Nel villaggio polacco di Gardno, a neanche dieci chilometri dal confine tedesco, regna uno strano silenzio. L’intonaco verde, giallo e rosso delle palazzine d’epoca sovietica si sta staccando. Dovrebbero abitarci 1.100 persone, eppure in giro non c’è nessuno. Le finestre sono oscurate da tende nere. Chi di notte lavora, di giorno ha bisogno di dormire. E qui di notte si lavora parecchio.

A portarci a Gardno è stata una tutina grigia per neonati. L’abbiamo ordinata su Zalando, il rivenditore di abbigliamento online più grande d’Europa. Poi abbiamo cucito un piccolo trasmettitore al suo interno e l’abbiamo rispedita come reso. Ora il segnale del trasmettitore è molto vicino. E lo seguiamo.

In Germania nel 2021 i capi d’abbigliamento rispediti indietro sono stati 440 milioni, un terzo dei quali riconducibile ad acquisti su Zalando

Gardno è piena di gente che lavora per un’azienda di logistica, quindi, indirettamente, per Zalando. Sono queste persone che fanno funzionare il sistema del gigante della fast fashion. Zalando riceve fino a 480 ordini al minuto, e metà dei pacchi spediti viene rimandata indietro. Tutto questo traffico dev’essere gestito da qualche parte, e Gardno è uno di questi posti. È qui che vengono smistati i resi.

Non è chiaro cosa succede dopo. Secondo l’azienda il 97 per cento dei capi d’abbigliamento resi “è messo nuovamente in vendita sulla piattaforma, dopo un attento esame e dopo essere stato accuratamente rimesso a nuovo”. I capi distrutti sarebbero “meno dello 0,05 per cento”. Sarà vero? Il centro logistico è un blocco di cemento grigio a circa un chilometro da Gardno. Il logo color arancione fluorescente di Zalando si vede da lontano. Davanti al centro, una cinquantina di uomini e donne aspetta in piedi o seduta a terra, tra cicche di sigarette fumate in fretta. Vorremmo parlare con questi lavoratori in pausa, capire come la tutina grigia e gli altri resi sono gestiti. Ma nessuno apre bocca, e due donne ci spiegano anche perché: glielo vieta il loro contratto. Poi si sente un gong metallico e i lavoratori rientrano nell’edificio di cemento. Noi ci dobbiamo fermare davanti alla porta scorrevole di vetro, con una domanda senza risposta: se la gestione dei resi è veramente esemplare come dichiara l’azienda, perché trattarla come un segreto?

La nostra è un’inchiesta insolita. Insieme ai giornalisti dell’emittente Südwestrundfunk e del sito Flip, abbiamo seguito dieci capi d’abbigliamento su e giù per l’Europa, esaminato documenti interni, parlato con dipendenti ed ex dipendenti, per capire cosa succede ai resi e come Zalando pensa di potersi trasformare in un’azienda sostenibile.

Dietro le promesse

La storia di Zalando comincia a Berlino nel 2008, quando Robert Gentz e David Schneider, compagni di studi, si mettono a vendere scarpe online. Presto aggiungono i vestiti. L’azienda cresce rapidamente, anche grazie alla promessa fatta ai suoi clienti: ordinate quello che volete, e se poi non vi piace rimandatecelo indietro. Zalando ha contribuito a consolidare questo modello di shopping online spensierato, e ne ha ricavato ottimi profitti. Oggi ha quasi cinquanta milioni di clienti. Nel 2021 il suo fatturato è aumentato del 30 per cento, superando i dieci miliardi di euro.

Più i clienti ordinano, meglio è. Questo principio ha trasformato l’azienda in uno dei giganti dell’industria dell’abbigliamento, un settore che, anche a causa dei resi, emette più anidride carbonica di tutti gli aerei e di tutte le navi del mondo messi insieme.

Eppure Zalando dice di voler diventare sostenibile. Già nel 2019 ha annunciato l’obiettivo di trasformarsi in “una piattaforma di moda sostenibile, con un impatto netto positivo per le persone e il pianeta”. Ai clienti promette resi a zero emissioni, un servizio per riparare la merce, l’eliminazione della plastica usa e getta e uno dei maggiori assortimenti di abbigliamento sostenibile in assoluto. “Vogliamo creare per la moda un futuro più trasparente e rispettoso dell’ambiente”, dichiara Zalando.

Si può pensare che sia solo pubblicità. Ma Zalando ci ha consentito di dare un’occhiata dietro le quinte e partecipare alle riunioni. Sembrerebbe una coraggiosa operazione a cuore aperto nel settore della fast fashion. Fino a prova contraria.

Risposte vaghe

La sede centrale di Zalando è a Berlino, nel quartiere di Friedrichshain. Nel palazzo di vetro incontriamo Laura Coppen. Con i suoi lunghi capelli biondi e un gran sorriso, è il volto del cambiamento. Il suo curriculum rivela che è una che vuole cambiare le cose. Quando studiava moda e design a Nottingham, nel Regno Unito, ha disegnato una collezione per proteggere il corpo dall’aumento delle temperature. Poi ha lavorato per H&M e si è impegnata per l’economia circolare. Nel 2020 ha ricevuto il premio “Voce del cambiamento” dalla Cnn, e poco dopo è finita a dirigere il dipartimento per l’economia circolare di Zalando. Secondo lei, per fare la differenza bisogna trasformare le grandi aziende. E indietro non si torna.

Ma sull’argomento dei resi, probabilmente l’ostacolo maggiore lungo il percorso verso la sostenibilità, Coppen è di poche parole. In Germania nel 2021 sono stati rispediti indietro 440 milioni di capi d’abbigliamento, un terzo dei quali riconducibile ad acquisti su Zalando. Il problema non è solo l’aumento dei trasporti. Secondo un’analisi di mercato dell’associazione di categoria Händlerbund, quasi un reso su cinque riguarda vestiti danneggiati o già indossati, e il 44 per cento dei resi non può essere rimesso in vendita al prezzo iniziale. Per un gruppo di ricerca dell’università di Bamberga che studia la gestione dei resi, i capi restituiti che finiscono direttamente negli inceneritori sono circa 20 milioni all’anno.

Come fa Zalando a rimettere in vendita il 97 per cento dei resi e a non distruggerne praticamente nessuno? E dov’è che compie questo miracolo?

Accompagnata da un addetto stampa, Coppen si mantiene sul vago e ci dice che il processo avviene su vasta scala, nell’intera rete logistica. In seguito, quando chiediamo di visitare le strutture per i resi, non ci viene concesso per “ragioni organizzative”. Anche su altre richieste riceviamo risposte simili. Per esempio, l’azienda sostiene di voler allungare la vita di 50 milioni di vestiti riparandoli e vendendoli come capi di seconda mano. Quante persone usano questo servizio? E quanti vestiti usati sono stati venduti finora? Zalando non vuole rivelarlo. E ci nega un secondo incontro con Coppen.

È a questo punto che ordiniamo dieci capi d’abbigliamento online: una tutina per neonati, due gilet, un parka, un abito, due paia di pantaloni, un bikini, un top e una giacca di finta pelle turchese. Cuciamo all’interno dei piccoli trasmettitori gps con l’aiuto del team investigativo di Greenpeace, che ha molta esperienza in fatto di tracciamento (Greenpeace non ha partecipato a questa inchiesta). I trasmettitori pesano 57 grammi, non più di un uovo di gallina. Dentro un parka pesante, un pantalone cargo o un piumino non si notano. Ma per l’abito estivo e per il costume sono troppo pesanti. Perciò in cinque capi nascondiamo dei localizzatori bluetooth che pesano appena dodici grammi. Scuciamo, incolliamo i dispositivi e li facciamo sparire all’interno delle tasche, del costume e della manica della tutina. Poi ricuciamo tutto. Per notarli bisognerebbe esaminare accuratamente ogni capo oppure indossarlo. Poi rispediamo tutto a Zalando.

Per ciascun capo creiamo un file con le posizioni inviate dai trasmettitori. Giorno dopo giorno, riga dopo riga, otteniamo un elenco di coordinate. Quando le inseriamo su Google Maps compare una serie di linee a zig-zag: i nostri resi stanno viaggiando su e giù per l’Europa. E allora la domanda diventa incalzante: perché?

Sette capi su dieci trasmettono dalla Polonia. Forse anche perché una legge voluta nel 2018 dal ministero dell’ambiente tedesco proibisce di distruggere prodotti ancora nuovi. All’epoca il ministero aveva incontrato anche i rappresentanti di Zalando. Nel marzo del 2019 l’azienda ha cominciato a delocalizzare all’estero gran parte del settore resi di Erfurt, come ci racconta un rappresentante dei lavoratori dello stabilimento. Quando la legge è entrata in vigore, nel 2020, la riorganizzazione era conclusa e molti resi di Zalando erano ormai fuori dalla portata della giustizia tedesca.

Jessica Pettway

Attraverso il tubo blu

Cosa succede ai resi all’estero? A Gardno finalmente riusciamo a parlare con una donna che ne sa qualcosa. Zuzanna (il nome è stato cambiato) fino al 2020 lavorava per la Fiege, un’impresa logistica tedesca che gestisce il centro di Gardno per conto di Zalando. Ci racconta che i dipendenti non hanno neanche un minuto per ogni reso: devono smistare 68 indumenti all’ora. Significa spacchettarli, esaminarli, sistemarli, reimpacchettarli e metterli via.

Ci sono quattro pile, spiega Zuzanna. La prima è per la categoria A, i capi in condizioni perfette. Quelli sporchi, consumati o rotti finiscono nelle pile B, C e D, a seconda di quanto sono rovinati. È una decisione che va presa alla velocità della luce. La Fiege conferma che i tempi di lavoro sono monitorati, ma nega l’obbligo di 68 articoli all’ora e precisa che a chi rispetta o supera i livelli di riferimento spetta un bonus.

Chiediamo a Zuzanna cosa succede ai capi scartati. “Li portavamo alla responsabile. Era lei a decidere”, risponde. “Molto probabilmente venivano smaltiti”. A Gardno parliamo anche con una supervisora che ha lavorato al centro fino al 2021. Ci dice che i vestiti sporchi, ma anche quelli nuovi privi di codice a barre, finivano dentro grossi scatoloni che venivano trascinati in fondo al centro logistico. Lì erano rovesciati dentro delle aperture che portavano a un trituratore. Ci descrive le aperture: sono blu e dall’esterno si vede che si tratta di tubi. Abbiamo visto quei tubi quando abbiamo visitato il centro logistico. Portano a dei grandi container blu con la scritta Stena Recycling, un’azienda svedese che si occupa dello smaltimento di carta, cartone e prodotti tessili.

Zalando ammette di collaborare con la Stena, sostenendo però che questa si occupa quasi esclusivamente del riciclo degli imballaggi, mentre i prodotti tessili da distruggere per motivi sanitari sarebbero solo lo 0,22 per cento dei rifiuti totali. Zalando ripete che i resi sono esaminati “accuratamente secondo una procedura standard” e che solo una minima parte va al macero. Quindi smentisce quanto ci è stato detto sulla distruzione della merce. Neanche le aziende di logistica che lavorano per la piattaforma sarebbero autorizzate a procedere in quel modo e verrebbero sottoposte a stretti controlli.

È difficile far quadrare queste dichiarazioni con le testimonianze delle lavoratrici. Inoltre il fatto che la gestione dei resi sia affidata ad aziende esterne come la Fiege la dice lunga sul sistema Zalando. Ai suoi clienti il gruppo promette la luna, facendogli credere che sia possibile fare shopping senza pensieri nell’epoca del cambiamento climatico. Ma con le conseguenze di questa promessa – milioni di capi d’abbigliamento rispediti al mittente – preferisce non sporcarsi le mani.

Basta che spariscano

Sul sito l’azienda sostiene che i capi difettati finiscono negli outlet oppure sono donati ad associazioni. Ma non dice nulla della collaborazione con commercianti come Mohammad Marmar.

Lo incontriamo in una zona industriale vicino a Münster, in Germania. Il suo regno è un capannone di quattromila metri quadrati. Marmar lavora nel settore dei resi dal 2007, occupandosi di smaltirli per conto delle grandi aziende.

Sa bene cosa si aspettano da lui i suoi partner commerciali: deve far sparire la merce dal mercato principale, quello dell’Europa occidentale. “I miei clienti non vogliono che un articolo che vendono a duecento euro si possa trovare su internet a un quarto di quella cifra”, spiega Marmar. “Rovinerebbe i loro affari”. Per il resto, non gli interessa sapere cosa succede ai prodotti. Marmar lavora con discount, negozi fai-da-te e grandi piattaforme online. Di recente ha venduto sottocosto anche della merce di Zalando, vestiti e scarpe, ceduta da un intermediario che collabora direttamente con l’azienda. L’ha piazzata a rivenditori non europei.

Cosa voglia dire esattamente tutto questo ce lo spiega Michael Braungart, direttore scientifico dell’Istituto per l’ambiente di Amburgo: non è raro che questi prodotti percorrano migliaia di chilometri, arrivando fino in Africa o in Asia, dove spesso non ci sono impianti di smaltimento. Se non trovano acquirenti neanche lì finiscono in discarica o vengono semplicemente lasciati in giro.

Interpellata sui risultati dell’inchiesta, Zalando ammette di collaborare con grossisti come Marmar, ma aggiunge che si tratta esclusivamente di imprese con sede nell’Unione europea e quindi vincolate dalle normative europee.

Più indaghiamo, più emergono le falle nella promessa di sostenibilità di Zalando. La facciata verde si sfalda come l’intonaco delle case di Gardno, per rivelare una complessa ragnatela: l’azienda ha suddiviso i suoi affari tra società piccole e grandi, affidandone una parte a fornitori esterni. Questa rete, in cui si perdono i nostri capi d’abbigliamento, conta all’incirca quaranta controllate e più di 1.600 part­ner.

Il mercato
Miliardi di pacchi
Valore del commercio online di vestiti, scarpe e accessori, miliardi di dollari (Fonte: The business research company)

Prendiamo i pantaloni da uomo: da settimane il localizzatore manda segnali da una zona industriale vicino a Karlsruhe, nel sudovest della Germania. La cosa strana è che poco dopo che li abbiamo restituiti, Zalando ha tolto dal catalogo quei pantaloni cargo color cachi.

Sull’etichetta di reso dei pantaloni non c’è l’indirizzo di Zalando, ma quello dell’azienda di abbigliamento Sunshine Fashion. Ed è proprio da lì che arriva il segnale. Altri tre trasmettitori ci restituiscono un quadro simile: poco tempo dopo gli indumenti su cui li abbiamo cuciti non sono più in vendita, e infatti non finiscono da Zalando ma dai rivenditori che usano il sito per proporre i loro prodotti.

Zalando definisce questo programma la spina dorsale della sua strategia: quasi un terzo del suo fatturato è dovuto ai venditori esterni, il che non è insolito per una piattaforma di moda. Ma “più vasta è la rete di collaboratori, meno controllo Zalando esercita sui resi”, spiega Tristan Jorde dell’Associazione consumatori di Amburgo. “Spesso non sa neanche come i suoi partner gestiscono la merce”.

Di fronte a questi dati l’azienda ammette che nel 97 per cento promesso non sono inclusi gli articoli venduti sulla piattaforma dai partner che si occupano direttamente dei loro resi: “Vendono per proprio conto i capi d’abbigliamento e si riprendono quelli restituiti per metterli nuovamente in commercio sulla piattaforma oppure su altri canali”. In parole povere, Zalando non ha la minima idea di cosa succede a questi resi. “Ma la promessa di sostenibilità vale per tutto il marchio Zalando”, osserva Jorde, “e ovviamente si dà per scontato che valga per tutti i prodotti ordinati sulla piattaforma. Zalando inganna i suoi clienti”.

La mappa
Il viaggio della tutina
Il percorso di uno dei resi seguiti dai giornalisti della Zeit. (Fonte: die zeit)

A volte l’azienda stessa sembra perdersi nel suo intricato sistema. Zalando non vuole solo azzerare le sue emissioni nette, ma addirittura arrivare a un saldo negativo. Ma quante sono esattamente le sue emissioni? Per il 2019 Zalando ha dichiarato 262.511 tonnellate di anidride carbonica equivalente, ma un anno dopo ha corretto la cifra portandola a 3,8 milioni di tonnellate, circa quindici volte tanto.

Secondo l’azienda la differenza è dovuta al fatto che la seconda cifra tiene conto delle emissioni dell’intera filiera. Questo significa che per anni Zalando non ha incluso nei suoi calcoli né le emissioni prodotte dai suoi partner né quelle dovute a spedizioni e resi. Nel 2021 ha dichiarato oltre 5,5 milioni di tonnellate: più del doppio delle emissioni dell’Islanda. Ma scopriamo che anche in quel caso manca l’anidride carbonica emessa da molte aziende esterne: “I resi gestiti dei nostri partner non rientrano nei nostri calcoli e non vengono presi in considerazione nella nostra compensazione”, ci comunica.

Eppure Zalando promette genericamente resi a impatto zero e compensazione delle emissioni, tra l’altro attraverso il rimboschimento delle foreste in Etiopia. Come ha dimostrato un’inchiesta della Zeit e del quotidiano britannico The Guardian (Internazionale 1496), Zalando si serve però di certificati di compensazione il cui valore effettivo è minore di quanto dichiarato.

Quindi sarebbe ancora più importante limitare il più possibile le emissioni effettive. Invece i dati dei localizzatori rivelano percorsi assurdi: da Gardno la tutina si sposta verso Danzica, e poi torna a Swinemünde, nel nordovest della Polonia. Da lì si imbarca per Malmö, in Svezia, e quindi continua via terra per Stoccolma. Qualche giorno dopo rientra in Germania passando per la Danimarca, poi ancora in Polonia. Sulla costa riprende la nave per la Svezia. Ha percorso quasi settemila chilometri. Anche il gilet viaggia attraverso l’Europa per quasi settemila chilometri nel giro di due mesi. In totale, i dieci indumenti che abbiamo rispedito al mittente hanno percorso 28.822 chilometri. Perché?

Sempre in movimento

È una grigia giornata di gennaio e in un’aula dell’università di Bamberga incontriamo Björn Asdecker, uno dei pochi ricercatori che studiano i resi. Visto il grande interesse per l’argomento, tiene conferenze in tutto il mondo. Appena tiriamo fuori i fogli su cui abbiamo stampato i percorsi dei localizzatori li esamina con grande attenzione: dati come questi finora non esistevano, spiega.

Asdecker conosce le prime destinazioni dei resi, Gardno e altri centri simili. Ma i rivenditori online come Zalando erano riusciti a tenere segreto il passaggio successivo. Asdecker aveva dei sospetti, e i nostri localizzatori li hanno confermati.

Secondo lui i percorsi assurdi dei nostri resi si devono a quella che chiama predictive analytics, analisi predittiva. Ogni tragitto si basa su una congettura: dov’è più probabile che quell’indumento sarà ordinato la prossima volta? A deciderlo è un algoritmo programmato per massimizzare la rapidità delle consegne. Di conseguenza, i camion girano continuamente l’Europa. Zalando conferma di usare questa procedura, che si basa sui comportamenti d’acquisto di cinquanta milioni di clienti e su quasi quindici anni di esperienza.

Vista la grande quantità di resi, spiega Asdecker, i centri di raccolta dei siti di ecommerce sono ormai sovraccarichi. Quindi la merce in eccesso viene subito caricata sui camion e spedita verso altri mercati. “In pratica i camion sono una specie di magazzino”, dice Asdecker. “Dal punto di vista ambientale è una catastrofe. Sono migliaia di chilometri inutili, soprattutto per le aziende che come Zalando si vantano di essere sostenibili”.

Riceviamo l’ultimo segnale dalla tutina dopo tre mesi, poi la batteria del trasmettitore si scarica. Non possiamo più seguirne le tracce, ma forse sta ancora girando per l’Europa. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati