08 agosto 2019 10:27

Tony Medina è un uomo educato, robusto, con le braccia completamente tatuate. È vestito di bianco, come tutti i detenuti del carcere Allan B. Polunsky Unit. Gli edifici della prigione, bassi e grigi, ospitano 214 condannati a morte. Ammanettato, legato a uno sgabello e con la cornetta in mano, nella stanza per le visite Medina si sente in vacanza. C’è silenzio, fatta eccezione per il rumore delle porte di metallo. C’è l’aria condizionata e soprattutto una lastra in plexiglass attraverso cui si può vedere il viso di un altro essere umano.

Il 31 dicembre del 1995, durante i festeggiamenti per l’ultimo dell’anno, Medina sparò da un’auto in corsa e uccise due bambini. All’epoca aveva 21 anni. Fu condannato nel 1996 e da allora aspetta l’esecuzione. In Texas la pena di morte si applica alle persone ritenute colpevoli di crimini efferati e considerate una minaccia per gli altri.

“Il mio primo ricordo del braccio della morte” è un assordante muro di rumore, racconta Medina. “Porte che sbattono, acciaio contro acciaio. Le prigioni sono fatte d’acciaio e cemento. Tutto rimbomba, continua a rimbombare, senza fine”. La prima notte in carcere l’ha trascorsa in un’ala completamente buia, piena di detenuti che urlavano. Un’esperienza sconvolgente. “Era un frastuono fatto di urla e colpi, moltiplicati all’infinito”.

Da solo 23 ore al giorno
All’inizio Medina divideva la cella con altre persone, ma nel 1998, dopo un tentativo di evasione da parte di alcuni detenuti, tutti gli uomini nel braccio della morte sono stati messi in isolamento. Per Medina è un’agonia: “Non sono stato condannato all’isolamento. Sono stato condannato a morte”. Da quel giorno e per i successivi 19 anni, Medina è rimasto da solo 23 ore al giorno, chiuso dentro a una scatola di cemento di due metri per tre. I secondini gli passano i vassoi con il cibo attraverso una fessura nella porta. Se sale in piedi sul letto può guardare attraverso una piccola finestra per l’areazione, vicina al tetto. “C’è gente che passa la giornata così”, spiega. Lui non lo fa mai: “Non voglio guardare quello che non posso toccare”.

Quasi ogni giorno gli spetta un’ora d’aria in un cortile. Anche lì è da solo. In cella legge (al momento una serie sui survivalisti), scrive e a volte dipinge. Parenti e persone che fanno volontariato – soprattutto donne europee – gli fanno visita e gli mandano messaggi. I carcerati gridano uno contro l’altro, da una cella all’altra. Il Texas, diversamente da altri stati, nega ai prigionieri in isolamento qualsiasi contatto fisico. Fanno eccezioni le frequenti ispezioni corporali da parte dei secondini. L’ultima volta che Medina ha toccato un parente era il 1 agosto del 1996, quando ha abbracciato sua madre.

Negli altri stati che prevedono la pena di morte, e nelle prigioni federali, le regole sono meno severe. In molti casi, i detenuti più giovani e quelli che soffrono di disturbi mentali sono fatti uscire dall’isolamento. Il Texas detiene il record nazionale per il numero di carcerati in isolamento (quattromila nel 2017), ma sta cercando di ridurne il numero.

Secondo un rapporto pubblicato nel 2018 dal centro studi Liman dell’università di Yale, l’anno prima negli Stati Uniti c’erano 61mila detenuti in isolamento, di cui 1.950 da più di sei anni. Oggi sono probabilmente di meno.

Vendetta
Medina è convinto che il Texas imponga l’isolamento ai condannati a morte solo per vendetta, non per ragioni di sicurezza. Definisce la sua condizione una “tortura violenta e disumana”, uno strumento di “intimidazione per far crollare mentalmente una persona” prima di ucciderla (in Texas un condannato a morte attende in media undici anni prima di essere giustiziato. L’attesa più lunga mai registrata è di 31 anni). È difficile dargli torto.

Secondo Dennis Longmire, docente all’università di Sam Houston nella vicina Huntsville, tenere una persona per tanto tempo in isolamento è costoso e inutile. Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno condannato ripetutamente questa pratica. Longmire ha testimoniato in quaranta processi, ripetendo che in generale i detenuti più anziani non sono violenti nei confronti degli altri. E ricorda che quando ha visitato il braccio della morte lo ha trovato assordante e sgradevole. Non sorprende che molti secondini chiedano il trasferimento.

La battaglia contro la pazzia non finisce mai

Diversi detenuti soffrono di disturbi mentali. Alcuni finiscono per suicidarsi. Medina racconta che un suo vicino di cella – un uomo “forte” – dopo 15 anni non ce l’ha più fatta. Le persone sviluppano problemi psichici a causa dell’isolamento e della deprivazione sensoriale, maturando un’ossessione per quella che considerano una persecuzione contro di loro. Per 17 anni a chi si trovava all’Allan B. Polunsky Unit è stato negato il permesso di comprare un tagliaunghie. Ancora oggi è proibito decorare le mura delle celle.

Spesso i condannati alla pena di morte crollano mentre aspettano l’esecuzione. Quando qualcuno è scortato verso l’iniezione letale – spesso opponendo resistenza – la situazione può diventare caotica. Da quando è in carcere, Medina ha contato 437 esecuzioni in Texas, incluse quelle “di uomini che consideravo come fratelli”. Per lui è particolarmente doloroso ascoltare i secondini chiacchierare e scherzare mentre un condannato viene portato via. Molti hanno problemi gravi. Un detenuto dell’Allan B. Polunsky Unit, Andre Thomas, si è strappato gli occhi e ne ha mangiato uno.

Medina parla in modo articolato e misurato, ma ammette che l’isolamento ha conseguenze pesanti. A volte ha improvvisi scatti di rabbia – che definisce positivi – nei confronti “del sistema”: “Per non impazzire mi dico che devo provare rabbia verso le persone che mi hanno chiuso qui”. La rabbia l’ha aiutato “a costruire molti muri, altissimi, nella mia testa”, ma “non è molto salutare” perché “può mangiarti vivo”. Medina sa che molte persone detenute in Texas, una volta scarcerate, non sono riuscite ad avere rapporti con gli altri.

Le sue parole ricordano quelle di Albert Woodfox, tenuto in isolamento in un carcere della Louisiana per quarant’anni prima di essere scarcerato nel 2016, a 69 anni. Di recente Woodfox ha pubblicato il libro Solitary, dove scrive che “la battaglia contro la pazzia non finisce mai” e ammette di aver distrutto il proprio “sistema emotivo” per sopportare l’isolamento.

Il punto non è se punire i colpevoli (Woodfox, tra l’altro, è riuscito a dimostrare di essere stato condannato ingiustamente). Il punto è se gli Stati Uniti possano trattare così qualcuno, anche i peggiori criminali. “Penso che la nostra situazione sia paragonabile a quello che succede in Cina, in Arabia Saudita o in Iran. Siamo come loro”, sottolinea Medina. “Gli esseri umani non dovrebbero essere isolati in questo modo”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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