04 ottobre 2016 16:05

Davanti al caldo applauso che ha accolto Viktor Orbán mentre saliva sul palco del centro culturale Balna di Budapest, si poteva presumere che per il primo ministro ungherese fosse stata una grande serata. Ma non era così.

L’invito rivolto da Orbán agli ungheresi di bocciare, attraverso un referendum, le quote di richiedenti asilo proposte dall’Unione europea è stato accolto dal 98 per cento dei votanti. Ma nonostante la combattiva campagna del governo l’affluenza è stata molto inferiore alla soglia del 50 per cento, necessaria per rendere il voto valido.

Nel suo discorso Orbán ha sorvolato su questo aspetto, scagliandosi contro Bruxelles e promettendo di inserire il risultato del voto nella costituzione ungherese. Un portavoce del governo ha dichiarato che il fatto di non aver ottenuto il sostegno sufficiente non ha alcuna valenza politica.

La verità è un’altra: il risultato del referendum è un fallimento monumentale. Per settimane il governo di Orbán ha ripetuto ai giornalisti che il referendum non era né una semplice procedura legale né una risposta agli avvenimenti attuali. Il premier diceva che la bocciatura della politica europea non sarebbe stata applicata solo alla decisione di ricollocamento già presa dall’Ue, in base alla quale l’Ungheria dovrebbe accogliere 1.300 richiedenti asilo attualmente ospitati in Italia e Grecia (i governi di Ungheria e Slovacchia hanno portato il piano europeo in tribunale).

Al contrario, il no secco che Orbán sperava di ottenere doveva fare parte della “controrivoluzione culturale” che il primo ministro ha promesso di portare in Europa, una rivoluzione in cui le idee liberali come l’apertura ai profughi dovrebbero essere sostituite dai concetti identitari di famiglia, comunità e cristianità, privando l’Unione del potere di costringere i paesi recalcitranti ad accogliere i profughi.

La cosiddetta crisi dei profughi è stata una manna dal cielo per Orbán, perché gli ha permesso di sviare l’attenzione dagli scandali interni

Quando si è concretizzata la prospettiva di una scarsa affluenza al referendum, la campagna del governo ha virato verso la peggiore xenofobia, con manifesti e poster che mettevano in relazione i migranti, la criminalità e il terrorismo. Eppure, Orbán non è riuscito a convincere l’elettorato oltre ai sostenitori del suo partito conservatore Fidesz e di Jobbik, un’altra formazione di estrema destra. Il fatto che tutti i votanti si siano espressi in favore della posizione di Orbán indica che gran parte degli elettori dell’opposizione ha accolto l’invito a boicottare il referendum.

Dopo il risultato, il partito Jobbik ha chiesto a Orbán di dimettersi, accusandolo di aver sprecato fondi pubblici per alimentare il suo ego. Ma il fallimento del referendum non dovrebbe rivelarsi fatale per il primo ministro. La cosiddetta crisi dei profughi è stata una manna dal cielo per Orbán, perché gli ha permesso di sviare l’attenzione dagli scandali interni offrendogli l’occasione di non confrontarsi con Jobbik, in fase di ascesa.

Il fatto che i mezzi d’informazione siano stati adeguatamente neutralizzati è stato d’aiuto. Secondo gli ultimi sondaggi, Fidesz, che da sei anni può contare su una schiacciante maggioranza parlamentare, è ancora saldamente oltre il 40 per cento. Fino a quando l’Unione europea e Angela Merkel continueranno a sostenere il meccanismo di ricollocamento dei profughi (a Bruxelles stanno esaminando un piano permanente) Orbán potrà approfittarne.

Sul palcoscenico europeo Orbán esce umiliato dal referendum. Si tratta di un capovolgimento di prospettiva: la cattiva gestione della crisi dei profughi da parte dell’Europa (e secondo alcuni la decisione affrettata di Merkel, che l’anno scorso ha aperto i confini della Germania ai profughi) aveva creato uno spazio per il populismo antimmigrazione che Orbán è stato ben felice di sfruttare.

Il caos dell’anno scorso ha stremato gli elettori, e la posa da duro del primo ministro ungherese ha trovato ammiratori in tutta Europa, perfino tra i presunti alleati di Merkel (come Seehofer, premier della Baviera). I liberali hanno parlato allarmati di “orbanizzazione” dell’Europa, mentre la cultura dell’accoglienza sostenuta da Merkel ha lasciato il passo alla preoccupazione per i confini e la sicurezza. Oggi i leader europei parlano solo di proteggere le frontiere esterne, proprio ciò che Orbán ha sempre chiesto (e applicato).

Un alleato scomodo
Il risultato del referendum creerà più di una difficoltà a Orbán nel suo tentativo di presentarsi come il paladino dei paesi che rifiutano di accogliere i profughi, impedendogli di avere alleati nei vertici europei.

Inoltre, alcuni dei presunti alleati dell’Ungheria all’interno del club di Visegrad, a cominciare dalla Repubblica Ceca e dalla Slovacchia, potrebbero cominciare a temere che Orbán sia un alleato scomodo e controproducente per la sua aggressività nei confronti di Bruxelles.

Di sicuro saranno felici quelli che criticano la diffusione delle idee di Orbán, ma tutto questo non avrà alcun effetto sugli oltre 60mila profughi bloccati in Grecia e in attesa dell’applicazione del piano di ricollocamento.

Il timore che la politica europea rischiasse di saltare a causa di Orbán, un leader caricaturale di un paese con una popolazione inferiore ai dieci milioni di persone, è sempre stato esagerato. La verità è che sono stati gli errori dell’Europa e l’assenza di una vera leadership in altri paesi a regalare a Orbán una platea più vasta di quanto meritasse. La sua scommessa sul referendum è una mossa tipica di un leader che ama la politica degli slogan. A prescindere dal risultato e dall’affluenza, questo voto non avrebbe mai potuto aiutare l’Europa a trovare un accordo condiviso sulla gestione dei profughi, un problema che sta ancora lì.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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