge quando ci si trova di fronte alle casette blu e in lontananza appare un soldato nordcoreano. “Un nordcoreano in carne e ossa, avresti potuto essere tu!”, dico al giovane militare simpatico che mi aveva chiesto cosa avrei scritto della visita al confine e che scoppia a ridere insieme agli altri.

Da un’altra direzione arrivano dei suoni. Vengono dagli altoparlanti installati dai sudcoreani per trasmettere messaggi di propaganda

La rilassatezza della situazione è ancora più straniante quando saliamo su una montagnola a pochi chilometri da lì per andare a vedere “il muro che i sudcoreani nascondono e gli americani negano di aver costruito”. Due soldati, uno sulla sessantina e uno giovanissimo, troppo magro per la divisa che indossa e che infatti stringe con una cintura di cuoio, sono di stanza in questo punto d’osservazione deserto e circondato da un bosco meraviglioso. Con dei grandi cannocchiali puntati verso sud ci mostrano l’evidenza che “gli imperialisti americani” mentono quando sostengono che il muro in cemento armato “alto fino a otto metri e costruito per dividere eternamente la penisola” non è altro che una serie di barriere anti tank installate in alcuni punti lungo il confine.

Mentre chiacchieriamo mangiando albicocche, che raccogliamo dai rami bassi di un albero, e ci godiamo la tranquillità del posto, a un certo punto sentiamo delle voci amplificate, un uomo e una donna che parlano. Da un’altra direzione arriva una musica. Sono lontane, non si sentono benissimo ma sappiamo tutti cosa sono: gli altoparlanti che i sudcoreani hanno installato lungo il confine rivolti a nord per trasmettere messaggi di propaganda anti-Pyongyang. Dovrebbero convincere i militari che pattugliano la zona a disertare. Rimaniamo ad ascoltare in silenzio e ci sporgiamo per sentire meglio. Chiedo a Kim cosa stanno dicendo, lui tende l’orecchio ma non capisce. Il volume è basso e l’accento è troppo diverso, mi dice. Accendo il registratore del mio smartphone e lo punto nella direzione da cui provengono le voci. “Dovrebbero alzare il volume, non si sente niente”, dico. Risata generale.

Un ristorante a Pyongyang, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

È un’esperienza interessante fare conversazione con persone che del mondo conoscono solo la versione ufficiale raccontata dal regime (i fondamentali, a grandi linee: gli imperialisti americani e i giapponesi sono il male; i coreani del sud sono fratelli con cui un giorno, quando gli Stati Uniti lasceranno la penisola, si ricongiungeranno; la Russia, finita l’Unione Sovietica, li ha abbandonati nel momento peggiore, durante la carestia e il lutto per la morte del presidente Kim Il-sung; la Cina, l’unico paese amico rimasto, ultimamente si è giocata la reputazione votando a favore delle sanzioni Onu; il resto è folclore).

A parte i privilegiati che frequentano la Cina, i diplomatici e l’élite al potere, i comuni cittadini vivono in un paese impermeabile a qualsiasi informazione proveniente dall’esterno. Un elemento fondamentale per l’efficacia della propaganda e la tenuta del regime, che con lo spauracchio di un attacco imminente degli Stati Uniti (un ritornello quotidiano sui giornali) e l’idea che il paese sia sotto assedio, tiene venticinque milioni di persone arroccate intorno alla patria da difendere. Come già detto, però, le guide hanno l’opportunità di sentire quel che raccontano gli stranieri che accompagnano. Il risultato a volte è bizzarro, altre spiazzante.

“No, i gay qui non esistono”, mi assicura Choe facendo una smorfia. “Anche in Europa prima non ce n’erano, ultimamente però mi pare stiano aumentando”, osserva. Provo a dirle che si è evoluta la società, che prima chi era gay non lo diceva mentre oggi è sempre meno così, e che non c’è nulla di male, che è naturale. “Naturale?!”, ride incredula. Le dico anche che in Italia da poco le coppie dello stesso sesso si possono sposare. “Ah, ma la Spagna è molto più avanti di voi allora!”.

L’aborto è illegale, mi dice, ma ovviamente le donne ricorrono a quello clandestino (in realtà non è vietato dalla legge ma, dato che il sesso è contemplato solo all’interno del matrimonio e quindi in teoria nessuna abortisce, gli aborti sono classificati come spontanei). Il contraccettivo più usato è la spirale, i preservativi esistono ma sono poco diffusi. “Voi avete un’iniezione il cui effetto dura un anno, giusto?”. Il sesso prima del matrimonio è legale ma proibito dalle famiglie, che tengono le figlie sotto stretta sorveglianza. “A scuola non si fa educazione sessuale, ma servirebbe”.

“Da quel che ne so agli europei non piace bere alcolici a pranzo”.

Prima o poi anche qui arriverà internet, vedrai, stanno mettendo a punto un sistema per controllarlo

Una sera a cena parliamo del fatto che la Birmania, finita la dittatura militare, si è aperta al resto del mondo e ha cominciato a trasformarsi molto rapidamente. “Anche del nostro paese si dice che è una dittatura?”, mi chiede Kim.

“Sei una giornalista quindi avrai visitato tanti paesi, quanti? Cinquanta?”. Chiedo quale paese vorrebbero vedere per primo se ne avessero la possibilità. Choe vorrebbe andare in Spagna. Kim non ha dubbi: “Il Sud”. Uno dei leitmotiv ricorrenti è che la riunificazione “arriverà molto presto grazie alla sapiente guida del maresciallo Kim Jong-un”. All’ennesima ripetizione del ritornello chiedo come, secondo loro, dovrebbe avvenire, in che modo sia possibile conciliare due sistemi opposti con un divario economico enorme. Per Choe valgono le indicazioni lasciate dal presidente Kim Il-sung prima di morire: costruire uno stato federale mantenendo i due sistemi. Kim è più drastico. Sa che i coreani del sud non vogliono saperne di riunirsi al nord sotto Pyongyang, quindi “non resterà che un’opzione”. Cosa? L’azione militare? Annuisce.

Cento cani feroci e altre amenità

Internet è un argomento che ricorre spesso, e il disprezzo con cui la parola viene pronunciata è evidente: “Conosci la Moranbong band perché l’hai vista su internet?”, “L’hotel l’avevi già visto su internet? Avevi letto quello che scrivono i turisti stranieri?”, “Internet è piena di propaganda negativa sul nostro conto, vero?”. Dico che sì, in effetti le notizie sulla Corea del Nord che circolano in rete non sono positive, alcune addirittura raccapriccianti.

Racconto del funzionario fatto sbranare da cento cani feroci perché si era addormentato, della band fatta fucilare perché smerciava filmini porno (ricomparsa mesi dopo), dei tagli di capelli obbligatori. Sono increduli e anche divertiti, ma gli faccio notare che finché le notizie sul loro paese non saranno verificabili, chiunque potrà inventarsi quel che vuole, tanto non sarà smentito. “Prima o poi anche qui arriverà internet, vedrai, stanno mettendo a punto un sistema per controllarlo”. Choe me lo dice senza sarcasmo, è normale e anche auspicabile che esista un sistema di censura che “protegga” i navigatori nordcoreani dalle insidie del web. Un’evoluzione di quello che già esiste: un’intranet limitato ai confini del paese grazie al quale le mie due guide possono usare i loro smartphone.

Gli smartphone sono comparsi circa cinque anni fa, ce ne sono due di produzione locale – Pyongyang e Arirang – e alcuni d’importazione cinese. Non sono molto diffusi, ma mentre fuori dalla capitale si vedono solo cellulari tradizionali, girando per Pyongyang qualcuno capita di vederlo. Choe mi mostra il suo. Tra le app che si trovano già dentro l’apparecchio all’acquisto ci sono un’enciclopedia (che consultiamo più volte durante il viaggio, soprattutto a tavola per decifrare il cibo che ci servono), il dizionario coreano-inglese e vari giochi. C’è anche un’icona rossa con una fiamma gialla, chiedo cos’è. “L’opera completa dei leader”.

Kaesong, giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Nel programma, concordato a grandi linee prima del mio arrivo, è prevista una cena in una delle due pizzerie di Pyongyang. Si trova sul Viale degli scienziati del futuro, l’arteria intorno a cui si sviluppa il quartiere sul fiume Taedong “voluto dal maresciallo Kim Jong-un per i docenti e i tecnici del politecnico Kim Chaek” e inaugurato nel 2015. Decine di grattacieli colorati e dalle forme avveniristiche che hanno modificato la skyline della capitale. La pizzeria è al secondo piano di un edificio basso foderato di marmo e granito.

È una grande sala con pavimenti che luccicano, colonne bianche con capitelli dorati, lampadari importanti e sedie di legno lucido e velluto. Una vaga idea di eleganza classica europea, qualsiasi cosa voglia dire, a cui i pannelli luminosi con le foto del menù appesi alle pareti aggiungono una dose di kitsch tipicamente asiatico. La sala, piena di tavoli apparecchiati, è dominata da un lungo bancone di marmo oltre il quale due ragazze fanno la pizza.

C’è l’impastatrice, il forno elettrico, le pale e le due donne che infornano e sfornano con gesti da pizzaiole navigate. Sono state due anni a Napoli per imparare, mi spiega Choe. “Hai imparato un po’ d’italiano?”, domando. “No, avevamo un interprete”, dice la ragazza, alta, magra con leggings e grembiule rosso come la sua collega. Chiedo se le è piaciuta Napoli, ma purtroppo non l’ha mai vista, non poteva uscire da dove viveva e lavorava.

Una cantante ci intrattiene con un repertorio misto: O’ sole mio, My way, il tema di Titanic e, a sorpresa, Bella ciao

Per ora siamo gli unici clienti, come del resto in quasi tutti i ristoranti dove pranziamo e ceniamo, ordiniamo pizza (niente male) e spaghetti. Mentre aspettiamo, al tavolo accanto arriva un padre con in braccio la figlia, ha appena imparato a camminare, l’unica persona con cui le mie guide mi invitano attivamente a interagire. Poco dopo li raggiungono i nonni. La scena, comune in qualsiasi altro paese, in quel contesto è insolita. Perché non solo andare a mangiare una pizza in Corea del Nord non è un’esperienza scontata, ma neanche vedere un padre solo che porta in giro la figlia neonata lo è. Choe conferma, in genere sono le donne a occuparsi dei figli piccoli, i padri non muovono un dito, ma forse le cosa stanno cambiando, anche qui. Una cantante al piano ci intrattiene con un repertorio misto: O’ sole mio, Beauty and the beast, My way, La spagnola, il tema di Titanic di Celine Dion e, a sorpresa, Bella ciao.

Un mondo di amici

May you lead the Korean people to a long lasting democratic peace on the peninsula. It takes a passionate leader such as yourself to keep peace the way you have. […] Eternal friendship, firma. Chissà se mentre lasciava questa breve nota su un foglio di carta il rapper Pras Michel, “fondatore dei Fugees”, come indica la targhetta accanto al cimelio, s’immaginava che sarebbe stata incorniciata ed esposta in vetrina in quel posto incredibile che è il museo dell’amicizia, 70mila metri quadrati di marmo in parte scavati nella montagna per contenere le migliaia di regali fatti ai leader da delegazioni ufficiali, capi di stato e singoli cittadini stranieri.

Nelle oltre cento sale divise in due sale, la numero 1 con i regali ricevuti da Kim Il-sung e la numero 2 dedicata a Kim Jong-il, l’aria condizionata è tenuta inspiegabilmente a una temperatura troppo vicina allo zero. Visitare tutto il museo è impossibile, “hanno calcolato che ci vorrebbero tre giorni interi” mi fa sapere la guida, una ragazza alta e robusta con indosso la versione moderna (cioè in poliestere) dell’abito tradizionale coreano. Parla in maniera un po’ affettata mentre mi illustra le meraviglie del posto, con un tono soave e il viso leggermente inclinato. Lavora al museo da diversi anni e vive in un dormitorio per il personale lì vicino.

Dentro il museo non si possono fare foto ed è un vero peccato perché gli arazzi persiani con la figura intera di Kim Jong-il (omaggio dell’ex presidente iraniano Ahmadinejad), l’aereo presidenziale a elica regalato dai russi nel 1958 a Kim Il-sung (altri due esemplari sono stati donati a Zhou Enlai e a Ho Chi Min), il vagone del treno regalato da Stalin sempre al presidente eterno, una panca foderata con 35 pelli di volpe, le code penzolanti lungo tutta la seduta, arrivata dalla Russia, meriterebbero davvero. E poi, a testimoniare quanto i leader erano amati nel resto del mondo, servizi da tè, sculture di vetro, pugnali d’argento tempestati di pietre preziose, il pallone da basket autografato da Michael Jordan che Madeleine Albright regalò a Kim Jong-il nel 2000 e il pallone di Pelé (Para o presidente Kim Jong-il do amigo Pelé, 2003).

Il Discussion café nella Pyongyang university of science and technology (Pust), giugno 2016. (Junko Terao per Internazionale)

Un venerdì mattina in un’aula della Pyongyang university of science and technology (Pust) è in corso il Discussion café. Gli studenti sono divisi in gruppetti, a ogni gruppetto l’insegnante ha assegnato un tema di discussione. Moderati da un compagno, i ragazzi devono dire la loro su questioni come: “Una vostra amica sta pensando di farsi la plastica al viso, cose le consigliate?” oppure “Siete incaricati di assumere un nuovo dipendente in un ufficio. Uno dei candidati ha le qualità richieste ma ha anche una disabilità. Lo prendete? Perché?”. Parte il dibattito. Il loro inglese è buono o molto buono e i ragazzi non sono per nulla timidi. “Io le consiglierei di non fare la plastica per risparmiare denaro”, dice uno, “io sconsiglierei la plastica perché è pericoloso, ci vuole un chirurgo molto bravo”. Questi ragazzi hanno 22 anni e stanno facendo qualcosa che non è affatto scontato.

La Pust è un’università aperta nel 2010 da un uomo d’affari statunitense di origini coreane. È l’unica nel paese finanziata con fondi privati e stranieri, provenienti da Cina e Stati Uniti soprattutto, in gran parte da appartenenti alla Chiesa evangelica. Il personale è misto, coreani e stranieri, s’insegna solo in inglese e le materie sono finanza e management, informatica, ingegneria, scienze agricole. L’intento del governo, che ha accettato la proposta del fondatore nel 2003, è formare un’élite in grado di muoversi e lavorare in un ambito internazionale.

La speranza dei docenti, molti dei quali cristiani evangelici che trascorrono uno o due semestri qui come volontari, è allenare gli studenti a pensare in maniera critica. “Anche mentre insegno management, attraverso le esercitazioni, li sollecito a ragionare e a esprimere le loro idee, cosa che non sono abituati a fare”, mi spiegava Colin McCulloch, professore in pensione che insegna business alla Pust tutto l’anno, quando l’ho incontrato in Italia a febbraio.

A lezione di inglese

In quest’università gli studenti possono addirittura usare internet, ma con la supervisione di qualcuno, anche se il professore coreano che mi guida nella visita mi assicura che sono liberi. Allora chiedo di poter provare, ma dopo aver confabulato con una collega mi dice dispiaciuto che non è possibile, dovrei registrarmi per avere una chiave d’accesso e sarebbe complicato. La prossima volta che andrò a trovarli me lo faranno usare. Chiedo allora se è possibile incontrare i due studenti che a settembre andranno a studiare all’università di Brescia. Prima mi dice che non è possibile perché sono tutti a lezione, avrei dovuto avvisarli prima, poi però si corregge e mi spiega che non sono ancora stati scelti. “Sono arrivate tante candidature e dobbiamo ancora fare la selezione”, mi spiega (in realtà so che sono stati scelti da mesi).

Entro in un’aula dove è in corso una lezione d’inglese, gli studenti, tutti maschi, erano stati avvisati del mio arrivo e hanno preparato alcune domande da farmi. Sono molto curiosi, vogliono sapere che impressione mi sono fatta del loro paese, in quale università ho studiato e come mai ho deciso di fare la giornalista. Poi arriva il mio turno e chiedo cosa vogliono fare dopo la laurea. “Io voglio seguire le orme di mio padre, che fa l’ingegnere”, risponde uno. “Io voglio fare lo scienziato e contribuire alla crescita del mio paese inventando cose nuove”, dice un altro. “Io so che agli italiani piace molto la musica, piace anche ai coreani, quindi voglio creare musica al computer”, fa un altro ancora. “Io, invece, vorrei diventare professore all’Università Kim Il-sung”. Gli chiedo se sanno che due loro colleghi a settembre andranno a studiare in Italia per nove mesi e se a qualcuno di loro piacerebbe fare un’esperienza all’estero. Improvvisamente stanno zitti, mi guardano e non capiscono di cosa stia parlando, o non sanno cosa rispondere.

Mai avrei immaginato di sentirmi come Truman quando tocca il cielo di cartone della sua città posticcia

L’ultima sera prima della partenza, dopo aver dato la buonanotte a Kim e Choe che dormono al tredicesimo piano del mio hotel, mentre io sono al quarantunesimo, mi accorgo di aver finito il credito del telefono. Nella hall c’è un servizio di ricarica disponibile 24 ore su 24. Scendo e, mentre aspetto, mi trovo di fronte Kim. “Cosa fai qui?”, gli chiedo. L’hanno chiaramente tirato giù dal letto, ha una camicia diversa da quella che indossava dieci minuti fa. Fa il vago, dice che sta cercando un collega. “Mi avevate detto che dentro l’hotel potevo muovermi liberamente, mi spiace che ti abbiano chiamato”, dico, ma lui insiste che no, è sceso perché forse si deve vedere con degli amici. Usciamo a fumare. “So che è il tuo lavoro, ma davvero, stavo solo ricaricando il telefono, non c’era bisogno di scendere”. Sorride, abbassa lo sguardo, poi mi accende una sigaretta.

Postilla 1: la biblioteca nazionale

Quando visitiamo la biblioteca nazionale, a Pyongyang, ci portano in una sala dove decine di stereo sono a disposizione del pubblico per ascoltare cd presi in prestito. Per l’occasione mettono un Best of di Pavarotti. Sanno che è un cantante italiano, ma non lo conoscono.


Postilla 2: in Italia

Rientrata in Italia, mi scrive Lucilla, una cooperante che ha vissuto a Pyongyang per quattro anni e che è venuta a trovarmi nel mio hotel il giorno prima che partisse per un nuovo incarico in un altro paese asiatico. “È doloroso. Mai mai mai avrei immaginato di sentirmi come il buon Truman quando tocca il cielo di cartone della sua città posticcia. La sensazione è di panico, direi, panico puro, perché una volta toccato il cartongesso l’incantesimo è rotto per sempre. Non si può tornare indietro, e dopo c’è l’ignoto. Eppure, ogni tanto mi guardo indietro e mi dico che forse avrei potuto rimanere un po’ di più. Penso che andrò via senza aver capito niente di questa gente, di come vive, di come ama, di come. Rimarrà un mistero irrisolto”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it