12 novembre 2015 20:48

Nel dicembre del 2009, durante i negoziati sul clima che si sono svolti nell’ambito della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) a Copenaghen, i negoziatori non sono riusciti a raggiungere un accordo globale. Le speranze erano state alte: con l’elezione di Barack Obama molti si aspettavano che gli Stati Uniti avrebbero dato una spinta ai negoziati. Invece, insieme a Brasile, Sudafrica, India e Cina, gli Stati Uniti hanno stretto un accordo separato non vincolante.

Tra le altre misure, l’accordo di Copenaghen prevedeva una cooperazione internazionale per raccogliere cento miliardi di dollari all’anno fino al 2020 al fine di aiutare i diversi paesi a tagliare le loro emissioni di gas serra.

Tutti parlano con tutti

Negli incontri di Doha del 2011, i leader dei diversi paesi hanno promesso di adottare un accordo sul clima al più tardi nel 2015. Ora il mondo è pronto per un’altra sessione di simili negoziati sul clima, che si terranno a Parigi a partire dal 30 novembre. Ma quanto è probabile che si raggiunga un accordo e che cosa conterrebbe?

Invece di radunare i pezzi grossi in una grande sala e presentargli un piano, come avevano fatto i danesi, i singoli stati hanno avuto nove mesi per preparare degli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra prima dell’incontro: una mossa intelligente. Più di 150 paesi hanno inviato le loro proposte e gli impegni di riduzione coprono quasi il 90 per cento delle emissioni globali.

Un recente rapporto di sintesi dell’Unfccc afferma che, in base agli impegni presentati, le emissioni nel ventennio 2010-2030 potrebbero diminuire tra il 10 e il 57 per cento rispetto a quelle del ventennio 1990-2010. Quindi riuscirebbero a limitare l’aumento delle temperature solo entro i tre gradi, e non entro i due come si sperava.

Ma Laurence Tubiana, principale rappresentante francese per le questioni climatiche, sostiene di essere ancora ottimista riguardo al raggiungimento dell’accordo perché “tutti stanno parlando con tutti”.

Questi progetti di riduzione risultano meno impressionanti se osservati da più vicino

Ed effettivamente, l’impegno dei grandi inquinatori sembra più consistente che in passato. La Cina prevede di raggiungere il massimo delle sue emissioni nel 2030, se non prima, e d’introdurre un piano nazionale di scambio di emissioni di carbonio nel 2017.

Gli Stati Uniti, invece, stanno per impegnarsi nel Clean power plan (Piano per l’energia pulita), che ha l’obiettivo di ridurre di 870 milioni di tonnellate le emissioni di anidride carbonica delle centrali elettriche entro il 2030, un taglio di quasi un terzo rispetto ai livelli del 2005, che equivale a togliere 166 milioni di auto dalle strade. Anche il Brasile ha intenzione, entro il 2030, di ridurre le emissioni di gas serra del 43 per cento rispetto ai livelli del 2005.

Come accade per molte altre promesse, questi progetti risultano meno impressionanti se osservati da più vicino. Gli Stati Uniti sono già a metà del loro percorso grazie al boom del fracking (fratturazione idraulica). Nessuno, inoltre, sa esattamente quanta anidride carbonica la Cina rilasci nell’atmosfera ogni anno e sarà quindi difficile misurare i suoi sforzi di riduzione.

Nel frattempo il Brasile è stato criticato per non aver affrontato in maniera significativa, nei suoi impegni, la deforestazione. Solo due paesi, Marocco ed Etiopia, sono pronti a fare la loro parte per limitare l’aumento del riscaldamento globale di soli due gradi, secondo il Climate action tracker, uno strumento di analisi gestito da quattro gruppi di ricerca sull’ambiente.

Tuttavia se, a partire da questi impegni, a Parigi sarà possibile raggiungere un accordo, come sembra molto probabile, si tratterà del più importante passo verso la riduzione delle emissioni mai compiuto fino a oggi. I paesi agiranno solo se saranno offerti i giusti incentivi e per questo le trattative diventeranno di natura finanziaria.

Una coalizione fondata sulla buona volontà potrebbe risultare debole, ma politicamente è l’unica soluzione possibile. Questo significa che un accordo non impedirà i cambiamenti climatici, ma offrirà un segnale agli investitori e alle aziende di un futuro più verde. E se riuscirà a includere una clausola che impone ai singoli paesi di rendere i loro impegni più ambiziosi ogni cinque anni, tanto meglio. Come dice Christiana Figueres, a capo dell’Unfccc, “non siamo più in un mondo d’ordinaria amministrazione, ma di amministrazione d’emergenza”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo di M.S.L.J. è stato pubblicato dall’Economist. Clicca qui per vedere l’originale.

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