Provate a ingrandire la mappa dell’Italia e vi accorgerete di uno spazio vuoto dove la punta dello stivale sembra toccare la Sicilia. È il braccio di mare che fa della Sicilia un’isola. Lo stretto di Messina è largo poco più di tre chilometri, e tra due coste il Mediterraneo produce una bizzarra allucinazione. Di tanto in tanto i marinai la vedono: la fata morgana, un fenomeno luminoso che fa sembrare più vicina l’altra sponda. La fata Morgana, in una versione siciliana della leggenda bretone, attrasse un re barbaro e sorridendo lo fece affogare in queste acque.

Nel sud dell’Italia le distanze ingannano. Il treno che va da Palermo a Bari percorre all’incirca gli stessi chilometri che separano Torino e Roma, ma nel triplo del tempo. Uno studio del ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha concluso che la Sicilia potrebbe anche essere cento volte più lontana dalla terraferma di quanto non sia realmente, considerato il tempo che occorre per attraversare lo stretto in auto su un traghetto arrugginito. Tra tutte le isole senza un ponte o un tunnel che le colleghi all’Europa, la Sicilia è la più grande, e in termini puramente geografici la più vicina.

Allora costruite un ponte e fatela finita! Nella schiera di persone che ha rincorso quest’idea ci sono l’imperatore Carlo Magno, il re Borbone di quelle che un tempo erano chiamate le due Sicilie, il re che successivamente unificò l’Italia, il dittatore fascista Benito Mussolini, appassionato di infrastrutture, e Silvio Berlusconi, nominato per tre volte presidente del consiglio. Hanno tutti fallito.

Il ponte sullo stretto di Messina è “il progetto Apollo dell’Italia”, mi ha detto il giornalista siciliano Francesco Costa. Lo stato ha speso più di un miliardo di euro per studi, modelli, stipendi, riparazione di illeciti. Per tutto tranne che per costruire.

Matteo Salvini, ministro delle infrastrutture e dei trasporti nel governo guidato da Giorgia Meloni, dice che lo costruirà. Paola De Micheli, la ministra che lo ha preceduto, mi ha detto che potrebbe avere le migliori possibilità di sempre. Tutto il governo appoggia il progetto, i finanziamenti sono a portata di mano: Salvini ha ereditato il piano di Berlusconi. Il plastico sembra magnifico. Stando a Salvini, il ponte sarà “un modello per l’Italia che crede in se stessa”.

Una lunga storia

L’estate scorsa ho passato tre settimane in Italia, chiedendo a politici, studiosi e amici se credevano che finalmente la Sicilia sarebbe stata collegata alla terraferma. “Non lo faranno mai”, hanno risposto quasi tutti. Solo alcuni si sono fermati a riflettere: “Chi lo sa?”, mi ha detto un fruttivendolo in Sardegna pesando dei fichi. “Magari questa è la volta buona”.

Il ponte assente racconta una storia: quella del fascino delle grandi infrastrutture e del potere come illusione ottica. Più e più volte il ponte è sembrato una certezza, per poi svanire come un miraggio, abbattendo i potenti. Il primo italiano a tentare di unire lo stretto di Messina pare sia stato il console Lucio Metello, intorno al 250 aC. Dopo aver vinto la battaglia di Palermo, durante le guerre puniche, il suo esercito aveva un ricco bottino che, stando a Plinio il Vecchio, comprendeva 140 elefanti. Le navi di Metello non erano abbastanza grandi per trasportarli, così i romani legarono insieme delle zattere e ci fecero passare sopra gli elefanti fino alla terraferma. La struttura resse forse per qualche giorno, consentendo alle persone di camminare avanti e indietro, prima di essere distrutta dal mare.

Messina vista dal mare, 6 luglio 2018 (Michael Walker, Alamy)

Un paio di millenni più tardi, negli anni sessanta dell’ottocento, il re d’Italia Vittorio Emanuele decise di costruire un ponte, non tanto per ragioni pratiche quanto per celebrare l’unità. Molti piccoli stati si erano appena unificati per formare un paese: un ponte con la Sicilia avrebbe reso completa l’integrazione. Mussolini pensava che un ponte avrebbe potuto mandare un messaggio a chi metteva in dubbio questa unità. Nel 1942, per rispondere a un serpeggiante movimento secessionista, dichiarò: “È ora di mettere fine a questa storia che la Sicilia è un’isola. Dopo la guerra darò ordine di costruire un ponte”. Né il re né il dittatore andarono oltre una commissione di studi.

Gli uomini forti notoriamente sono grandi appassionati di opere pubbliche faraoniche, ma si dice che i leader democratici siano più bravi a mettere insieme le innovazioni necessarie per realizzarle. In Italia entrambe le categorie hanno promesso un ponte per la Sicilia, entrambe hanno mancato l’obiettivo.

Dopo la seconda guerra mondiale, per evitare il ritorno del fascismo, gli architetti della costituzione italiana fecero in modo che il parlamento avesse il potere di rimuovere gli eventuali uomini forti. E questo potere è stato esercitato: dal 1946 i governi sono rimasti in carica in media meno della metà dei cinque anni previsti dal testo costituzionale. L’instabilità ha costretto i sostenitori del ponte a perorare senza fine la loro causa.

È stato questo il destino di Oscar Andò, il senatore che promosse la legge del 1971 che autorizzava la creazione della società Stretto di Messina, un’azienda pubblica che sarebbe stata incaricata di costruire il ponte. Nel 1986 la società scelse un progetto tra i vari proposti da uno studio di fattibilità. Antonio Andò, figlio di Oscar e lui stesso ex senatore, mi ha detto che venne esclusa l’ipotesi di un tunnel per ragioni di ordine tecnico ed estetico. E fu respinto anche il progetto di un ponte con i pilastri in acqua perché le correnti dello stretto sono particolarmente infide. Il vincitore risultò quindi un ponte a sospensione ancorato a dei pilastri sulle due sponde. Nessun ponte a sospensione aveva mai avuto dei supporti così lontani l’uno dall’altro. Quello sullo stretto di Messina sarebbe stato il ponte con la campata più lunga del mondo. Ma prima che il progetto potesse diventare realtà, all’inizio degli anni novanta uno scandalo di tangenti travolse gran parte dei partiti politici italiani. Dal naufragio emerse Silvio Berlusconi, un imprenditore dei mezzi d’informazione e dell’edilizia. Anche lui era corrotto, ma almeno non era un politico. Durante la sua campagna elettorale per un secondo mandato non consecutivo, nel 2001, Berlusconi firmò un simbolico contratto con gli italiani, in diretta televisiva, promettendo di non ricandidarsi se non avesse mantenuto quattro dei cinque impegni che aveva sottoscritto. Uno era costruire grandi opere pubbliche. In particolare il ponte sullo stretto.

Problemi ambientali

Il parlamento diede il via libera al ponte nel 2002. Pietro Lunardi, ministro delle infrastrutture dal 2001 al 2006, nel secondo e nel terzo governo Berlusconi, dichiarò al Corriere della Sera che la prima pietra sarebbe stata posta alla fine del 2004 o all’inizio del 2005. Ma i lavori non cominciarono mai. Nel 2006 contro il progetto si formò una forte opposizione. Insigni giuristi mettevano in guardia sul pericolo di un coinvolgimento della mafia. Alcuni cittadini di Messina non volevano vedere distrutta la loro spiaggia più bella. A tanti italiani semplicemente non andava a genio Berlusconi. Gli ecologisti erano particolarmente combattivi: molte importantissime rotte migratorie di pesci e uccelli passano attraverso lo stretto, e il Wwf ammoniva che i cavi del ponte avrebbero confuso gli uccelli in volo dall’Africa all’Europa, che le coste si sarebbero deteriorate e molti alberi sarebbero stati abbattuti.

“Io non faccio bird-watching,” mi ha detto Antonio Andò quando gli ho chiesto di queste obiezioni. “Ma tra lo sviluppo del sud e lo spostamento di alcuni uccelli, bisognerebbe dare la priorità al primo”.

“Dev’essere costruito così che Silvio Berlusconi possa vederlo dall’alto”

Romano Prodi, l’avversario di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 2006, promise di congelare tutti i progetti sul ponte in caso di vittoria, e così fece una volta eletto. Ma dal momento che la politica italiana del dopoguerra è quello che è, Berlusconi tornò al potere due anni dopo, e il ponte tornò d’attualità.

Pietro Ciucci, amministratore delegato della società Stretto di Messina dal 2002 al 2013, annunciò che il cantiere sarebbe cominciato entro il 2010. Perché non fu così? “Alcune dichiarazioni, soprattutto a livello politico, non sono scolpite nel marmo”, mi ha detto Ciucci.

Nel 2010 Berlusconi assicurò che il progetto definitivo sarebbe stato discusso in parlamento entro la fine dell’anno. “Ma poi non successe niente,” mi ha detto Ciucci. Il capo delle sue pubbliche relazioni è intervenuto per spiegare che queste scadenze non erano da prendere alla lettera, avevano uno scopo psicologico: “Se dai scadenze vaghe, la gente se la prende comoda”, ha detto.

Quando nel 2011 Berlusconi si dimise, – fu processato per prostituzione minorile e concussione (sarebbe stato assolto in appello) – il ponte poteva sembrare la meno importante delle sue promesse non mantenute. Non aveva abbassato le tasse sul reddito e tanto meno dimezzato la disoccupazione. Dietro di sé lasciava una crisi del debito che impose misure di austerità. Il ponte ormai sembrava un lusso che l’Italia non poteva permettersi. Nel 2013 il successore di Berlusconi, l’economista Mario Monti, mise in liquidazione la società Stretto di Messina accettando di pagare ai suoi appaltatori più di trecento milioni di euro di danni per i contratti annullati.

Un termine che forse esiste solo in Italia è umarell, con cui si indica un anziano che si aggira intorno ai cantieri osservando i lavori e dando consigli non richiesti. Forse gli umarell sono il motivo per cui l’idea di costruire il ponte non muore mai, e il loro entusiasmo è la forza che lo sostiene indipendentemente dal politico di turno.

Il più improbabile di tutti i politici ad aver risuscitato questo progetto è sicuramente Matteo Salvini, l’attuale ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Il ponte comporta un investimento di dodici miliardi di euro nel sud d’Italia, i cui abitanti erano definiti da Salvini “parassiti” quando si batteva per la secessione del nord. Ancora nel 2016 ridicolizzava l’idea di un ponte sullo stretto: “Gli ingegneri dicono che non può stare in piedi”, dichiarava ai cronisti. “Non vorrei spendere qualche miliardo di euro per un ponte in mezzo al mare”. Ora Salvini è a capo di questo progetto.

Il progetto a campata unica è rimasto quasi lo stesso dagli anni ottanta

Lunardi, il ministro di Berlusconi, mi ha detto che Salvini lo ha chiamato per avere la sua assistenza poco dopo la vittoria di Meloni ma prima di assumere ufficialmente la carica di ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Salvini era deluso perché aveva sperato che Meloni lo nominasse ministro dell’interno. Lunardi gli ha suggerito di costruire impianti nucleari sotterranei e il ponte sullo stretto, dicendo che il ministro capace di realizzare queste strutture sarebbe “passato alla storia”. Lunardi era lieto di poter offrire i suoi consigli, perché pensava che solo un politico di destra sarebbe riuscito a realizzare l’opera. A sinistra “non ci sono uomini, non c’è forza, non c’è energia per farlo,” mi ha detto Lunardi. “Magari sono bravi a girare film o cose del genere, ma non possono costruire il ponte”.

Salvini si è messo al lavoro. Nel maggio 2023 il parlamento ha approvato una legge che autorizza la costruzione del ponte. A giugno è morto Berlusconi. Il ministro degli esteri Antonio Tajani ha dichiarato che il ponte deve essere ultimato presto così che l’ex premier possa vederlo “dall’alto”. Salvini ha detto che le ultime parole che Berlusconi gli aveva rivolto erano state: “Tutte le opere che ho iniziato le finirai tu”. Ha perfino assunto Pietro Ciucci per dirigere i lavori.

La città di Messina si estende in pianura, dove finiscono le colline vulcaniche dell’Etna fino al mare. Come dev’essere bello, ho pensato, vivere qui. Poi il traghetto si è avvicinato e mi sono accorta che i palazzi del lungomare erano coperti di crepe, le finestre sbarrate con assi di legno. Messina ha il record europeo del calo della popolazione dal 2015 al 2020. Le sue strade semideserte sono piacevolmente ombreggiate da alberi e palazzine basse. I bar vuoti servono meraviglie come la crema di caffè e la granita. In altri luoghi della Sicilia la maledizione del degrado architettonico e della paralisi economica è accompagnata dalla consolazione del turismo, ma non a Messina. Qui i pullman aspettano le navi al porto per trasportare i turisti a Taormina, a 45 minuti di distanza e perfetta per Instagram.

Cattedrale nel deserto

Quando ho visitato la città, all’inizio di settembre, l’ho trovata divisa tra chi voleva questo dono non richiesto e chi lo rifiutava. Avevo cercato dei sondaggi d’opinione, ma non ero riuscita a trovarli: non ne era stato fatto neanche uno. Evidentemente a Roma quello che vuole Messina non conta molto. Mesi dopo che Salvini aveva cominciato a parlare della costruzione del ponte, il sindaco della città si è lamentato con la stampa di non essere stato contattato.

Si chiama Federico Basile, un ex commercialista orgoglioso di aver migliorato la rete idrica e aumentato il numero degli autobus urbani da venti a 152, di cui sedici elettrici. Il suo compito, mi ha detto, non è tanto commentare l’iniziativa del governo centrale – anche se l’approva – ma capire cosa fare di un cimitero che si trova nella zona del cantiere, oppure se sarà possibile creare un “polo tecnologico” nella riviera rinnovata.

Sulla parete davanti all’ufficio di Basile sono allineati i ritratti dei precedenti sindaci di Messina. L’unico che non indossa un abito di sartoria è Renato Accorinti, un attivista eletto nel 2013 che portava solo magliette con slogan contro il ponte. Tra i momenti più significativi della sua amministrazione si ricordano l’apertura di un ricovero per senzatetto, una visita del Dalai Lama e il giorno in cui elogiò il duro lavoro di un netturbino tra gli applausi dei presenti. Per Accorinti, lo stretto è un luogo “sacro”, una riserva naturale che si è battuto per far riconoscere dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, e il ponte è una distrazione dai problemi di Messina.

“A sud non ci sono strade, scuole, fondi, posti di lavoro, ferrovie,” mi ha detto Accorinti. “E si vuole spendere una quantità colossale di soldi che non abbiamo per quei tre chilometri. Cosa si risolve con quei tre chilometri? Poter dire che è stata realizzata l’opera più grossa del mondo?”. Secondo lui, costruire un ponte in un luogo senza strade e ferrovie decorose significa costruire una “cattedrale nel deserto”.

I cittadini di Messina, come i sindaci, si raggruppano in due fazioni. I nonpontisti temono la prospettiva non irrealistica di un cantiere infinito. I favorevoli al ponte, come Davide Passaniti, che conduce una campagna sui social network a favore dell’infrastruttura, sostengono che è un rischio che vale la pena di correre e che quei fondi, se non verranno spesi per il ponte, non saranno comunque mai spesi per la Sicilia.

Un giorno, durante un acquazzone, mi sono rifugiata in una chiesa e ho chiesto a un sacerdote, Santi Musicò, cosa pensava del ponte. “Be’, se può portare qualcosa di buono è benvenuto. Ma se le cose rimangono le stesse è meglio che non facciano niente”, ha risposto.

Mi ha detto di aver perso le speranze per Messina. Ormai celebrava più funerali che matrimoni. Gli ho chiesto se credeva che il ponte sarebbe mai stato costruito. “Se lui lo vuole”, ha risposto indicando in alto. Verso Dio, ho pensato. Ma il sacerdote ha chiarito che si riferiva a un altro potere superiore imperscrutabile: Salvini.

In estate il ponte cominciava a suscitare delle critiche. Salvini non sopporta i mezzi d’informazione, ma ha a cuore la sua immagine, tanto che una volta il suo capo delle relazioni pubbliche mi ha mandato un messaggio: “Per favore, trattaci bene, altrimenti mi impiccano”. Il suo partito ha creato un sito per smascherare “le fake news” sul ponte, usando l’espressione inglese cara a Trump.

Il progetto a campata unica è rimasto sostanzialmente lo stesso dagli anni ottanta, anche se ogni governo che si è impegnato a realizzarlo ha migliorato i modelli. Il risultato è una formidabile impresa di ingegneria che promette di resistere ai terremoti di grande magnitudo meglio di qualunque altro ponte al mondo. Altri paesi hanno copiato l’idea, che prevede una ferrovia al centro e la carreggiata per le auto ai lati, un’innovazione che serve a frenare la forza dei venti.

Ma alcuni dei migliori ingegneri italiani temono che questo ponte sia una sfida impossibile. L’umanità ha impiegato più di un secolo per allungare la campata dei ponti a sospensione di un chilometro e mezzo, passando dai 486 metri del ponte di Brooklyn, nel 1869, ai 2.023 del ponte di Çanakkale, in Turchia, nel 2016. I record sono stati battuti poco alla volta. La campata del ponte sullo stretto di Messina si estenderebbe per 3.300 metri. È un grande balzo. E poi negli ultimi quarant’anni le navi sono diventate più alte. Il capo di Federlogistica, un’associazione che rappresenta le aziende di trasporto italiane, ha ammonito che le navi che superano i 65 metri di altezza non riuscirebbero a passarci sotto e a raggiungere il porto di Gioia Tauro, uno dei più importanti d’Europa. Il traffico del porto rischierebbe di ridursi del 17 per cento. Il ponte potrebbe diventare un ostacolo.

Se l’obiettivo è davvero solo collegare la Sicilia all’Italia continentale, il più alto ponte a sospensione del mondo, con tutti questi problemi, potrebbe perfino non essere più necessario. Enrico Giovannini, ex ministro delle infrastrutture, ha presieduto un’indagine indipendente concludendo che, considerate le nuove tecnologie, potrebbe valere la pena di rivalutare l’idea di un ponte con i pilastri che poggiano in acqua. Un’idea che nel 1986 era stata scartata per le forti correnti.

Oliviero Baccelli, professore di economia e management dei trasporti all’università Bocconi, mi ha detto che sarebbe favorevole a un tunnel, ma si rende conto “che non sarebbe particolarmente allettante e non renderebbe orgoglioso il paese, perché di fatto potrebbe farlo chiunque”. Un ingegnere che qualche anno fa ha presentato l’idea del tunnel al governo ha spiegato: “Mussolini voleva il ponte. Berlusconi voleva il ponte. Il ponte è un simbolo. Un tunnel non lo vede nessuno”.

Salvini ha liquidato le obiezioni dei giornalisti con battute estemporanee. A chi gli chiedeva se i cavi possono mettere in pericolo gli uccelli ha risposto: “Gli uccelli non sono stupidi”. A chi sottolineava i rischi di tentare un’impresa d’ingegneria senza precedenti, ha replicato: “Anche la cupola di Brunelleschi è unica al mondo”. Queste risposte veloci potrebbero essere il suo modo di fare politica o il segno che non ha un piano.

Ho parlato con Salvini in una breve videochiamata a settembre. Quando gli ho chiesto delle navi, ha risposto che quelle più alte di 65 metri si possono “contare sulle dita di una mano” e che il 99 per cento delle imbarcazioni potrebbe passare. Il modello di Berlusconi, mi ha detto, è l’unico modo di collegare Sicilia e Calabria. “È il progetto più studiato a non essere mai stato realizzato”, ha osservato.

Poco prima del nostro colloquio era arrivato alla stampa un promemoria della presidente del consiglio in cui si sottolineava che i soldi scarseggiavano: “Matteo dovrebbe contenersi”. Ma Salvini era sicuro che l’appoggio di Meloni sarebbe arrivato, e aveva ragione. Nel giro di un paio di settimane ha annunciato che il ponte era in bilancio e che i lavori sarebbero cominciati nella primavera del 2024. Il primo treno dovrebbe attraversare lo stretto di Messina nel 2032. Gli umarell che non riusciranno a raggiungere il cantiere potranno osservare i progressi in diretta online.

Torre Faro, un paese di pescatori a nord di Messina dove sorgerà un pilastro del ponte, si è ormai abituato alla costante possibilità di essere demolito. Negli anni di Berlusconi il direttore del Motel Faro rinviò i lavori di manutenzione perché aspettava una lettera di esproprio che non è mai arrivata. Oggi la struttura è in rovina. Ma perfino qui il ponte ha dei sostenitori. “Prima che venisse costruita la Torre Eiffel, c’era chi si opponeva al progetto”, mi ha detto il proprietario di un allevamento di cozze poco lontano dal possibile cantiere. “Io non sono come loro”.

Uno scopo concreto

Il ponte è un simbolo di grandezza, chi non lo vorrebbe? Ma diventando un simbolo di grandezza, il ponte ha perso la sua pretesa di essere quello che i ponti normalmente sono: simboli di unità. Opinionisti e politici, sostenitori e critici hanno condensato questo problema in un brillante aforisma: il ponte che divide.

Probabilmente è la più antica ambizione irrealizzata del paese. Quando nacque il Regno d’Italia, quando Mussolini prometteva un impero, quando la prosperità del dopoguerra era all’apice, quando Berlusconi faceva le sue promesse elettorali, quando la destra italiana ha prevalso, l’idea di quest’opera grandiosa era allettante. Il ponte sullo stretto non è lo spirito di un’epoca precisa. È un miraggio che appare ogni volta che lo stato si sente potente.

Poi arriva una crisi economica, il governo cade o succede qualcosa che spinge gli italiani a chiedersi se una vaga idea di grandezza basti a giustificare una spesa enorme. E il miraggio svanisce.

Salvini dice spesso che il ponte sarà intitolato a Berlusconi, l’uomo a cui attribuisce il merito di essersi avvicinato più di ogni altro alla sua costruzione. Ma sbaglia. La passerella improvvisata dagli antichi romani per far attraversare gli elefanti resta a tutt’oggi il tentativo migliore. Quel ponte galleggiante e temporaneo attraverso lo stretto di Messina, il primo e forse l’unico, contiene una lezione. Quando fu concepito per uno scopo concreto, il ponte venne costruito . ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati