30 gennaio 2017 15:56

Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017. Nella sua prima settimana di governo, il nuovo presidente statunitense ha preso una serie di provvedimenti controversi, che hanno provocato forti proteste nel paese.

A partire dal 23 gennaio, Trump ha firmato diversi memorandum presidenziali e ordini esecutivi. Si tratta di misure simili ai decreti legge, che però tra di loro hanno una leggera differenza: gli ordini esecutivi, una volta firmati dal presidente, entrano automaticamente in vigore. Anche i memorandum devono essere pubblicati per diventare legge, ma questo non è un processo automatico e della loro pubblicazione se ne deve occupare il governo, che quindi può anche decidere di ritirarli in un secondo momento.

In realtà non è ancora certo che tutte le misure approvate da Trump nei suoi primi giorni di governo siano applicabili, perché potrebbero incontrare l’opposizione del congresso o degli stessi membri del governo. Inoltre, secondo diversi esperti, alcuni ordini esecutivi presentati da Trump hanno delle lacune dal punto di vista legale, un aspetto che potrebbe favorire, e anzi ha già favorito, ricorsi da parte della giustizia federale.

Ecco le principali misure prese da Donald Trump in questi giorni:

L’uscita dal Tpp. Il 23 gennaio il presidente ha firmato un ordine esecutivo per far uscire formalmente gli Stati Uniti dal Trattato transpacifico (Tpp), firmato nel febbraio 2016 da Barack Obama.

Si tratta di un accordo commerciale di libero scambio siglato da dodici paesi dell’Asia, dell’America e dell’Oceania che si affacciano sul Pacifico. I paesi che avevano firmato l’accordo, oltre agli Stati Uniti, erano Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Malesia, Vietnam, Singapore, Brunei, Messico, Perù e Cile.

In alternativa al Tpp, Trump vuole firmare degli altri trattati bilaterali – ma non ha ancora chiarito quali – che secondo lui riporteranno il lavoro negli Stati Uniti. Non è scontato che si troveranno dei partner disposti a firmarli. Trump ha dichiarato che vuole anche ritirarsi dall’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), dopo averlo attaccato più volte durante la campagna elettorale e aver costruito proprio su questo punto il suo consenso nella cosiddetta Rust belt, la regione compresa tra i Grandi laghi e il Midwest e colpita in questi anni dalla deindustrializzazione. Per avviare questa procedura però servono almeno sei mesi di preavviso.

Il memorandum sull’aborto. Sempre il 23 gennaio Trump ha firmato un memorandum presidenziale per tagliare i fondi federali alle organizzazioni non governative che offrono assistenza alle donne che praticano l’interruzione di gravidanza all’estero. La misura non riguarda quindi il territorio statunitense, ma si applica alle agenzie che operano all’estero ed è considerata preoccupante soprattutto da chi opera nei paesi in via di sviluppo, perché gli Stati Uniti sono tradizionalmente dei grandi finanziatori di queste organizzazioni.

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Questa misura, definita “Mexico City”, era già stata adottata nel 1984 dall’allora presidente Ronald Reagan. La foto del momento in cui Trump firma l’ordine esecutivo, nella quale si vedono sette uomini firmare una legge che riguarda il corpo delle donne, è diventata virale.

Il via libera agli oleodotti e i rapporti tesi con gli ambientalisti. Il 24 gennaio il presidente ha firmato due ordini esecutivi che danno il via libera alla costruzione degli oleodotti Keystone XL e Dakota Access. Entrambi i progetti erano stati bloccati da Barack Obama. La decisione è stata criticata dalle associazioni ambientaliste e dai gruppi di nativi americani dalla riserva Standing Rock Sioux, che da tempo si oppongono alla costruzione del Dakota Access.

Trump ha dichiarato che il progetto non è una minaccia all’ambiente e che creerà “centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro”. Secondo studi di settore, tuttavia, gli impieghi a tempo indeterminato sarebbero soltanto cinquanta.

Il 23 gennaio Trump ha imposto all’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) di interrompere le sue comunicazioni pubbliche e ha convocato un incontro con i dirigenti delle case automobilistiche, a cui ha detto che “l’ambientalismo è fuori controllo”.

Il muro al confine con il Messico. Il 25 gennaio Donald Trump ha firmato altri due controversi ordini esecutivi. Il primo ha dato il via libera alla costruzione di un muro al confine meridionale con il Messico per prevenire “l’immigrazione illegale, il traffico di droga e di persone e gli atti di terrorismo”.

Non è ancora chiaro chi dovrà finanziare la costruzione. Trump ha dichiarato più volte che il muro sarà pagato dal Messico, ma questa ipotesi sembra remota dopo che il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha deciso di annullare la sua visita a Washington prevista per il 31 gennaio 2017. Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha dichiarato che il presidente vuole finanziare il cantiere imponendo dei dazi del 20 per cento sulle importazioni messicane, ma in seguito ha fatto parzialmente marcia indietro dicendo che questa per il momento è solo “un’opzione”.

Il 25 gennaio è stato firmato un altro ordine esecutivo, quello sul controllo dell’immigrazione illegale. Nel provvedimento si annuncia un giro di vite contro le cosiddette sanctuary cities, cioè le città che, in base alle leggi locali o a scelte politiche dei suoi amministratori, proteggono i migranti senza documenti non applicando le leggi federali che prevedono la loro espulsione. Tra queste città ci sono New York, Chicago, Los Angeles e Washington.

Il “Muslim ban” e lo stop all’accoglienza dei rifugiati. Il 27 gennaio Trump ha firmato un ordine esecutivo che prevede la sospensione per 120 giorni dell’accoglienza dei rifugiati e limita l’ingresso dei musulmani nel paese. È stato sospeso per 90 giorni il visto alle persone (anche quelle con doppia nazionalità) provenienti da sette paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen. Per questo motivo l’ordine esecutivo è stato ribattezzato “Muslim ban”.

Da questa restrizione, si è capito in un secondo momento, sono escluse le persone che hanno una green card. L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione per le migrazioni (Iom) hanno contestato la misura, chiedendo di ritirarla.

Dopo che è stato firmato l’ordine esecutivo, diverse persone sono state fermate negli aeroporti statunitensi e all’estero (Cairo, Dubai e Istanbul). Alcune sono state espulse. Ci sono state molte manifestazioni di protesta negli aeroporti del paese. Diversi giudici federali (negli stati di New York, Massachusetts, Virginia, Washington e non solo) hanno bloccato temporaneamente le espulsioni.

Proteste nell’aeroporto internazionale di Atlanta-Hartsfield-Jackson ad Atlanta, il 29 gennaio. (Chris Aluka Berry, Reuters/Contrasto)

Sono nate delle polemiche inoltre perché nell’elenco dei paesi non c’erano per esempio né l’Afghanistan né l’Egitto o l’Arabia Saudita, paesi da cui provenivano alcuni degli attentatori dell’11 settembre. Trump si è difeso dicendo che la lista dei paesi è stata la stessa fatta seguendo le valutazioni dell’amministrazione precedente, quella di Obama. Per il presidente statunitense il “Muslim ban” non ha niente a che fare con la religione e il suo obiettivo è difendere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Diversi critici hanno anche fatto notare come Trump stia facendo affari proprio in alcuni di questi paesi esclusi dalla lista, come Egitto e Arabia Saudita.

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