01 dicembre 2015 16:09

Per più di due decenni, il 50 è stato una sorta di numero magico per i ciclisti del Tour de France. È questa la soglia massima di ematocrito, la percentuale del volume sanguigno occupata dai globuli rossi, presente nelle vene umane senza un contributo esterno. In The secret race (La corsa segreta) Tyler Hamilton, un ex ciclista statunitense, considerava il numero il suo personale valore azionario (“Sei un 43”, gli diceva il suo medico). Il britannico David Millar lo chiamava “il sacro graal dei ciclisti”. Chi superava la soglia del 50 era squalificato a causa del ragionevole dubbio che avesse usato l’ormone epo (eritropoietina), che fa aumentare l’ematocrito; ma chi correva con un numero più basso rischiava di rimanere indietro.

L’anno scorso si è scoperto che il 38 per cento dei primi dieci classificati in tutti i Tour de France disputati tra il 1998 e il 2013 si erano dopati con l’epo. Un’altra analisi pubblicata quest’anno sugli esami del sangue di 12mila sportivi d’atletica leggera ha rivelato che per ottocento di loro (il 6 per cento) c’erano “forti indizi di doping”. Eppure ogni anno solo l’1 o 2 per cento dei test sfociano in sanzioni. Qual è il segreto di chi si dopa?

All’inizio del ventesimo secolo, sostanze chimiche come la cocaina, l’etere e le anfetamine diventarono popolarissime tra gli atleti

Il doping esiste da quando esiste lo sport. La parola probabilmente deriva dal termine olandese dop, usato per indicare un miscela stimolante, mentre nell’antica Grecia gli atleti ricevevano sostanze che ne potenziavano le capacità fisiche. Folle rumorose assistevano a incontri tra atleti di lotta greco-romana completamente dopati. Nel 1889, quando il giocatore di baseball americano James “Pud” Galvin s’inebriò felicemente con un miscuglio ottenuto dai testicoli di scimmia, realizzando una prestazione da favola, il Washington Post parlò della “migliore prova, fino a oggi, del valore della scoperta” delle virtù di una nuova sostanza.

All’inizio del ventesimo secolo, sostanze chimiche come la cocaina, l’etere e le anfetamine divennero popolarissime tra gli atleti. La maggior parte di queste droghe agisce sul cervello, riducendo la fatica. In seguito gli steroidi e i corticosteroidi sono serviti a rafforzare la muscolatura. È stato durante la guerra fredda, negli anni settanta, che l’uso di droghe è cresciuto al punto da provocare una vera e propria crisi.

I paesi del patto di Varsavia promuovevano il “doping sistematico” delle loro atlete, “spesso a loro insaputa”, scrive David Epstein in The sports gene (Il gene sportivo). Settantacinque degli ottanta migliori lanci del peso femminili di tutti i tempi, per esempio, sono stati registrati tra la metà degli anni settanta e il 1990. Era un’epoca nella quale le donne recuperavano velocemente terreno sugli uomini nelle competizioni di atletica leggera: i medici avevano scoperto come migliorare le loro prestazioni semplicemente iniettandogli del testosterone.

Alcuni atleti hanno delle naturali mutazioni genetiche che gli offrono un legittimo vantaggio sugli avversari

Per la salute degli atleti è sempre stata una pratica dannosa, ma in più, oggi, questo tipo di doping comporta il rischio immediato di essere scoperti e squalificati. Attualmente il metodo preferito è quindi il “microdosaggio”. Invece d’iniettare l’epo in maniera sottocutanea (sottopelle), rischiando di allungare il periodo nel quale è possibile essere scoperti, gli atleti hanno imparato a somministrarsi delle dosi più basse direttamente in vena.

I vantaggi marginali sono importanti. La differenza tra il primo e il secondo classificato nella gara dei cento metri dei campionati mondiali di quest’anno era di 0,01 secondi, meno di un battito di ciglia. A questo si aggiunge che alcuni atleti hanno delle naturali mutazioni genetiche che gli offrono un legittimo vantaggio sui loro avversari. Ma quest’anomalia biologica può facilitare anche la vita di chi si dopa. Il più diffuso test antidoping è chiamato rapporto t/e, dove “t” sta per testosterone ed “e” indica uno steroide chiamato epitestosterone. Il corpo umano possiede normalmente dosi uguali di “t” e di “e” nel sangue.

Però l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) consente un rapporto t/e anche di quattro a uno, per non penalizzare quella piccola parte della popolazione che possiede naturalmente una variazione genetica. In questo modo, gli atleti con un sangue normale hanno un margine di manovra per potersi dopare, almeno finché non oltrepassano il rapporto t/e di quattro a uno.

Per affrontare alcuni di questi problemi, nel 2009 è stato introdotto il passaporto biologico degli atleti (Abp). Questo documento registra tutti i dati fisiologici vitali di un atleta al fine di generare un profilo sanguigno di riferimento.

Nel corso del tempo, una misurazione elettronica dovrebbe permettere a chi effettua i test di osservare le variazioni innaturali e i picchi improvvisi da confrontare con l’abilità naturale del corpo, per esempio, a produrre globuli rossi o a bruciare acido lattico. Questo strumento per ora sembra aver funzionato come deterrente.

Fino a poco tempo fa, per esempio, non esistevano test per rilevare il “doping sanguigno”, un metodo che prevede la trasfusione di campioni del proprio sangue, conservato in frigo, all’interno del proprio corpo, al fine di aumentare il numero di globuli rossi. Ma l’Abp dovrebbe essere in grado di rilevare le anomalie. Da quando è stato introdotto, la percentuale di test che rivelano un’anomala crescita di globuli rossi è stata dimezzata: un piccolo ma significativo passo in avanti.

Sostanze intelligenti e modi ancor più intelligenti di somministrarle continueranno a eludere i test finché le agenzie antidoping non avranno maggiori fondi (il budget della Wada è di appena trenta milioni di dollari) e non saranno meno corrotte (le soffiate prima di test casuali al di fuori delle gare sono frequenti). Nel settore del doping, la corsa agli armamenti è andata oltre la guerra fredda.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su The Economist. Per leggere l’originale clicca qui.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it