Linda non sa di preciso quanti soldi le servirebbero per comprare un paio di quelle scarpe che confezionava ogni giorno. “Probabilmente più di un mio stipendio mensile”, dice con un’espressione un po’ tirata. Fino a un anno e mezzo fa, questa allegra donna romena sulla cinquantina lavorava in una fabbrica che produceva calzature per grandi marchi del lusso, in particolare Gucci, Christian Dior e Tod’s. Oggi quella fabbrica non esiste più: ha chiuso per mancanza di ordini, mandando a casa tutte le 152 operaie che come Linda ci lavoravano a tempo pieno.
Siamo a Brașov, centro medievale nel cuore della Transilvania, a circa 180 chilometri da Bucarest. Qui, tra le montagne dei Carpazi, sorgeva l’atelier dell’azienda Selezione. Negli ultimi quindici anni Linda, che preferisce un nome di fantasia per timore di ritorsioni, ha lavorato per loro, cucendo scarpe di pelle per clienti disposti a pagarle diverse centinaia di euro. Seduta a un tavolo di un bar in un grande centro commerciale, oasi di refrigerio dalla canicola estiva, mostra sul telefono le foto del suo ex luogo di lavoro. La si vede sorridente, seduta di fronte alla macchina da cucire con una sorta di divisa, mentre assembla una scarpa di pelle. “Ne facevo trecento al giorno. I ritmi erano serrati: otto ore di seguito, con una pausa di mezz’ora per il pranzo e dieci minuti per andare in bagno”.
Eppure, nonostante la produttività alta, nel gennaio 2023 è stata licenziata, insieme a 77 colleghe. “Ce l’hanno detto così, senza preavviso. Da un giorno all’altro sono rimasta disoccupata”. Mentre lo racconta, mostra su Facebook le foto di una festa di capodanno di qualche anno fa, in cui si vedono i dirigenti e le operaie ballare a ritmo di valzer nei locali della fabbrica. “Eravamo come una grande famiglia”, dice, mentre un velo di tristezza le incupisce il volto.
Priva di ammortizzatori sociali e con una figlia ancora da mantenere, Linda è quasi caduta in depressione. Poi per fortuna ha trovato un lavoro in un’altra fabbrica, grazie anche al fatto che lavora nel settore da quasi trent’anni. Ma molte sue colleghe sono rimaste a spasso. “Ci hanno detto che dovevano ridurre il personale perché erano diminuiti gli ordini. E così hanno licenziato la metà di noi. Poi a dicembre, la fabbrica ha proprio chiuso”.
La Selezione è una delle centinaia di aziende spuntate come funghi negli ultimi trent’anni in Romania come fornitrici del made in Italy. Beneficiando dei bassi costi di manodopera e di un certo know how nel settore, grandi marchi del lusso hanno esternalizzato la produzione in quel paese, affidandosi a fornitori che si occupavano di quasi tutto il processo. “Ci inviavano le pelli tagliate e noi mandavamo la scarpa confezionata, tranne la suola, che era aggiunta in Italia”, racconta Violeta Radu, cofondatrice della Selezione. Secondo la legge, bastano due lavorazioni essenziali perché il prodotto sia indicato come “made in Italy”. Così, di solito per le scarpe si tagliano le pelli e si incolla la suola in Italia, il resto è fatto altrove.
Il meccanismo ha funzionato talmente bene che in Romania è nato un vero e proprio comparto produttivo, con tantissime fabbriche in appalto e alcune gestite direttamente dai marchi, come la pelletteria aperta da Prada nella zona industriale di Sibiu. Nel 2019 il settore della moda impiegava in Romania più di duecentomila persone. Si produceva a costi bassissimi e vicino all’Italia, il che permetteva di ottenere profitti altissimi.
Poi è cominciata la contrazione. “Oggi le fabbriche stanno chiudendo una dopo l’altra”, spiega Daniel Năstase, presidente di Uniconf, il sindacato che rappresenta anche i lavoratori dell’industria della moda. Bevendo un caffè in un bar nel centro di Bucarest, il sindacalista sulla cinquantina non nasconde la frustrazione. Dopo essersi battuto anni per ottenere condizioni migliori nelle fabbriche della moda, oggi osserva il comparto collassare, condannato a “una morte lenta e dolorosa”, come ripete più di una volta. Nessuno è in grado di fornire dati precisi, perché le ditte magari mantengono un proprio ufficio e risultano formalmente aperte, e perché gli operai lasciati a casa spesso non accedono a nessuna forma di sussidio. Ma la stessa Linda indica che solo a Brașov hanno chiuso almeno cinque impianti negli ultimi anni.
A cosa è dovuto questo declino? Secondo Năstase, i grandi marchi del lusso sono sempre meno interessati a produrre in Romania perché le condizioni sono diventate meno vantaggiose. In particolare l’aumento del salario minimo, che è stato ritoccato varie volte negli ultimi anni e a luglio è stato portato a 3.700 lei (740 euro lordi) rende il paese meno competitivo di altri a livello internazionale. Il raffronto dei numeri lascia sbigottiti, se si considera il salario mensile molto basso rispetto agli standard europei e il prezzo a cui sono venduti gli articoli ai consumatori finali. Eppure, è un dato di fatto: la Romania non è più competitiva.
“È tutto un sistema basato sullo sfruttamento dei lavoratori”, dice senza mezze misure Năstase. “Intendiamoci: io penso che sia lecito che i marchi vengano qui per fare profitti. Ma ritengo che ci siano linee rosse da non oltrepassare, che è quello del rispetto dei diritti”. Il sindacalista sottolinea che le paghe dei lavoratori del comparto sono bassissime, intorno ai 450 euro netti al mese, il che è particolarmente ingiusto, se paragonato al costo della vita. “Oggi in Romania è difficile condurre un’esistenza dignitosa con un salario al di sotto dei 1.100 euro”. I gestori delle fabbriche non rispettano i più elementari diritti stabiliti dalla legge, come quello della formazione continua, oppure costringono i lavoratori a fare straordinari che non sono pagati a dovere. “Il problema è che c’è un tasso di sindacalizzazione molto basso all’interno di queste aziende, al di sotto del 5 per cento, perché temono che se prendono la tessera vengono licenziati”.
Linda conferma le paghe da fame. Ha sempre guadagnato una cifra pari al salario minimo, o poco più. Alla fine del mese, mette in tasca 2.350 lei (470 euro) e per riuscire a far tornare i conti nei weekend è costretta a lavorare in un ristorante. Nonostante i fatturati vertiginosi dei marchi committenti e un certo grado di specializzazione delle maestranze, il lavoro nel settore della moda è uno di quelli pagati peggio. “Anche meno della ristorazione, dove almeno prendi le mance”, dice Linda.
“È bene scardinare una narrazione basata su due assunti completamente falsi: il primo è che poiché si produce in Europa lo si fa in modo etico; il secondo è che il comparto del lusso, che fa utili enormi, paga in modo adeguato il lavoro”, dice Laura Stefanut, presidente della Haine curate (Abiti puliti), un’ong romena aderente alla rete globale della Clean clothes campaign. Stefanut sa di cosa parla: da giornalista d’inchiesta si è fatta assumere sotto copertura in una di queste fabbriche e ha potuto constatare sulla propria pelle i ritmi serrati, l’assenza totale di tutele e le paghe estremamente basse.
In seguito anche a quell’esperienza ha deciso di andare al di là della denuncia giornalistica e creare un’organizzazione che garantisca sostegno legale alle lavoratrici in difficoltà. Dal suo osservatorio privilegiato, fa un’analisi impietosa del settore: “La verità è che il comparto del lusso ha gli stessi comportamenti dei marchi della fast fashion che producono nel sudest asiatico. Vuole massimizzare i profitti riducendo al minimo le tutele per i lavoratori e le lavoratrici”.
Sono come termiti. Spolpano un posto e poi si spostano da qualche altra parte
Di mancanza di tutele parlano gli stessi imprenditori che hanno messo in piedi le fabbriche. Seduta nel terrazzo della sua grande casa in una zona residenziale di Brașov, Violeta Radu, fondatrice della Selezione, è inferocita contro i marchi che le hanno fatto sfumare il sogno di una vita. Fin da quando, giovanissima, era venuta a lavorare in Italia nel settore delle calzature, aveva fantasticato di aprire una fabbrica sua. Tornata a casa dopo qualche anno, ha usato le proprie competenze e conoscenze per aprire insieme all’ex marito la fabbrica della Selezione. “Abbiamo fatto un investimento importante e dato lavoro a decine di persone. Eravamo un gruppo coeso”, dice, ripercorrendo con nostalgia gli anni in cui le commesse si susseguivano e le casse dell’azienda erano piene. Finché le cose non hanno preso un’altra piega. “Noi siamo sempre stati leali e disponibili. Abbiamo soddisfatto le loro richieste, anche quando ci chiedevano ordini molto rapidi. Poi progressivamente hanno abbassato i prezzi d’acquisto e ci hanno di fatto buttato fuori dal mercato”.
Radu ha parole di fuoco contro i grandi marchi, che descrive come sfruttatori globali. “Sono come termiti. Spolpano un posto e poi si spostano da qualche altra parte, senza avere alcuna considerazione per i rapporti costruiti negli anni”. Al di là dei toni arroventati, l’imprenditrice racconta come i gruppi che ha rifornito hanno cominciato a proporle prezzi d’acquisto non accettabili e, soprattutto, a non garantire alcuna continuità negli ordini. “Ma ti pare possibile che, dopo un rapporto durato dieci-quindici anni, mi abbandoni così?”, dice sconsolata. Radu mostra un sms che ha mandato a Luca Della Valle, direttore delle operazioni della divisione calzature per la Tod’s. “Per buttarci fuori ci dai un prezzo a cui è impossibile andare avanti”, lamenta nel messaggio. Risposta: “Purtroppo i vostri costi, e quindi le vostre necessità per lavorare sono molto al di sopra dei nostri standard, e la pianificazione della produzione, non io, ha deciso di fare altrove le paia che avete dichiarato di non poter produrre”. Contattato per una replica, il signor Della Valle non ha voluto commentare.
È possibile interrompere un rapporto in modo così improvviso? Il settore della moda può basarsi su accordi verbali, commesse decise in modo tempestivo e nessuna forma di garanzia per i fornitori. I marchi sono soliti cambiare strategia aziendale e fare quello che hanno fatto con la Selezione, ossia stracciare gli accordi di fornitura in modo anche brutale. È quanto ammette l’addetta alla sostenibilità di Gucci in risposta a una lettera inviata dai responsabili della campagna internazionale Clean clothes (Abiti puliti), che chiedevano un indennizzo per i lavoratori rimasti a casa. “È imperativo sottolineare che la struttura della filiera del lusso è di per sé flessibile. Tutti i fornitori sono selezionati e gestiti in considerazione della strategia aziendale. Di conseguenza, nel rispetto del quadro legale in vigore e dei principi di buona fede, i fornitori possono variare secondo le direzioni strategiche dell’azienda”.
Gucci, come Christian Dior e Tod’s, non si ritiene minimamente responsabile del licenziamento delle operaie della Selezione. Né i marchi hanno indicato quali sono stati i mutamenti di strategia aziendale che hanno portato alla chiusura dei rapporti con la Selezione. Secondo la legislazione romena, i dipendenti licenziati per motivi indipendenti dalla propria condotta possono ottenere un indennizzo negoziato con i sindacati e pari almeno a due mensilità di salario, che possono aumentare in base all’anzianità. “I marchi devono adoperarsi perché tutti i lavoratori licenziati ricevano un trattamento economico adeguato, così da risarcirli dell’improvvisa perdita del posto di lavoro”, dice Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale per l’Italia della campagna Abiti puliti. “Dovrebbero poi garantire relazioni industriali stabili e produttive in Romania per prevenire casi come quello della Selezione”.
Nessuno dei tre gruppi ha accettato di versare indennizzi alle lavoratrici licenziate. Christian Dior è l’unico ad aver risposto alle nostre richieste di chiarimento: “Abbiamo condotto un’indagine interna. La revisione ha confermato che il fornitore italiano di Dior, in relazione all’azienda romena Selezione, ha rispettato le normative locali, ribadendo il nostro impegno a garantire pratiche etiche e legali lungo tutta la nostra catena di fornitura”. Nessuna risposta è invece arrivata da Gucci, marchio di punta del gruppo Kering, che fin dal proprio sito sottolinea come la sostenibilità sociale e ambientale siano princìpi guida delle proprie azioni.
Fatte queste considerazioni, una domanda sorge spontanea: davvero l’aumento del salario minimo di alcune decine di euro sta portando allo smantellamento di una filiera di subappalto per prodotti che sono venduti a un prezzo enormemente superiore a quello corrisposto ai fornitori?
“La verità è che i marchi pensano che non sia più conveniente lavorare in Romania per una serie di motivi: i costi in aumento della manodopera, quelli di trasporto e i possibili problemi alla dogana, in cui un funzionario particolarmente zelante potrebbe avere da ridire sulla produzione del made in Italy fatta in Romania e bloccare il carico”, dice un tecnico da anni nel settore, che lavora tra i due paesi. “Da questo punto di vista, meglio produrre direttamente in Italia, che è poi quello che molti stanno facendo”.
La crisi causata dal covid-19, con la chiusura delle rotte commerciali e il crollo delle vendite, è stata un po’ uno spartiacque per il settore dell’alta moda. I marchi del lusso non stanno attraversando una fase particolarmente florida: nel primo semestre 2024, Gucci ha registrato cali di vendite fino al 20 per cento, soprattutto per una flessione della Cina, che pare meno interessata a comprare prodotti di alta gamma.
Anche Christian Dior, che fa parte della Lvmh, l’altro gigante del lusso mondiale, ha risultati non soddisfacenti, anche se meno catastrofici. “In generale, tutto il settore è in crisi. È una cosa che diciamo a bassa voce, perché i grandi marchi non vogliono che si sappia. Ma in alcuni casi ci sono magazzini pieni di articoli. E questa potrebbe essere anche una delle ragioni del calo di alcune commesse in paesi come la Romania”, dice un operatore del settore che lavora per diversi brand.
Come funziona in Italia
Molti hanno quindi cominciato a riflettere sul reshoring, il ritorno della produzione nel nostro paese e non fare più il made in Italy all’estero. Non per questo, tuttavia, garantiscono accordi migliori. In forma rigorosamente anonima, diversi addetti del settore raccontano che in molti casi le condizioni poste dai marchi sono svantaggiose. “Tagliano al massimo i prezzi e di fatto impediscono di pagare il giusto i lavoratori”, dice un imprenditore che lavora da decenni nella conceria e che di recente ha abbandonato un marchio molto noto perché non era in grado di rifornirlo al prezzo richiesto.
In Italia la filiera produttiva è basata su un sistema organizzato su più livelli: c’è un primo livello, che parla direttamente con il marchio, e poi ci sono i cosiddetti secondi livelli, che svolgono alcune mansioni in subappalto per conto del primo livello. Questa frammentazione della filiera permette di ridurre i costi di fornitura, favorendo anche alcuni fenomeni di sfruttamento del lavoro. Lo hanno messo in luce alcune inchieste recenti della procura di Milano, che hanno colpito marchi di un certo rilievo come Armani, Alviero Martini e la Manifactures Dior, da cui dipende Christian Dior Italia. Dalle indagini è emerso che questi gruppi si avvalevano del lavoro di opifici in cui c’erano operai impiegati a nero, che lavoravano molte più ore del consentito e anche di notte. E che alle macchine erano stati tolti i dispositivi di sicurezza per aumentare la produttività. Dall’informativa dei carabinieri emerge che “la lavorazione avveniva in condizione di sfruttamento, in presenza di gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro nonché ospitando la manodopera in dormitori realizzati abusivamente e in condizioni igienico sanitarie sotto il minimo etico”.
Nel corso delle indagini, a quanto si legge nel procedimento contro la Manufactures Dior, “è emersa una prassi illecita così radicata e collaudata da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa esclusivamente diretta all’aumento del profitto. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee ed isolate di singoli, ma di una illecita politica d’impresa”. A partire da queste considerazioni, la procura ha disposto l’amministrazione giudiziaria per un periodo di un anno per la Manifactures Dior, come aveva già fatto per Alviero Martini e Armani.
“La procura ha scoperto l’acqua calda. Tutti quelli che lavorano nella moda in Italia conoscono il meccanismo di appalti poco trasparenti”, dice un fornitore di primo livello di grandi brand. “Si sa che i prezzi pagati dai marchi in molti casi non permettono di pagare il giusto i lavoratori e di versare tutti i contributi”. È anche per questa ragione che la Cna Federmoda Toscana, la confederazione che riunisce gli artigiani del settore nel più grande distretto nazionale, ha commissionato un’indagine all’università di Firenze per determinare i reali costi di produzione. Dalla ricerca è emerso che il costo-minuto si attesta tra i 51 e i 59 centesimi, cifra che tiene conto della manodopera, dei costi industriali e degli ammortamenti. A questi costi, dovrebbe corrispondere un prezzo-minuto maggiore, per garantire un margine ai fornitori. “Ma non sempre succede. Spesso i marchi ci chiedono garanzie sui lavoratori e ci fanno firmare i loro codici etici, e poi ci danno delle cifre che non ci consentono di lavorare serenamente”, dice un altro operatore, che preferisce restare anonimo.
Se i meccanismi attuati dai brand del lusso somigliano a quelli della fast fashion, lo stesso non si può dire per i prezzi a cui mettono in vendita i loro articoli. “Il rapporto tra quello pagato a noi fornitori e quello della vendita al dettaglio è normalmente di uno a dieci. Se da me comprano a quaranta, venderanno a quattrocento”, sostiene uno degli operatori. Un divario che le indagini della procura di Milano mostrano essere in alcuni casi ancora più significativo: “Per il modello di borsa Dior PO312YKY si rimette alla committente un prezzo pari a 53 euro. Il costo commerciale al dettaglio di detto modello di borsa è di 2.600 euro”. Ossia: cinquanta volte di più.
La moltiplicazione dei profitti, esplicitamente citata dal provvedimento della procura di Milano, è la causa principale dello sfruttamento? I grandi brand non potrebbero ridurre di qualche punto percentuale i loro utili e distribuire in modo più giusto il valore lungo la filiera? “La verità è che hanno strutture inefficienti, molto costose, e che, soprattutto, sono quotate in borsa. Devono quindi fare utili per distribuire dividendi ai propri azionisti”, dice un altro imprenditore del settore, che preferisce non essere citato con il suo nome.
Ma proprio gli azionisti cominciano a mostrare i primi segni di impazienza. A quanto riportava l’agenzia Reuters lo scorso luglio, l’indagine su Dior avrebbe creato un certo scompiglio nel gruppo Lvmh, di cui fa parte il marchio. Molti investitori avrebbero chiesto misure più incisive per monitorare il trattamento dei lavoratori da parte dei fornitori.
Se la Manifactures Dior, così come Alviero Martini e Armani, non sono formalmente indagati per caporalato (accusa che colpisce gli opifici che lavorano per loro), l’inchiesta della procura di Milano ha creato un enorme danno alla loro reputazione gruppi, cui potrebbe aggiungersi una multa dell’Antitrust.
Proprio in seguito ai fatti esposti dalla procura di Milano, il garante per la concorrenza ha avviato un’istruttoria (tuttora in corso) su Armani e Dior per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita dei prodotti. Secondo l’agenzia, i due marchi avrebbero presentato i propri prodotti come artigianali e frutto di una filiera etica, quando in realtà si appoggiavano a fornitori che non pagavano in modo adeguato i lavoratori e non garantivano condizioni sanitarie e di sicurezza corrette.
L’impressione è che le indagini della procura di Milano abbiano scoperchiato un vaso di Pandora in un momento del tutto particolare per il comparto, proprio quando cioè è in preda a una crisi profonda. Molte ditte fornitrici hanno conosciuto un calo di richieste e, a quanto sostengono vari imprenditori sia in Italia sia in Romania, negli ultimi tempi le condizioni imposte da alcuni marchi stanno diventando più vessatorie. Così, diverse aziende si stanno ritrovando nell’impossibilità di andare avanti. La Cna Federmoda Toscana segnala che solo nei primi sei mesi del 2024 nella regione hanno cessato l’attività 304 aziende del settore moda (di cui 182 solo in quello della pelletteria), mentre le ore di cassa integrazione sia nel settore tessile sia in quello della pelletteria sono più che raddoppiate. In un certo senso, la crisi che sta avendo il settore in Romania e che ha causato la chiusura di fabbriche come quella della Selezione si riflette in Italia.
Tra gli imprenditori sentiti per questa inchiesta, in Italia e in Romania, prevale un sentimento che oscilla tra la rabbia verso i grandi marchi e la preoccupazione per un futuro sempre più incerto. C’è poi chi suggerisce di trasformare questa crisi in un’opportunità. “Le difficoltà che sta vivendo il settore dovrebbero portare a sviluppare vere politiche di filiera, in cui i marchi articolano rapporti consolidati con i fornitori, in modo da evitare le chiusure e i presunti illeciti messi in luce dalla procura di Milano”, dice ad esempio Paolo Pernici, presidente della Federmoda Toscana.
Di politiche di filiera e di un ripensamento generale dei rapporti produttivi parlano anche i responsabili della campagna Abiti puliti nel recente rapporto “Pratiche d’acquisto da fast fashion nell’Unione Europea”, una ricerca condotta in sei paesi sulle condotte commerciali sleali nell’industria della moda. “C’è un forte legame tra le pratiche di acquisto e la stabilità della catena di approvvigionamento, che comporta l’obbligo per i marchi di effettuare valutazioni d’impatto sui diritti umani e piani di due diligence”, sostiene Deborah Lucchetti. Queste regole, già obbligatorie in Francia e in Germania, lo diventeranno in tutta l’Unione Europea a partire dal 2027.
L’approvazione da parte del parlamento europeo, nel maggio scorso, della direttiva sulle due diligence di sostenibilità aziendale obbliga le aziende con più di mille dipendenti e un fatturato superiore ai 450 milioni di euro a gestire attentamente gli impatti sociali e ambientali lungo l’intera filiera, compresi i fornitori diretti e indiretti, e le proprie attività. Introducendo sanzioni economiche per le aziende che non rispettano le regole, la direttiva potrebbe ridurre quelle disfunzioni messe in luce dagli operatori del settore e dalle inchieste della magistratura.
I grandi marchi della moda con sede in Europa, che hanno fatturati superiori ai 450 milioni di euro, sono pienamente toccati da questa normativa. “I lavoratori potranno citare in giudizio le aziende in base al nuovo regime di responsabilità civile quando subiscono un danno a causa di una scarsa attenzione nel gestire i rapporti di filiera, com’è successo nel caso della Selezione”, sottolinea Deborah Lucchetti.
Seduta al bar del centro commerciale di Brașov, Linda non capisce bene questi cambiamenti annunciati. Né in verità ci crede più di tanto. Lei continua ad andare ogni giorno in fabbrica, sapendo bene che il suo lavoro dipende da grandi marchi con sedi lontane, che un giorno potrebbero cambiare strategia aziendale e decidere che il suo salario di 470 euro al mese è troppo alto per i loro standard.
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