09 aprile 2024 11:00

Wo zui xihuan de shiwu shi shousi, il mio piatto preferito è il sushi. Lo ha detto la giornalista Louise Matsakis in un video, esprimendosi in perfetto mandarino. Matsakis studia il cinese da pochi anni e le manca ancora molto per parlarlo in modo fluente. Ma nel video pronunciava ogni sillaba in modo impeccabile e nel tono giusto, senza errori o pause imbarazzanti, proprio come farebbe una madrelingua. La voce era morbida ma anche “leggermente aliena”, riconosce lei stessa in un articolo sull’Atlantic.

Aveva usato il software della HeyGen, una startup di Los Angeles, negli Stati Uniti, che permette di creare video deepfake, cioè di ricorrere all’intelligenza artificiale per far dire a persone reali praticamente qualsiasi cosa. Basta caricare una foto del loro volto e un testo, che poi viene abbinato a una voce artificiale e può essere tradotto in più di quaranta lingue. “La grafica di HeyGen ha dei difetti ma la sua resa linguistica è abbastanza buona, tanto che mi chiedo se tutti i miei sforzi per imparare il mandarino non siano sprecati”, scrive Matsakis.

La traduzione automatica non è sempre stata così convincente. Oggi molti non se lo ricordano più, ma i primi strumenti (Google Translate è del 2006) erano piuttosto scadenti: riuscivano a dare un’idea generale, per esempio, di un sito web francese o portoghese, ma spesso non erano in grado di svolgere i compiti più elementari. Nel 2010, nei Paesi Bassi, un mandato di comparizione tradotto dall’olandese al russo con Translate indicò a un imputato di non presentarsi in tribunale, mentre invece doveva andarci. Il grande salto in avanti c’è stato nel 2015, quando Baidu (il principale motore di ricerca cinese) ha reso operativo il suo servizio di traduzione automatica neurale su larga scala. In pochi anni le reti neurali, i sistemi di apprendimento automatico alla base di programmi come ChatGpt, hanno migliorato la qualità della traduzione fatta da una macchina, rendendola decisamente più affidabile.

Questi progressi si accompagnano però a un altro fenomeno: il crollo del numero di studenti che si dedicano alle lingue straniere, almeno in certi paesi. In Australia nel 2021 solo l’8,6 per cento di chi frequentava l’ultimo anno delle scuole superiori aveva scelto d’imparare un’altra lingua, un record negativo. In Corea del Sud e in Nuova Zelanda le università stanno chiudendo i dipartimenti di francese, tedesco e italiano. Nei college statunitensi tra il 2009 e il 2021 le iscrizioni ai corsi di lingue diverse dall’inglese sono diminuite del 29,3 per cento, mentre nei trent’anni precedenti erano cresciute costantemente. Lo scorso settembre, dopo un acceso dibattito, la West Virginia university ha deciso di eliminare il dipartimento di lingue e letterature straniere, rimpiazzandolo con un’applicazione online. In alcuni casi perfino la conoscenza dell’inglese si sta riducendo: in Francia la metà delle ragazze e dei ragazzi che finiscono la secondaria di primo grado non raggiungono il livello minimo previsto (A2) dal quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, un sistema elaborato dal Consiglio d’Europa.

Al di là dei fattori che potrebbero spiegare questa disaffezione – la pandemia che ha frammentato l’istruzione a tutti i livelli, i tagli subiti dalle discipline umanistiche – è chiaro che le nuove generazioni stanno rinunciando a imparare le lingue proprio mentre la traduzione automatica diventa onnipresente su internet (nelle app dei social media, nei servizi di messaggistica, nelle piattaforme di streaming) e in un futuro molto prossimo potrebbe entrare nella quotidianità di miliardi di persone.

La tecnologia naturalmente ha dei limiti. Funziona bene con l’inglese, il mandarino, l’arabo e il francese – per cui ci sono enormi quantità di testi digitalizzati e discorsi registrati (quasi sempre trascritti) – e meno bene con lingue poco presenti online come lo swahili e l’urdu. Secondo la maggior parte degli studi in cui sono stati coinvolti dei madrelingua, non fa bella figura neanche quando si confronta con la letteratura: offre traduzioni accettabili solo del 30 per cento circa degli estratti di romanzi (di solito passaggi semplici). Questo perché è meno abile a trovare soluzioni creative che preservano aspetti di un libro difficili da quantificare, come stile, ritmo, spirito, sensibilità. Inoltre può essere discutibile impiegarla in situazioni delicate, per esempio per tradurre le interviste dei richiedenti asilo e le testimonianze che arrivano da zone di conflitto. Si rischia anche di esagerare i suoi successi. Per promuoversi sui social Jumpspeak, un’app per l’apprendimento linguistico simile a Duolingo e Babbel, ha fatto delle pubblicità in cui una persona generata dall’intelligenza artificiale legge frasi tradotte dal computer: “Ho lottato con le lingue per tutta la vita. Poi ho imparato lo spagnolo in sei mesi. Mi hanno offerto un lavoro in Francia e ho imparato il francese. Ho imparato il mandarino prima di visitare la Cina”. A ogni frase, passa da una lingua all’altra.

Tralasciando i punti deboli e le promesse inverosimili, se diamo comunque per scontato che i traduttori automatici supereranno di gran lunga le competenze tecniche di un laureato medio in lingue, la conclusione condivisa da molti esperti di didattica e linguistica è che l’attenzione degli insegnanti dovrebbe spostarsi dagli esercizi di grammatica alla comprensione delle pratiche e delle culture radicate nei vari contesti.

Valerie Trapp, un’altra giornalista dell’Atlantic, racconta che il suo approccio è stato grosso modo questo. Lo spagnolo è la prima lingua che ha imparato, trascorrendo la prima infanzia nella Repubblica Dominicana, ma quando da bambina si è trasferita negli Stati Uniti lo ha praticamente abbandonato per l’inglese.

Tornata a Santo Domingo da adulta si è accorta che il suo spagnolo suonava “un po’ datato” e che con i coetanei faceva fatica a esprimere una personalità. Per recuperare si è buttata sullo slang (cioè su parole e frasi alternative al linguaggio usuale), autoimponendosi lo studio del reggaeton. “Ben presto”, scrive, “il mio spagnolo si è ampliato oltre la versione che avevo imparato a casa. Lo slang mi stava insegnando qualcosa di fondamentale: che, a differenza di quanto molti di noi hanno interiorizzato a scuola, la lingua non è un rigido algoritmo da decodificare. È fluida, mutevole ed eterogenea”.

Gli intrecci creativi dello slang mettono in crisi i modelli di traduzione automatica, ma attirano in modo unico il nostro interesse. Nel saggio Slang: the people’s poetry Michael Adams, professore di inglese all’Indiana university, cita uno studio che ha misurato l’attività cerebrale di alcune persone mentre leggevano Coriolano di Shakespeare. I ricercatori hanno scoperto che quando nell’opera il linguaggio era usato in modo più originale, per esempio se un sostantivo era trasformato in un verbo, il cervello si attivava di più. Questo espediente rientra in quello che i linguisti chiamano spostamento funzionale, ed è una tattica dello slang.

Lo slang, continua Trapp, può collegarci a una versione attuale, anche se passeggera, di una cultura. E per chi si confronta con la lingua d’origine della propria famiglia, aiuta ad ascoltare parti inesplorate di sé. Soprattutto, però, impararlo è divertente, come dovrebbe essere imparare una lingua.

Questo testo è tratto dalla newsletter Doposcuola.

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