19 dicembre 2016 15:11

Oggi dalle 9 (15 ora italiana) i 538 componenti del collegio elettorale degli Stati Uniti si riuniscono nella capitale dei loro stati per designare formalmente il nuovo presidente. Lo spoglio del voto avverrà fra quindici giorni in senato, a Washington, e a quel punto avverrà la proclamazione ufficiale del vincitore. L’investitura del nuovo presidente è prevista per il 20 gennaio 2017.

Alla vigilia di questo voto si è riaperto il dibattito sul sistema elettorale statunitense e diversi oppositori di Donald Trump sperano in un ribaltamento dei risultati dell’8 novembre. Infatti, tecnicamente Trump non sarà il presidente in carica fino al 6 gennaio. Come dichiarato nel dodicesimo emendamento della costituzione degli Stati Uniti, se qualsiasi candidato alla Casa Bianca conquista la maggioranza dei voti dei grandi elettori, diventa presidente. Tuttavia, anche se teoricamente possibile, è altamente improbabile che Trump non diventi il 45° presidente degli Stati Uniti.

I possibili scenari
Attualmente, se ogni grande elettore esprimesse il proprio voto secondo i risultati delle presidenziali di novembre, Trump riceverebbe 306 voti e Hillary Clinton 232. Il collegio elettorale ha 538 componenti, perciò sono necessari 270 voti per vincere. Per far sì che Trump perda le elezioni, almeno 37 “elettori infedeli” dovrebbero cambiare opinione. Per il momento solo uno di loro, Christopher Suprun, ha dichiarato che prenderà le distanze dai compagni repubblicani del Texas e voterà per un candidato che ritiene più consono per la carica, dato che Trump non ha le qualità giuste.

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Nel caso in cui nessun candidato raggiunga la soglia dei 270 voti, entrerebbe in gioco la camera dei rappresentanti che dovrebbe scegliere un presidente tra i primi tre candidati che hanno ricevuto il maggior numero di voti dal collegio elettorale. Questo scenario è avvenuto solo una volta, nel 1836, quando venti grandi elettori della Virginia si rifiutarono di votare per Richard Mentor Johnson, il vicepresidente di Martin Van Buren. Tuttavia, il senato ha confermato l’elezione di Johnson, annullando il tentativo dei venti grandi elettori.

Il collegio elettorale sotto pressione
Nelle settimane scorse si sono moltiplicati gli interventi degli oppositori di Trump per spingere il collegio elettorale a ostacolare la sua vittoria. Per esempio, Larry Lessing, professore di diritto a Harvard, fondatore di Electors trust ha esortato i grandi elettori a votare per Clinton, in quanto vincitrice del voto popolare, con 2,86 milioni di voti in più rispetto all’avversario repubblicano. Ci sono state anche pressioni da parte di personalità di Hollywood che hanno invitato i grandi elettori a “votare secondo coscienza”. Il gruppo Hamilton electors ha cercato di promuovere un candidato repubblicano alternativo. Una petizione online, che ha raccolto quasi cinque milioni di firme, riconosce ai grandi elettori “il potere e la possibilità di passare alla storia come gli eroi americani che hanno cambiato il corso degli eventi”.

Tuttavia l’eventualità che il collegio elettorale possa modificare l’esito delle elezioni presidenziali dell’8 novembre è molto improbabile. Prima di tutto i grandi elettori sono vincolati dalla tradizione storica e dal senso del dovere patriottico. Inoltre, in 26 dei 50 stati statunitensi, esistono delle leggi che obbligano i grandi elettori a rispettare i risultati delle elezioni e a votare il candidato per cui sono stati scelti. Nel caso in cui questo non accadesse, gli “elettori infedeli” potrebbero essere multati, sostituiti o addirittura incarcerati.

I grandi elettori designati dai partiti o dai candidati alla presidenza che hanno prestato giuramento sono, nella maggioranza dei casi, leali al candidato e al partito. I casi di “tradimento” nella storia sono molto rari: in occasione delle elezioni del 2000, per protestare contro la scarsa rappresentanza del District of Columbia (il distretto federale in cui sorge la capitale Washington) nel collegio elettorale, Barbara Lett-Simmons ha preferito non votare piuttosto che votare per Al Gore. Il suo rifiuto non cambiò nulla, dato che George W. Bush fu eletto con 271 voti. Secondo Richard Berg-Andersson, direttore del sito di analisi politica The green papers, dal 1948 solo nove grandi elettori hanno cambiato idea, ma questo non ha mai influenzato il risultato delle elezioni.

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