A dicembre gli stati del Colorado e del Maine hanno deciso di escludere Donald Trump dalla candidatura alle elezioni presidenziali del 2024 sulla base della sezione 3 del 14° emendamento della costituzione. In risposta, l’ex presidente statunitense ha chiesto alla corte suprema d’intervenire in suo favore nel caso del Colorado, e ha fatto appello contro la decisione del Maine. Di conseguenza si pone una questione seria, e cioè se questo tentativo di proteggere la democrazia statunitense – escludendo un aspirante despota dalle urne – non sia a sua volta una minaccia per la democrazia del paese. Chi promuove e sostiene l’opzione del 14° emendamento distruggerà il villaggio pur di salvarlo? Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma ricordiamoci che Trump non è una figura politica come le altre. E nulla può oscurare questa realtà, per quanti tentativi si possano fare – con tesi strampalate, moniti a proposito di una pericolosa deriva antidemocratica o una negazione assoluta degli eventi – di presentare il Trump del 2024 come una figura molto diversa da quella del 2020.

All’epoca il presidente Trump si era presentato agli elettori chiedendo che gli concedessero altri quattro anni di mandato. Il 51 per cento dei votanti aveva detto di no. Ancora più importante, Trump aveva perso il collegio elettorale (l’organo che riunisce i grandi elettori scelti con il voto dei cittadini) 306 a 232, e questo significava che c’era un numero sufficiente di elettori proprio negli stati giusti per impedirgli un secondo mandato.

Nel 2020 aveva chiesto agli elettori di poter governare altri quattro anni. Il 51 per cento dei votanti aveva detto di no

Il popolo aveva deciso. E Trump aveva risposto a chiare lettere che non gliene importava niente. Secondo il rapporto finale della commissione d’inchiesta della camera sull’assalto al congresso del 6 gennaio 2021, l’ex presidente ha tentato di ribaltare il risultato delle elezioni. Trump, ha scritto la commissione, “ha esercitato illegalmente pressioni su funzionari statali e politici per modificare i risultati del voto nei loro stati”. Ha “supervisionato un tentativo di trasmettere falsi certificati elettorali al congresso e agli archivi nazionali”. Ha “convocato decine di migliaia di sostenitori a Washington per il 6 gennaio”, il giorno in cui il congresso avrebbe dovuto certificare i risultati, e “ha dato loro istruzioni di marciare verso il Campidoglio” per “riprendersi il paese”. Ha anche attaccato su Twitter il vicepresidente Mike Pence, sapendo perfettamente che in quel momento “era in atto un violento attacco al congresso”.

Trump “nonostante diverse richieste si è rifiutato di ordinare ai suoi sostenitori violenti di disperdersi e lasciare il congresso, e invece ha assistito all’attacco in televisione”. Non ha schierato la guardia nazionale, né ha “dato ordine di fornire supporto alle forze dell’ordine federali”.

Trump, insomma, ha cercato di sovvertire l’ordine costituzionale e di ribaltare i risultati delle presidenziali. E quello che non è riuscito a fare attraverso le arcane procedure del collegio elettorale, ha cercato di farlo attraverso la minaccia della forza bruta, messa in atto da un’orda di facinorosi.

Vista in questa ottica, l’argomentazione per l’esclusione di Trump in base al 14° emendamento non fa una piega. La sezione 3 stabilisce che “nessuno potrà ricoprire alcuna carica pubblica civile o militare se, dopo aver giurato di difendere la costituzione degli Stati Uniti, abbia preso parte a un’insurrezione o ribellione contro di essi o abbia dato sostegno ai nemici dello stato”.

Ha usato il suo potere per cercare di sovvertire l’ordine costituzionale. Escluderlo dalle elezioni è antidemocratico?

Come ha scritto lo studioso di diritto Mark A. Graber in una memoria legale presentata alla corte suprema del Colorado, “per insurrezione i giuristi statunitensi intendevano un tentativo di due o più persone d’intralciare con la forza o con l’intimidazione l’applicazione della legge federale”. All’epoca della ratifica dell’emendamento c’era anche un consenso legale sul fatto che un individuo fosse “coinvolto in un’insurrezione laddove deliberatamente incitasse, favorisse o comunque partecipasse a un’insurrezione”. Sappiamo anche che chi scrisse il 14° emendamento non intendeva escludere il presidente degli Stati Uniti da queste clausole. Nel 1870 il senato, controllato dai repubblicani, si rifiutò di far insediare il democratico Zebulon Vance, ex governatore confederato della North Carolina. È poco credibile pensare che gli stessi repubblicani sarebbero rimasti in silenzio se nel 1872 il Partito democratico avesse candidato un ex leader confederato alla presidenza. Secondo una semplice lettura della sezione 3 – e considerate le prove svelate dalla commissione sui fatti del 6 gennaio – Trump quindi non può candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti, né a nessun’altra carica federale.

La vera questione è più politica che costituzionale. Un’esclusione, secondo alcuni, porterebbe la democrazia americana al punto di rottura. Secondo questa tesi, privare i cittadini della scelta del candidato presidenziale distruggerebbe ogni residua fiducia nel sistema politico del paese. Incoraggerebbe anche gli alleati di Trump nel Partito repubblicano a fare altrettanto con i democratici, trasformando la sezione 3 in un’arma ed escludendo candidati per un’infinità di ragioni. Questo inoltre darebbe molto più potere ai tribunali, mentre l’unica sede appropriata per la questione Trump sarebbe la cabina elettorale.

Ma queste obiezioni poggiano su fondamenta deboli, perché considerano Trump un candidato ordinario e il 6 gennaio 2021 come una variazione della politica ordinaria. Tuttavia, come ha stabilito la commissione d’inchiesta, l’assalto al congresso e gli eventi che l’hanno preceduto non sono stati normali. E se molti statunitensi contestano ancora il significato dell’attacco al congresso, anche dopo la guerra civile in tanti contestarono il significato di secessione e ribellione. Il fatto che considerassero i leader militari e politici confederati come degli eroi non delegittimava certo il tentativo di tenerli fuori dalla vita politica. Trump e i secessionisti hanno in comune il rifiuto di ascoltare la voce dell’elettorato. Hanno rifiutato il principio fondamentale della vita democratica, il trasferimento pacifico dei poteri.

La premessa implicita dietro l’idea che Trump debba essere ammesso alle urne è che il pubblico debba ancora una volta avere la possibilità di votare per lui o contro di lui, e che lui rispetterà il verdetto. Ma sappiamo che non è così. Non è stato vero dopo le presidenziali del 2016 – quando conquistò la maggioranza dei grandi elettori ma si rifiutò di ammettere che Hillary Clinton aveva preso in totale più voti di lui – ed è stato ancora più evidente nel 2020.

Trump non è semplicemente un candidato che non crede nelle leggi, nei valori e nelle istituzioni che noi chiamiamo democrazia statunitense, cosa di per sé già abbastanza preoccupante. È anche un ex presidente che ha usato il suo potere per cercare di sovvertire l’ordine costituzionale del paese. È antidemocratico escluderlo dalle elezioni? Si infrange forse lo spirito della vita democratica negando agli elettori la possibilità di scegliere un ex presidente che ha tentato, sotto minaccia di violenza, di negargli proprio il diritto di scegliere? Minaccia forse l’ordine costituzionale il fatto di usare la costituzione per chiedere conto a un ex funzionario pubblico dei suoi tentativi di sovvertire quell’ordine?

La risposta, ovviamente, è no. Non c’è nessuna regola che dica che le democrazie devono concedere indulgenza illimitata a chi ha sfruttato la fiducia della gente per cospirare apertamente. Gli elettori sono liberi di scegliere un candidato repubblicano per la presidenza; sono liberi di scegliere un repubblicano con le idee politiche di Trump. Ma, se vogliamo prendere sul serio la costituzione, allora Trump dovrebbe stare fuori dai giochi.

Non andrà così. Ci sono buone probabilità che la corte suprema gestisca la questione della sezione 3 in modo tale da permettere comunque a Trump di presentarsi in tutti gli stati. Saremmo tentati di attribuire questo esito alla composizione della corte, e al fatto che Trump ha nominato tre dei suoi nove membri, ma credo che, se succederà, non sarà per questo motivo. Se Trump ha un superpotere politico, è perché le persone credono che lo abbia. Pensano che qualunque tentativo di metterlo di fronte alle sue responsabilità sarà controproducente. Credono che sfidarlo secondo regole diverse dalle sue lo renderebbe più forte che mai. Questo è quasi completamente falso. Ma nella misura in cui è vero, ha poco a che fare con i tiri sbagliati – per prendere in prestito il linguaggio sportivo – e molto a che fare con i tiri che fin dall’inizio non sono stati neppure tentati. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati