Quando ho visto per la prima volta la Sphere di Las Vegas, l’aereo su cui viaggiavo è entrato in una di quelle turbolenze che ti fa sussultare e stringere ai braccioli. Sembrava un benvenuto appropriato: la sfera mi aveva convinto a sistemarmi su uno scomodo sedile vicino al finestrino, su un volo partito dall’altro lato del paese, e ora mi stava trascinando verso la sua inconfondibile, scintillante orbita con un ultimo strattone gravitazionale. Mi rendo conto che è ridicolo pensare a un edificio in questo modo. Ma l’avete vista?

In senso stretto, la sfera è una grande arena, un luogo d’intrattenimento futuristico per concerti e altri spettacoli. Ma questa descrizione sminuisce le sue ambizioni. La sfera è l’incarnazione architettonica della stravaganza, un monumento allo spettacolo e alla propensione tutta umana a erigere strutture sbalorditive semplicemente perché possiamo farlo. È costata 2,3 miliardi di dollari (circa 2,1 miliardi di euro); è ricoperta da 54mila metri quadrati di luci a led; è alta 112 metri e può trasformarsi in una gigantesca emoji che gli astronauti possono vedere dallo spazio. Quando mi ci sono avvicinato, verso il tramonto, l’edificio si è risvegliato dal suo salvaschermo (una brutta pubblicità di un videogioco di Spider-Man) e ha cominciato a emettere uno strano borbottio. È apparsa l’animazione semi-realistica di un feto nel grembo materno, accompagnata dalla frase “questa non è una simulazione”, prima di esplodere in fiamme, tremolare violentemente e trasformarsi nella seguente serie di immagini: un occhio che batteva le ciglia, un temporale, l’oceano, alcune piante, la Luna, altre fiamme.

Il tutto al ritmo incalzante e stridente di _Zoo station _degli U2. Perfino nel pulsante frastuono di neon di Las Vegas e della sua Strip (la strada dove si concentrano gli hotel e i casinò), la sfera è un assalto sensoriale.

Lo schermo caleidoscopio ha abbastanza senso, perché la sfera è molte cose diverse. È un’arena, concepita nel 2018 dalla Madison Square Garden Company, per ospitare una residency (l’esibizione di uno stesso artista o gruppo per un periodo lungo) degli U2. È anche un cinema, con 42 schermi Imax montati insieme (il regista Darren Aronofsky ha realizzato appositamente un documentario, Post­card from earth, che è stato proiettato a ottobre). La sfera è una nuova forma di architettura, un cartellone pubblicitario, una tela digitale per l’arte. È anche un wee­nie, un termine inventato da Walt Disney per indicare le attrazioni che nei suoi parchi a tema dovevano aiutare i visitatori a orientarsi. Las Vegas è una città di weenie, e la sfera è quello che attira di più l’attenzione.

Ma è soprattutto uno schermo. La prima volta che ho visto un video proiettato sulla sua superficie – dal piccolo schermo che tengo in tasca per guardare i video su TikTok – sono rimasto affascinato, perfino disorientato. Cullando il telefono, ho guardato The Edge degli U2 che suonava i primi arpeggi di Where the streets have no name. Dal buio pesto, l’interno della sfera si trasformava nel deserto del Nevada all’alba, con il sole che sorgeva a tempo del riff della canzone. Un cumulo di nuvole si alzava come una bandiera bianca, mentre il sole a led inondava di luce dorata la folla festante, riempiendo il locale climatizzato con una simulazione dei grandi spazi aperti.

Tutto il giorno, ogni giorno, sono circondato da schermi. Schermi che catturano avidamente la mia attenzione e condizionano il mio modo di vedere la vita quotidiana, il lavoro e le relazioni. Sono stanco degli schermi, anche un po’ infastidito. Spesso dico che vorrei liberarmene, provare l’esperienza pura di camminare nel mondo senza che nulla si frapponga tra me e i miei occhi così facili da distrarre.

Las Vegas, agosto 2023 (Raf Willems, Getty)

Eppure, guardando i video in cui la luminosità della sfera sovrastava gli U2 sul palco – osservando il suo splendore trasformare quelle star in piccole formiche con la giacca di pelle – avevo sentito un desiderio irresistibile di averla di fronte e sperimentare in prima persona l’oblio digitale. Volevo vedere se la sfera poteva aiutarmi a imparare ad amare di nuovo gli schermi.

Racconto premonitore

Alla Sphere si può arrivare in molti modi. Per esempio dai corridoi dell’hotel Venetian, seguendo i cartelli e le frecce rivolte a est. Lo sconsiglio: per godersi davvero la sfera bisogna osservarla da vicino. Soprattutto di notte, quando attira gruppi di persone con cocktail in mano, come falene attratte da una lampada. Ho visto un gruppetto di dieci coppie ferme a bocca aperta in mezzo alla strada, con i telefoni in mano, mentre bloccavano una corsia, gli occhi fissi sulla struttura curva che pulsava a quattrocento metri da loro. Mi ha ricordato il film Independence day, la scena in cui gli ufo squarciano le nuvole sulle città di tutto il mondo e i pedoni si fermano a guardare il cielo.

L’atmosfera fantascientifica è voluta. James Dolan, amministratore delegato della Madison Square Garden Company, dice che l’edificio è ispirato a The Veldt, un racconto del 1950 di Ray Bradbury. Nel racconto una coppia benestante compra una casa completamente automatizzata, dove c’è anche una sala giochi speciale per i figli. Le pareti e il soffitto di questa stanza, alta nove metri, sono tappezzati da uno schermo in grado di leggere l’immaginazione dei bambini e riprodurla in immagini realistiche. I bambini finiscono per essere viziati, ipnotizzati dalle comodità di questa tecnologia; quando il padre minaccia di spegnere la stanza per sempre, evocano un branco di leoni che viene fuori dallo schermo e divora i genitori.

Un racconto su uno schermo assassino può sembrare una strana ispirazione per un nuovo luogo d’intrattenimento, ma l’intenzione è chiara: la sfera, almeno agli occhi dei suoi creatori, è destinata ad avvolgere, perfino a consumare, lo spettatore.

Anche se la pubblicità della sfera non parla di essere sbranati da grandi felini digitali, ho avuto l’impressione che almeno una parte del suo fascino stia nel desiderio di essere sopraffatti. Nell’edificio ci sono anche “stanze sensoriali” calmanti per chi soffre di vertigini o trova eccessivo lo spettacolo di luci. Non è difficile capire cosa cerchi di vendere chi ha immaginato la sfera: la possibilità di provare un’emozione forte e soprattutto nuova, che non si può provare altrove, un po’ come con le montagne russe.

Inizialmente a Willie Williams, scenografo e direttore creativo degli U2 da quarant’anni, tutto questo non piaceva. Non era entusiasta, mi ha spiegato, all’idea che la band accettasse una _residency _in un’arena di Las Vegas. Non voleva adattarsi invece di costruire le scenografie, e temeva che la sfera potesse sovrastare la band o rovinare il suono. Ma alla fine gli U2 hanno accettato d’inaugurare la Sphere suonandoci un mese. “Eravamo in territorio sconosciuto”, mi ha detto Williams. “Anche perché allora la struttura non esisteva”.

Neon e bicchieri

Entrare nell’arena al piano terra è un’esperienza vertiginosa. È subito chiaro che, nonostante la sua capienza, la sfera è compatta, intima. Ho preso posto a livello cento – a circa un quarto di strada dal fondo verso il centro– e ho avuto la sensazione di essere a pochi passi dal palco. Davanti a me, l’imponente schermo proiettava un’immagine fissa che faceva sentire tutti all’interno di una specie di antica rovina. Un dj, che faceva parte del gruppo d’apertura degli U2, si muoveva per la sala su una minuscola automobile illuminata dai neon, mettendo su canzoni rock classiche mentre persone sui sessanta o settant’anni, con bicchieri in entrambe le mani, battevano ansiosamente i piedi. Come molti intorno a me, facevo fatica a fissare l’attenzione su qualcosa, mentre aspettavo che i musicisti e la sfera, da un momento all’altro, entrassero in azione e ci dessero un pugno sui denti con un riff di chitarra.

Quando le luci si sono finalmente abbassate, ho notato che la struttura aveva la capacità di convincere quasi tutti gli spettatori – circa 18mila – a prendere i loro telefoni e a puntarli sull’enorme schermo. Sembra che l’obiettivo principale della sfera sia calamitare su di sé lo sguardo di altri schermi. Appena è comparsa la band, un colpo di batteria ha scosso l’arena e, questa era l’impressione, anche il megaschermo della sfera.

L’ho vista sul punto di andare in pezzi e abbagliarci, non con i miei occhi e nemmeno con il mio telefono, ma grazie al mosaico incandescente di centinaia di fotocamere intorno a me che catturavano il momento. Non mi capita spesso di tirare fuori il cellulare ai concerti. Anzi, sono uno di quelli che criticano chi assiste a uno spettacolo guardandolo da un dispositivo invece che con i suoi occhi. Ma la mia opinione è irrilevante. I telefoni oggi non sono solo una componente della musica dal vivo: sono diventati probabilmente l’obiettivo principale. La documentazione come forma di consumo è decisamente radicata nella fruizione dei concerti. Su YouTube mi sono abituato a guardare i video fatti con il telefono, illuminati dalle luci di migliaia di altri schermi che riprendono le stesse scene da angolazioni diverse.

Nell’edificio ci sono anche “stanze sensoriali” calmanti per chi soffre di vertigini o trova eccessivo lo spettacolo di luci

A volte l’effetto è più marcato. Per un periodo, quest’autunno, il mio feed di Instagram si è riempito di video girati dai miei amici durante la proiezione di Eras tour, il documentario che racconta l’ultimo tour di Taylor Swift: filmati su filmati di spettatori estatici che a volte mostrano la cantante su un altro schermo. Questa modalità di fruizione richiama l’effetto Droste: un componimento surreale in cui è possibile vedere un’immagine dentro un’immagine, annidata dentro un’immagine. Lo show degli U2 alla Sphere, ispirato all’album Achtung baby del 1991, ha spinto l’effetto Droste al limite. Sembrava che Bono non si esibisse per il pubblico ma per le telecamere che giravano intorno al palco e proiettavano la sua immagine su trenta metri di schermo, in modo che la gente potesse poi catturarla sul proprio telefono. All’inizio l’ho trovato un po’ deprimente.

A un certo punto dello spettacolo, la sfera si è trasformata in un rendering dell’orizzonte di Las Vegas così cristallino da farmi quasi dimenticare di essere al chiuso. È un’immagine folgorante, che provoca una dissonanza cognitiva difficile da ignorare: decine di migliaia di persone osservano e filmano una ricostruzione di una città che si può osservare e vivere, nella sua versione reale, a pochi metri di distanza. Questo è il potere della Sphere: nell’esatto momento in cui cominciamo a chiederci perché ci siamo dentro, il nostro cervello è inondato di dopamina e perdiamo ogni capacità critica.

Ho chiesto a Williams cosa ne pensava di uno spettacolo costruito per costringere le persone a tirare fuori lo smart­phone e a puntarlo sul megaschermo per due ore di fila. All’inizio sembrava condividere la mia perplessità. La gente non canta più ad alta voce come una volta, mi ha detto, perché deve filmare. Mi ha spiegato che per il recente spettacolo da solista di Bono a New York aveva deciso di vietare i cellulari, per permettere che si creasse un’atmosfera intima tra il pubblico e l’artista.

Ma alla sfera di Las Vegas ha deciso di assecondare la tendenza a usare gli smartphone. “La documentazione del mio lavoro è fatta in gran parte da persone che non conosco”, mi ha detto. “Persone che alla fine sono anche dei collaboratori”. Ha descritto la serie di spettacoli alla Sphere come una versione estrema della musica dal vivo di oggi: un “gigantesco progetto di archiviazione di gruppo, in cui lavoriamo con il pubblico per accumulare prove”.

La sua risposta era allo stesso tempo bella e disarmante. Fissarsi su ciò che abbiamo perso diventando dipendenti dagli schermi significa ignorare la gioia che deriva dal condividere la propria esperienza con gli altri. E significa ignorare quella sensazione di partecipazione, quello scambio tra musicisti e spettatori così imprevedibile che nessuna delle due parti sa esattamente cosa farne.

Se ci guardiamo intorno, possiamo farci un’idea di come potrebbe essere questo rapporto. Nelle ultime settimane ho visto i video di Fred Again, un dj britannico i cui spettacoli dal vivo mescolano senza soluzione di continuità immagini riprese con gli smartphone e spezzoni presi dai social network. Enormi schermi a led sorvolano la folla, a volte proiettando un video in diretta del pubblico ripreso dall’alto.

Anche questo è un effetto Droste all’ennesima potenza, una rappresentazione dell’alchimia che rende le sue performance così vive: un misto di musica e mezzi di comunicazione.

“Si potrebbe dire che il vero spettacolo lo fanno loro”, ha detto Williams a proposito dei filmati registrati dagli spettatori nella sfera e poi postati su internet. “L’esibizione vera e propria, la performance, è fugace. Esiste solo attraverso queste piccole clip fatte da persone che non incontreremo mai”.

La Sphere potrebbe essere il futuro dell’intrattenimento dal vivo. Questo non vuol dire che strutture simili saranno costruite in altre città. In realtà, il progetto di Las Vegas sembra già in crisi: in due mesi l’azienda che lo gestisce ha registrato una perdita di 98,4 milioni di dollari (90 milioni di euro) e il suo direttore finanziario si è dimesso a novembre. Ma il modello economico è irrilevante.

La sfera è il distillato di un rapporto in evoluzione tra arte, artista e tecnologia, a metà strada tra un caldo abbraccio e una resa definitiva agli schermi. È un omaggio al modo in cui i telefoni sono diventati un’estensione del nostro corpo e alle loro registrazioni della realtà come forma di consumo e partecipazione. La sfera suggerisce che documentare e vivere sono ormai due concetti inestricabili.

Il pulsante rosso

Ho cominciando il mio viaggio pensando che avrei criticato la Sphere e tutto ciò che rappresenta: i nostri telefoni come appendici, la nostra vita mediata dagli schermi. Ci sono molte cose che non mi piacciono: l’impersonale appariscenza del luogo, le bibite alla tequila da trenta dollari, il consumo enorme di elettricità. Ma devo anche dire che la struttura è straordinaria, nello stesso modo in cui è straordinario il Super bowl, la finale del campionato di football americano. È sgargiante, eccessivamente commerciale, e fichissima. Una nuovissima esperienza sensoriale che non richiede l’assunzione di farmaci.

Ho aspettato tutta la sera per ascoltare il pezzo che mi ha portato fino a Las Vegas. Quando sono partite le prime note di Where the streets have no name, il mio vicino di posto, un uomo di sessan’anni arrivato da Londra, si è chinato verso di me. Mi ha detto che il primo concerto della sua vita, 43 anni prima, era stato in una piccola sala all’università di Exeter. Suonava la stessa band che era di fronte a noi in quel momento. Il suo volto era illuminato dal tenue bagliore dello schermo del suo cellulare e ho notato che aveva le lacrime agli occhi.

Mi sono guardato intorno e ho visto la stessa cosa ovunque: dietro tutti quegli schermi c’era un mare di occhi lucidi e di sorrisi felici. Mi sono avvicinato per chiedere per chi stesse registrando il concerto. “Per me”, ha detto. “Per ricordare quanta strada abbiamo fatto entrambi”. Mi ha sorriso e si è voltato verso lo spettacolo. A quel punto non ho potuto farne a meno: ho tirato fuori dalla tasca il telefono e ho premuto il piccolo tasto rosso per registrare. ◆ svb

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Questo articolo è uscito sul numero 1542 di Internazionale, a pagina 65. Compra questo numero | Abbonati