In alcuni casi l’importanza di un’operazione militare non si misura in base ai suoi risultati. L’attacco lanciato dall’Iran contro Israele nella notte tra il 13 e il 14 aprile non ha provocato gravi danni, perdite umane significative o conquiste territoriali, e non ha neanche messo in crisi il sistema di difesa. Quasi tutti i droni e i missili lanciati dagli iraniani sono stati intercettati con largo anticipo e distrutti. L’operazione era largamente prevista sia dall’apparato di sicurezza israeliano sia dagli Stati Uniti, il principale alleato e protettore del governo di Tel Aviv.

Washington aveva avvertito più volte gli alleati europei e alcuni paesi arabi del Medio Oriente del rischio di un attacco imminente, come aveva fatto anche prima dell’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022. L’operazione iraniana poteva sorprendere solo chi fosse rimasto fermo alla situazione geopolitica precedente all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, quando l’amministrazione statunitense ha messo la credibilità morale e militare del paese a sostegno dello stato ebraico.

Subito dopo l’inizio dell’attacco iraniano, un alto funzionario americano ha dichiarato che Joe Biden è stato il “primo presidente degli Stati Uniti a difendere direttamente Israele”. Ma ora Washington si chiede come fare per placare un governo israeliano che da mesi respinge ogni invito degli Stati Uniti a cambiare il modo in cui sta conducendo la guerra nella Striscia di Gaza. Nella notte fra il 13 e il 14 aprile, al termine di una telefonata tra Biden e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la Casa Bianca ha fatto trapelare di essere contraria a qualunque attacco di Israele contro l’Iran.

Trofei simbolici

“Biden ha invitato il primo ministro a essere orgoglioso di quello che è riuscito a fare”, ha riferito John Kirby, portavoce del consiglio di sicurezza nazionale statunitense parlando al canale Msnbc. In altre parole, per gli Stati Uniti l’escalation deve fermarsi con la vittoria difensiva degli israeliani. L’amministrazione Biden vuole concentrarsi sull’azione diplomatica per isolare l’Iran. Per questo il 14 aprile è stata organizzata una riunione d’emergenza in videoconferenza dei paesi del G7.

Per Biden è il momento della verità. Dopo l’attacco di Hamas ha garantito un sostegno incondizionato al governo di Tel Aviv. Nonostante i crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano e la morte di più di trentamila palestinesi, in gran parte civili, Washington ha fatto molto poco per cercare di fermare l’offensiva israeliana. La priorità assoluta dell’amministrazione statunitense era evitare una guerra che coinvolgesse altri paesi della regione. Questa strategia oggi è a rischio.

Per la portata dell’attacco e per i mezzi mobilitati, l’Iran ha volutamente oltrepassato una soglia storica nella sua ostilità verso lo stato ebraico. In questa fase è impossibile misurare le conseguenze regionali della decisione. Quando si lancia un attacco con centinaia di droni e missili, anche i calcoli più raffinati possono essere compromessi da un errore umano, da un incidente di traiettoria, da un’interpretazione sbagliata delle intenzioni dell’avversario.

Da decenni il regime di Teheran dice di voler distruggere Israele, ma fino a poco tempo fa lo ha sempre colpito attraverso i suoi alleati regionali, soggetti non statali come gli huthi dello Yemen e Hezbollah in Libano, evitando qualsiasi scontro diretto. Il suo vasto arsenale di missili balistici era presentato come uno strumento difensivo. Anche quando si parla del programma nucleare, Teheran si è sempre messa nella posizione di poter smentire le accuse dei rivali e di poter conservare un certo grado di ambiguità. Ma è ancora possibile, in questo Medio Oriente così caotico, stabilire una differenza tra azioni offensive e difensive?

Circolo vizioso

Questa volta la vecchia tentazione di un attacco su più fronti contro Israele è stata messa in atto da Iran, Siria, Iraq e Yemen. Teheran ha scelto di attaccare in un momento di vulnerabilità per Israele e per gli Stati Uniti. I due paesi sono isolati a livello internazionale a causa della carneficina in corso nella Striscia di Gaza. Biden teme che le crisi di politica estera gli facciano perdere consensi in vista delle elezioni di novembre. La società israeliana è nervosa, stremata, frammentata, senza una chiara visione del futuro, al di là di uno scontro infinito con Hamas. La promessa di una vittoria con la chiamata alla mobilitazione generale, lanciata mesi fa da Netanyahu, si sta infrangendo contro la realtà della Striscia di Gaza, ridotta a luogo di morte e macerie. Israele non ha alcuna strategia politica.

In questa situazione di stallo, il governo israeliano cerca di usare la forza militare e lo spirito di vendetta per ottenere altri trofei simbolici. Va letto in quest’ottica l’attacco israeliano del 1 aprile a Damasco in Siria. Nell’operazione è stato ucciso il generale iraniano Mohammad Reza Zahedi, uomo chiave nei rapporti tra Teheran e Hezbollah, che guidava in Libano e in Siria la Forza Quds, un reparto d’élite dei Guardiani della rivoluzione islamica. La sua morte ha sconvolto l’Iran, non solo per l’importanza del ruolo di Zahedi ma anche per il luogo che Israele ha scelto di colpire. Il generale era con altri sei guardiani della rivoluzione nella sezione consolare dell’ambasciata iraniana. La stessa Casa Bianca ha precisato di aver saputo dell’operazione solo quando si era conclusa.

A quel punto il regime iraniano ha ritenuto di dover rispondere. L’omicidio di Zahedi è stato il più rilevante dopo quello di Qasem Soleimani, il generale ucciso nel gennaio 2020 dalle forze statunitensi, su ordine del presidente in carica all’epoca, Donald Trump. Anche se Israele non ha rivendicato l’attacco di Damasco, per l’Iran non rispondere sarebbe stato un segnale di debolezza. Avrebbe offerto allo stato ebraico un vantaggio strategico nella guerra fantasma che combattono da anni. Così Teheran ha voluto ristabilire una sorta di equilibrio, uscendo allo scoperto e mostrandosi determinata a usare i suoi considerevoli mezzi militari, dei quali ha fatto solo intravedere il potenziale.

La parola chiave per interpretare questa nuova fase è “deterrenza”. Dopo l’attacco di Hamas e l’inizio della guerra a Gaza, Israele e Iran sono stati costretti a rivedere drasticamente i termini della propria sicurezza e a ripensare le loro linee rosse, cioè il punto oltre il quale non ci si può spingere. Sono saltati i parametri tradizionali del conflitto tra Israele e le milizie armate palestinesi a Gaza, caratterizzato da brevi cicli di scontri, lanci di razzi, attacchi aerei e rare incursioni terrestri israeliane, seguite poi da cessate il fuoco precari, accordi economici e poi di nuovo altri scontri. In seguito all’attacco di Hamas, che tiene ancora in ostaggio 130 persone, Tel Aviv ha fissato un nuovo obiettivo per ristabilire la deterrenza: estirpare con ogni mezzo la minaccia rappresentata dal gruppo radicale palestinese.

Prudenza nei calcoli

Il comportamento dell’Iran poggia su una logica simile. Teheran ha evitato di scatenare una guerra regionale dopo l’inizio dell’offensiva terrestre israeliana nella Striscia di Gaza. Nonostante il terribile bilancio di vittime e l’indignazione, il regime è rimasto prudente nei suoi calcoli, lasciando che a rispondere fossero gli huthi, con i loro attacchi alle navi nel mar Rosso, ed Hezbollah, lanciando missili dal Libano sul nord di Israele. In molti credevano che l’Iran sarebbe rimasto fedele a questa strategia. Ma si sbagliavano: i suoi calcoli erano cambiati.

Attaccando per la prima volta in territorio israeliano, Teheran corre un grosso rischio, non solo per le possibili rappresaglie dentro i suoi confini ma anche per le ripercussioni regionali. L’offensiva ha riavvicinato a Israele i paesi sunniti che avevano sospeso il processo di normalizzazione dei rapporti a causa della guerra nella Striscia di Gaza. Il lancio dei droni e dei missili iraniani, fra il 13 e il 14 aprile, ha spinto la Giordania ad aprire il suo spazio aereo all’esercito israeliano, un gesto importante.

Sul piano diplomatico nessuno crede all’Iran quando dice di aver agito per legittima difesa, e il regime di Teheran sembra isolato sul piano internazionale, in compagnia del governo russo. La prospettiva di un cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele, che è promossa da Stati Uniti e Francia e prevede l’allontanamento della milizia sciita dalla frontiera libanese, sembra compromessa. Infine, l’attacco iraniano potrebbe mettere in secondo piano la crisi nella Striscia di Gaza. Attaccando Israele, Teheran ha contribuito a silenziare gli appelli rivolti agli Stati Uniti perché impongano delle condizioni alla vendita di armi a Israele. Le valutazioni geopolitiche hanno schiacciato la popolazione di Gaza. ◆ fdl

Dalla Striscia di Gaza

◆ Il 15 aprile 2024 sono state scoperte due fosse comuni nel nord della Striscia di Gaza: la prima all’ospedale Al Shifa nella città di Gaza e la seconda a Beit Lahiya. Il complesso sanitario è stato assediato dall’esercito israeliano per due settimane fino al ritiro il 1 aprile. Le nove vittime ritrovate sembrano essere pazienti della struttura e la loro morte sembra avvenuta di recente. I sopravvissuti al raid israeliano hanno raccontato di aver assistito a esecuzioni sommarie di palestinesi. Gli scavi per cercare altri corpi sono stati interrotti per paura dei bombardamenti israeliani. A Beit Lahiya sono stati trovati venti corpi decomposti, che secondo gli abitanti della zona appartengono alla famiglia Al Assaf, sterminata durante un’incursione delle forze israeliane quattro mesi fa. Secondo il bilancio rilasciato il 17 aprile dal ministero della sanità di Hamas, nell’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza sono morte 33.899 persone e 76.664 sono rimaste ferite. Afp


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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati