Una è insegnante, l’altra lavora nel turismo. Una settimana all’anno Alda Kirstensdottir e Tina Magnusson, rispettivamente di 34 e 37 anni, gestiscono da volontarie il rifugio della baia di Breiðavík, nei fiordi dell’Islanda orientale, una delle sue regioni meno conosciute. Dell’isola è nota soprattutto la parte meridionale, ormai vittima di uno sfruttamento turistico eccessivo: ogni anno arrivano in media due milioni e mezzo di visitatori in questo paese di 103mila chilometri quadrati, dove abitano 375mila persone, riunite in gran parte intorno alla capitale Reykjavík.

L’insenatura ha una spiaggia di sabbia nera. Qualche vecchio cavallo baio pascola mentre in cielo volteggiano le sule bassane. “Qui siamo lontane da tutto: niente internet, niente telefono, solo natura”, raccontano le due donne. Il rifugio è una casa di legno dipinta di verde con grandi dormitori, simile agli altri i rifugi della costa. La mattina incontriamo la proprietaria tedesca di un allevamento di cavalli, che organizza escursioni, e due dottoresse belghe. Una di loro, oncologa, porta qui i pazienti guariti o in convalescenza. Come tutta l’Islanda, anche i fiordi orientali sono il frutto del duello tra il fuoco e il ghiaccio. Migliaia di tonnellate di ghiaccio prodotte dalle glaciazioni hanno eroso le antiche piattaforme vulcaniche e nel corso dei secoli smussato le valli, al punto di creare dei lunghi fiordi. Quelli orientali, i primi a essere emersi dai flutti venti milioni di anni fa, spesso sono più corti e più profondi di quelli della parte nordoccidentale dell’isola. Queste insenature terminano con scogliere ripide che si gettano nell’oceano Atlantico o nel mare di Groenlandia. Dal villaggio di Höfn a quello di Borgarfjörður ci sono una decina di fiordi: il più corto è lungo un chilometro mentre il più lungo, quello di Seydisfjördur, diciassette. Intorno ci sono montagne che arrivano fino a 1.100 metri.

Rocce basaltiche

La nostra escursione passa da un villaggio di pescatori a un altro. Quello di Bakkagerði si estende tra la montagna e il mare. Le due maggiori attrazioni di questo paese sono Lindarbakki, una tipica casa in legno dipinta di rosso, con il tetto coperto d’erba, e un bar-ristorante, l’Alfacafe.

Il primo giorno arriviamo fino a Breiðavík. Dopo una facile salita si possono ammirare le scogliere di riolite, una roccia vulcanica chiara che colora questa parte dell’isola di tinte color pastello. Una piacevole alternativa al nero del magma raffreddato. Il sentiero è segnalato, come tutti gli altri, da piccoli picchetti gialli e neri.

Gli elementi che caratterizzeranno il paesaggio dei prossimi giorni sono già visibili nella prima tappa: l’incresparsi del mare al largo, le grandi strutture di basalto, l’erba bassa, la superficie luccicante dei laghi, le pecore grasse e lanose, che pascolano più o meno isolate (e dove potrebbero andare?) in attesa di essere riunite alla fine dell’estate dai pastori. La maggior parte dei terreni che attraversiamo è privata, ma i proprietari lasciano fare. Tra loro e gli escursionisti per ora c’è un tacito accordo. A volte capita di avvistare qualche animale selvatico: una volpe polare, quella che da lontano pensavamo fosse una balena, ma che poi grazie a un binocolo capiamo essere un gruppo di foche. Si possono vedere anche oche e cigni e nel nostro caso un visone terrorizzato che fugge passando tra le nostre gambe. I più fortunati, noi non siamo tra questi, possono ammirare anche i pulcinella di mare. Inoltre, al calare della sera, il cielo s’illumina della luce verde delle aurore boreali.

Il giorno successivo siamo alla baia di Húsavík. Il percorso sulla collina è caratterizzato dall’austera durezza delle rocce basaltiche. Una lunga discesa ci porta su una spiaggia di sabbia nera. Siamo in un deserto di minerali senza nemmeno un albero. Le pareti sono coperte di dicchi, lunghe lame di roccia magmatica che riempiono le fessure delle falesie. Si indovinano ancora i contorni della caldera, che segna il crollo del cono vulcanico quando il magma è ricaduto.

Di fronte a noi si alza lo Hvítserkur: un faraglione piramidale con una larga parete di riolite striata da vene di basalto nero che disegnano una sorta di scacchiera. Il rifugio è identico a quello del giorno prima ed è tenuto da un vecchio islandese taciturno che la mattina si alza presto per fare l’alzabandiera, un rito comune a tutti gli abitanti di questa nazione ancora giovane, indipendente dal 1944. Lo fa indossando solo un maglione che gli arriva alle cosce, lasciando irrisolto lo stesso mistero che circonda i kilt scozzesi.

L’ultima tappa dura due giorni e ci porterà fino al villaggio di Seyðisfjörður. Comincia con una lunga camminata da una valle all’altra per arrivare fino al fiordo di Loðmundarfjörður, un’ampia distesa erbosa su cui scorre il corso d’acqua che arriva in fondo alla baia. Alcune case lungo la riva del fiume, abbandonate all’inizio del novecento, sono state ristrutturate di recente. Sulla sponda opposta c’è una fattoria dove si allevano gli edredoni, che danno le piume con cui s’imbottiscono i sacchi a pelo più caldi.

Nel rifugio, vicino a una piccola chiesa, Birger Thorsen e Siffia Gestdottir, custodi per una settimana, accolgono molti cacciatori. La preda più ambita è la renna, vediamo per un momento quattro esemplari con macchie bianche e nere pascolare ai piedi della scogliera. Questi animali, introdotti nel 1776 per lottare contro la carestia, si sono moltiplicati fino a raggiungere oggi i tremila esemplari. Il giorno prima alcuni cacciatori ne hanno presi tre. L’ultimo giorno della nostra escursione saliamo fino a una pianura che si estende tra due colline, per arrivare sopra il fiordo di Seyðisfjörður. Lungo il sentiero ci fermiamo spesso a raccogliere mirtilli, visto che ce ne sono in abbondanza.

Ci fermiamo a mangiare vicino a una cascata. Alla fine del fiordo c’è il villaggio di pescatori, molto bello, tra le montagne Strandartindur e Bjólfur , diventato famoso per essere stato l’ambientazione della serie islandese Trapped, del regista Baltasar Kormákur, che ha potuto sfruttare anche l’isolamento invernale del posto, servito da un solo traghetto.

Il paese di Seyðisfjörður è noto anche per la sua piccola chiesa celeste, a cui si arriva attraverso una strada lastricata con i colori dell’arcobaleno, che quando esce il sole dopo la pioggia, si possono ammirare anche sopra le scogliere. ◆ adr

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati