17 novembre 2016 17:01

“Cantante cerca chitarrista”. Un pezzo di carta scritto di getto e appeso alla bacheca degli studenti dell’università degli Studi orientali e africani di Londra (Soas). È sbocciato così, quasi per caso, il talento di Amira Kheir, cantautrice italosudanese che solo qualche anno dopo quell’annuncio è stata ribattezzata dalla Bbc “la diva del deserto sudanese”. Il caso, però, c’entra poco. Il percorso artistico di questa promessa della world music ancora sconosciuta nel suo paese d’origine, l’Italia, rispecchia fedelmente la sua storia personale: un’identità divisa tra Europa e Africa, una vita tra Torino, Londra e Khartoum.

La prima volta che l’ho sentita cantare ero all’ultimo anno di liceo e, poco prima dalla maturità, andavo in giro per Londra in cerca di un futuro. In quei giorni l’università dove Amira studiava scienze politiche e cooperazione allo sviluppo appariva ai miei occhi come una Babele animata da giovani di tutto il mondo. Impossibile dimenticare quella serata: il pub tipicamente londinese a due passi dall’ateneo con bancone di legno e luci soffuse, lei seduta su uno sgabello alto, illuminata dall’occhio di bue e accompagnata da un chitarrista. Ai tempi il suo modo di cantare e l’aspetto fisico ricordavano Lauryn Hill: riccioli ribelli che spuntano dal cappello, una potenza vocale quasi mistica, figura esile e sorriso dipinto sul volto.

Nel continuo peregrinare alla ricerca di se stessa, Londra ha rappresentato una rivoluzione interiore per Amira. “Ha cambiato la mia autodefinizione identitaria. È una città talmente multiculturale che quando conosci qualcuno quasi non ha senso chiedergli da dove viene”. Così anche lei ha potuto scrollarsi di dosso i pregiudizi occidentali sul continente africano e le etichette che l’hanno accompagnata durante la crescita nell’Italia provinciale degli anni novanta.

In Africa le relazioni sono alla base di tutto e il tempo è ancora al servizio dell’uomo, e non viceversa come in Europa

Tutte le estati in visita ai numerosi parenti in Sudan (entrambi i genitori sono sudanesi) e alcuni anni dell’infanzia vissuti a Khartoum hanno poi contribuito a schiuderle le porte dell’Africa: “Un altro mondo dove, grazie alla famiglia, ho ritrovato valori genuini e autentici. Un luogo dove le relazioni sono alla base di tutto e il tempo è ancora al servizio dell’uomo, e non viceversa come in Europa. Non importa che tu sia in ritardo o che tu debba fare qualcosa dopo, se vai a trovare la zia e ti offre il tè finisce che ci passi le ore! Un po’ come con il caffè a Napoli.”

A Londra, dopo la laurea, si è dedicata anima e corpo alla sua passione. Ma, come spesso accade, cominciare è stato tutt’altro che facile per lei e i componenti del suo gruppo (prima studenti di musica della Soas come Ian, chitarrista scozzese, e Ana, pianista inglese, oggi musicisti professionisti come il contrabbassista veneto Michele Montolli, il batterista cileno Leandro Mancini e il chitarrista colombiano Camilo Menjura).

Il disco d’esordio del 2011, View from somewhere, acclamato dalla critica britannica, è stato il frutto autoprodotto di una lunga gavetta di prove e concerti malpagati. “Ho lavorato per anni in un bar per mettere da parte i soldi necessari a produrre il primo disco. Per la distribuzione, invece, è subentrata la Sterns.” La Sterns music, casa discografica britannica che per prima in Europa ha raccolto la musica di bande e orchestre africane, ha permesso al quartetto di Amira l’ingresso dalla porta principale ai più prestigiosi festival e jazz club del Regno Unito.

Uno spazio libero
La cantante soul che s’ispira ai classici afroamericani come Aretha Franklin, Whitney Houston e Sarah Vaughan decide presto di virare al jazz “perché è uno spazio libero della musica in cui tutto è possibile. Solo il jazz ti permette d’improvvisare andando al di là d’impostazioni classiche e parametri stilistici”. Lo spirito libero evocato da Amira è quello delle jam session, in cui musicisti che non si conoscono e non hanno mai provato insieme suonano cercando l’armonia tra diversi assoli per esprimere una visione comune. “È come nella musica sudanese e, più in generale, saheliana: la performance è centrale ed è un continuo dialogo improvvisato tra musicisti, un susseguirsi di chiamate e risposte, variazioni di standard riprodotti e modificati, una sperimentazione senza limiti”.

Riservata sugli aspetti più personali della sua vita, Amira vive la propria arte come un’espressione intima, naturale e, in qualche modo, spirituale: “Proprio come nella musica tradizionale africana nel jazz bisogna essere per forza se stessi. Non c’è tempo di costruirsi un’immagine, non ci sono maschere, né errori o sbagli. Se piace piace, gli altri comunque continuano a suonare”. Da come ne parla si capisce che per lei cantare è un atto liberatorio, la rivendicazione di un’uguaglianza universale fondata sull’unicità e la diversità di ognuno.

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“L’esperienza più forte che ho vissuto finora è stata suonare a Timbuctù, in Mali, durante il Festival au désert del gennaio 2012. Era la prima volta che ci esibivamo fuori del Regno Unito”. Quella del 2012 è stata l’ultima edizione del festival, qualche mese prima degli attacchi di Al Qaeda nel Maghreb islamico alla città. Dopo l’occupazione jihadista del Mali settentrionalee il conseguente conflitto (tutt’ora in corso) con le truppe francesi e maliane, questo evento culturale, che in passato attirava persone dai quattro angoli del pianeta, è stato prima interrotto e poi spostato in luoghi meno esposti come la capitale Bamako.

Nonostante sia oggi teatro di scorribande terroristiche e traffici di ogni genere (droga, armi ed esseri umani compresi), l’immensità del deserto ha conquistato Amira proprio sulle dune di Timbuctù. “Mi ha commosso”, confessa nascondendosi dietro una smorfia. “Dopo quel concerto mi sono sentita africana e non più solo sudanese”. Così gli echi musicali del Sahara conosciuto nel nord del Sudan – arrangiati da Nadir Ramzy, “vera e propria enciclopedia della musica tradizionale sudanese”, suonatore di oud da sempre al fianco di Amira – si mischiano a quelli dello stesso deserto ritrovato in Mali per confluire nelle sonorità e nel titolo del nuovo disco, Al Sahraa (2014). “La nostra musica è espressione di una necessità artistica più che di calcoli commerciali. Perciò anche per il secondo album abbiamo scelto la via dell’autoproduzione”.

La stessa ricerca introspettiva che ha guidato gli studi e la vita di Amira si ritrova nei testi in arabo, inglese e italiano delle sue canzoni. Come in Luna, unica ballata in italiano del disco, o in Sera, che gioca con le lingue rivisitando un antico genere musicale del Sudan (che in arabo dialettale è chiamato “sera”, termine che indica il canto tradizionale che accompagna le processioni celebrative). La cifra stilistica di questo disco, un attestato di maturità per Amira Kheir, riposa forse nella natura spuria: mixaggi e masterizzazioni ridotte al minimo, pezzi afrolatini e neosoul eseguiti in presa diretta senza registrazione di tracce separate, come nel jazz o nella musica tradizionale africana, “per eliminare il superfluo e catturare la magia spontanea del live nella sua radice corale e comunicativa, cioè nel rapporto tra i musicisti”.

Uscito il secondo album Amira spera di esibirsi, un giorno, in Italia e in Sudan, paesi in cui la sua musica non ha ancora trovato spazio. “Sono sicura che prima o poi arriverà il momento”. La ragazza cresciuta a Torino con Stevie Wonder, Prince e Marvin Gaye intervallati, all’ora di cena, dal folk e dal pop sudanese dei genitori ha fatto molta strada. E oggi è una delle voci di un mondo che, ad ascoltarne la musica, pare non conoscere confini.

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